Secondo una determinata lettura del fenomeno del tradurre, la stessa esistenza umana è un tradurre, il nostro stare nel mondo e nella storia è un tradurre. Noi non solo traduciamo dal greco al siriaco e dal siriaco allo spagnolo, non solo traduciamo da una lingua all' altra, ma traduciamo anche all' interno della nostra stessa lingua.......
Questo testo fu pronunciato da Franco Volpi nel corso di un seminario della casa editrice Laterza in onore di Mario Carpitella, cui hanno partecipato Marco Cassini, Renata Colorni, Tullio De Mauro, Daniela Di Sora, Carmine Donzelli, Gianni Ferrara degli Uberti, Sandra e Sandro Ferri.
Da oggi è disponibile in rete all' indirizzo web www.laterza.it.
Ho un' esperienza di traduzione molto limitata, settorialmente limitata: ho tradotto soprattutto Heidegger. E si sa, tutti dicono che Heidegger sia intraducibile. Io credo che dichiarare un qualcosa come intraducibile significa far torto alla propria lingua. In realtà, si tratta di costruire un ponte ermeneutico...
Certo, se uno parte dall'idea che tradurre voglia dire tradurre de verbo ad verbum, beh allora certamente ci si scontra con parole che sono intraducibili; polis è un termine che non tradurrò mai in un linguaggio moderno, perché è una parola che indica un contenuto semantico che è morto, non c' è più; io quindi solo a fatica riesco a costruire nella mia mente un equivalente di quello che per un greco polis indicava con immediata evidenza.
Ciò non vuol dire che abbia ragione Heidegger, il quale sostiene che le traduzioni fanno perdere la semantica originaria, per esempio, del greco, e la impoveriscono.
Se io dovessi ritradurre in greco, per esempio, la parola italiana "religione" - "religione", tra l' altro, è una parola fondante della cultura europea - non troverei in greco antico una parola che corrisponda alla religione come la intendiamo noi; trovo vocaboli come theologia,o altri termini che si avvicinano al nostro significato, ma non trovo ciò che "religione" (con una etimologia peraltro assai controversa, ce ne sono almeno quattro che circolano) vuole dire.
Secondo una determinata lettura del fenomeno del tradurre, la stessa esistenza umana è un tradurre, il nostro stare nel mondo e nella storia è un tradurre. Noi non solo traduciamo dal greco al siriaco e dal siriaco allo spagnolo, non solo traduciamo da una lingua all' altra, ma traduciamo anche all' interno della nostra stessa lingua, dall' italiano di Dante all' italiano attuale, dal francese di Montaigne al francese di oggi: chi gira in questi mesi per le librerie francesi, scopre che uno dei libri più venduti è una traduzione in francese moderno dei saggi di Montaigne.
E non solo traduciamo tra fasi della nostra lingua lontane fra loro, ma traduciamo anche dentro il nostro stesso mondo, traduciamo a volte anche tra marito e moglie: "tesoro", a seconda dell' intonazione con cui è detto, ha una stratificazione, una polisemia di valenze per cui può essere espressione di affetto, di arrabbiatura o di insopportabilità. Il che vuol dire che anche rispetto alle persone che ci circondano noi siamo esseri condizionati dal nostro stare nel mondo e nella storia, in un linguaggio, e la nostra relazione è continuamente intrisa e sollecitata da un insieme di operazioni: di sintesi, di comprensione, di mediazione che dobbiamo compiere, tra quello cheè il nostro orizzonte, la nostra prospettiva di esseri finiti, limitati, e quella degli altri.
Da questo punto di vista credo che nel traduttore professionale venga a emergere (anche se probabilmente la maggior parte dei traduttori non se ne rendono nemmeno conto) quella che è la tipica condizione umana, quella dell' uomo mediatore, dell' uomo articolatore, dell' uomo che continuamente deve gettare ponti ermeneutici tra quello che è il suo mondo e il mondo dell' altro, chiunque sia quest' altro - il suo prossimo, o qualcuno di una lingua lontana o di un secolo lontano.
Ci sono stati nella storia momenti in cui all' attività di traduzione è stata attribuita un' importanza determinante.
Pensiamo per esempio alla polemica che è stata suscitata, con echi anche sui quotidiani, dal libro di Gouguenheim ( Aristotele contro Averroè, Rizzoli). Gouguenheim sostiene che l' Occidente non deve nulla al mondo arabo, perché già i monaci dell' abbazia di Mont Saint-Michel - in particolare un veneto, mi permetto di ricordarlo, Giovanni Veneto - avevano tradotto direttamente dal greco in latino e commentato praticamente tutto Aristotele. E questo, secondo le sue ricerche, circa 50 anni prima che iniziasse la mediazione araba, che era poi una mediazione di mediazioni - attraverso il siriaco -, come nel caso di Averroè, su cui Borges ha scritto il bellissimo La busca de Averroes. Averroè rappresenta davvero una situazione disperata, simile a quella descritta da Mario Carpitella, perché era un medico, non conosceva il greco, e non conosceva nemmeno il siriaco, perciò leggeva una traduzione della traduzione: eppure è passato alla storia come colui che "il gran commento feo": commentò un autore che di fatto era per lui di terza mano.
Ma ciò portò a quella fioritura che fu la Scuola di Toledo, dove operarono personaggi come Domenico Gundisalvi, Giovanni Ispano, Michele Scoto, poi finito in Sicilia.
Insomma, ci fu un' attenzione così forte per la traduzione da portarla davvero ai vertici del lavoro culturale dell' epoca.
Si pensi a san Tommaso, che aveva il suo traduttore, Guglielmo di Moerbeke, che gli tradusse, per esempio, la Politica. Osservando come traduceva Guglielmo di Moerbeke si rimane impressionati: non c' è parola, non c' è espressione, non c'è nuance del testo greco che sfugga alla sua presa di traduttore. Era davvero un lavoro di altissima arte, di altissima tecnica, perché evidentemente questa performance culturale era ritenuta qualcosa di essenziale, come di fattoè stato, visto che grazie a questa vasta opera di traduzione si ebbe poi in Europa la fioritura culturale che avrebbe raggiunto il suo apice in quello che Huizinga chiamerà appunto "l' autunno del Medioevo".
Rimane, tuttavia, in piedi il problema della intraducibilità.
Questo riporta la nostra attenzione sui limiti del tradurre: da un lato il tradurre è qualcosa che pervade tutto il nostro stare nel mondo, nella storia, in un linguaggio; dall' altro lato è qualcosa che segna anche i limiti dentro i quali ci muoviamo, proprio in quanto esseri finiti.
Noi possiamo anche concepire concettualmente una entità ideale, supponiamo il valore ideale (faccio un esempio banale) 2 per 2 che fa 4, e lo posso esprimere in italiano, lo posso esprimere in tedesco, in francese, in inglese, lo posso calcolare con il calcolatore meccanico, con il calcolatore digitale, nei modi più diversi: attraverso le scorie empiriche di un linguaggio - poniamo l' italiano - posso raggiungere quel valore ideale, un valore matematico ideale a cui io do un rivestimento che è invece caduco.
È dunque interessante notare come il ponte ermeneutico che io costruisco nel tradurre è qualcosa che caratterizza la mia situazione di essere parlante in quanto tale: benché io arrivi a concepire una idealità, non posso tuttavia mai raggiungere questa idealità nella sua purezza, ma la conosco sempre e soltanto attraverso le scorie di un linguaggio particolare.
Per fare un esempio e forse rendere la cosa più evidente: se io cerco, poniamo, le sensazioni dell' originale del Requiem di Mozart, non potrò raggiungerle mai, perché io non ascolto l' originale ma ascolto sempre von Karajan o qualche altro direttore d' orchestra che esegue e interpreta quell' originale, che non mi è mai dato allo stato puro.
La traduzione, dunque, è in qualche modo l' inevitabile declinazione nella quale dobbiamo calarci quando vogliamo comprendere un contenuto, una idealità, un qualsiasi altro elemento che fa parte del nostro mondo. È un qualcosa di inevitabile che ci portiamo addosso, anche quando non siamo traduttori, così come la chiocciola va in giro sempre accompagnata dal suo guscio. - FRANCO VOLPI
Repubblica — 07 luglio 2009 pagina 40 sezione: CULTURA