venerdì 9 marzo 2012

Flautate vertigini mistiche

Avevo visto la danza dei dervisci molti anni fa nella chiesa del Carmine a Brescia. Bellissima, anche se erano evidenti i limiti dell'esecuzione solo "spettacolare" di cui si lamenta mons. Ravasi.

 


I dervisci
Flautate vertigini mistiche
Alberto F. Ambrosio ci guida tra i segreti racchiusi nel semâ, la danza mistica del sufismo carica di simboli
di Gianfranco Ravasi
«Amore nelle mie vene e nella mia pelle scorre come il sangue. Esso mi ha svuotato e mi ha riempito dell’Amato. L’Amato ha invaso ogni particella del mio essere. Di me non resta che il nome: tutto il resto è Lui». Così cantava il grande maestro dei dervisci (termine persiano, dar wish, che designa il mendicante sia materiale sia spirituale che bussa alla porta della Verità) Rumi, contemporaneo di Dante, autore di un immenso ed emozionante poema, il Mathnaví di 25.600 028.000 versi doppi (tradotto in italiano da Nûr-Carla Cerati Mandel e Gabriele Mandel Khan presso Bompiani nel 2006).
Il proemio di quell’opera è scandito dall’indimenticabile canto del flauto di canna (ney) che accompagna, tra l’altro, il semâ, la danza mistica che ha reso celebri i dervisci in tutto il mondo. Il flauto, che pure vive un’esperienza esaltante come strumento di armonia musicale capace di emozionare le creature umane, sente una lacerazione intima insanabile: è la nostalgia del canneto nel quale era un essere vivente. E la metafora subito si scioglie perché s’intuisce l’anelito dell’anima umana, prigioniera nel corpo e nel tempo, verso la sua origine trascendente nella quale la comunione con l’uno, Dio, era piena. Ecco perché si chiede all’Amato di irrompere nelle vene e nelle fibre intime del nostro corpo per trasfigurarlo, così da ritornare alla patria perduta dell’intimità divina. Si comprende facilmente la ragione per cui questo movimento, che si inseriva in quello più vasto dei sufi, la corrente mistica dell’islam, sia stato visto con sospetto dall’ortodossia musulmana fieramente trascendentale. È curioso notare che, nella contaminazione linguistica presente nel Mathnaví, Rumi definisce spesso l’amore” con la parola “cristiano”, memore della dottrina neotestamentaria dell’agápe, l’amore celebrato da Giovanni e Paolo.
A chi vuole avviarsi lungo i percorsi d’altura di questa esperienza, che non di rado crea vertigini, o anche più semplicemente desidera recarsi in visita a Konya, la città della Turchia nota come Iconio anche negli Atti degli Apostoli (14,1-7) per il soggiorno di san Paolo, alla ricerca dei mevlevi, i discendenti di Mevlâna Rûmî là sepolto, e della loro danza (a Costantinopoli li cercherà anche Edmondo De Amids), possiamo consigliare ora una guida straordinaria. La si legge quasi come un libro d’avventura (non solo dello spirito) lungo la quale si procede come pellegrini stupiti, che avanzano di meraviglia in meraviglia, anche quando si descrive solo la cucina dei monasteri dervisci, chiamati dergâh, cioè la “porta” che introduce nell’intimità ascetica. A condurci in questi orizzonti che hanno una loro geografia, un’architettura, una planimetria – oltre naturalmente a una loro storia che risale ai Selgiuchidi, procede attraverso l’era ottomana e approda al colpo di mannaia “laico” di Atatürk che invitò i conventi a trasformarsi in fabbriche – è un domenicano che vive a Istanbul e che è uno dei massimi studiosi del sufismo, Alberto Fabio Ambrosio.
Con lui sostiamo davanti al derviscio col suo abbigliamento carico di segrete simbologie: ad esempio, il suggestivo copricapo conico di feltro di color miele, il sikke, evoca la pietra tombale, mentre la veste il sudario e il mantello nero la trasmissione della benedizione e del potere spirituale. Ci inoltriamo poi nel suo rigoroso noviziato che, con un maestro spirituale e un patto di iniziazione, conduce l’aspirante a diventare membro della confraternita, dopo un lungo ritiro di ben 1001 giorni.  In quel momento l’apprendista che si è inerpicato in questa ascesa/ascesi è pronto a entrare nella cella che lo trasforma da novizio in dede, “anziano”. Ma con impazienza attendiamo di assistere al semâ, la danza sacra che nel 2007  l’Unesco ha proclamato patrimonio dell’umanità. La musica “microtonica” che l’accompagna (basata cioè su intervalli minori rispetto a quelli del tono e semitono della nostra musica) – scrive Ambrosio – «è il riflesso terreno delle sfere celesti, il ricordo della brezza che soffia nel Paradiso eterno…, uno dei capisaldi della vita spirituale che conduce all’estasi e all’unione con Dio che si realizza nel profondo».
Infatti, il termine semâ deriva da una radice araba (ed ebraica) che indica l’ascolto della Parola divina di cui la musica è veicolo, mentre la danza che con essa s’intreccia si ricama su un emozionante rituale la cui costellazione simbolica è decifrata in queste pagine con una finissima ermeneutica. Il librarsi dei dervisci, pur così febbrile e infiammato, segue infatti un canone dai molteplici e spesso minimi ammiccamenti metaforici: basti solo pensare alla caduta del mantello nero che lascia il corpo del danzatore avvolto soltanto nel candore della veste e che diventa simbolo di risurrezione, o al noto gesto delle braccia aperte col palmo destro rivolto al cielo e il sinistro verso terra, segno estatico con cui il mevlevi tende la mano al delo «in atteggiamento di accoglienza dell’Amore da diffondere e distribuire a tutte le creature». Ma in agguato c’è sempre il caleidoscopio della polisemia, perché con quel gesto il derviscio forma due lettere dell’alfabeto arabo che reggono la negazione lâ, primo termine del credo islamico: lâ ilâh illâ Allah, «Non vi è dio fuori di Dio». La danza si trasforma, così, in professione di fede. Mille altri segreti si scoprono proseguendo l’itinerario testuale all’interno di questa guida, che ampio spazio riserva alla teologia mistica sottesa sia al semâ sia all’esistenza del mevlevi.  Dio è nel cuore della sua danza, della sua preghiera, della sua spiritualità, in una comunione assoluta che ha nello zikr uno dei suoi apici. Si tratta di una ripetizione “in-finita” del nome divino, così da operare una sorta di “trasfusione” di essenza tra divino e umano, una prassi mistica che è nota anche alla tradizione cristiana orientale, soprattutto russa, perché – affermava Rumi – «per gli innamorati la religione è Dio». Si comprende, allora, quanto siano discutibili non solo l’esecuzione “spettacolare” del semâ, ma anche certe infatuazioni ocddentali per il sufismo legate solo ad aspetti estrinseci e fin folclorici o esoterici, senza penetrare nelle profondità abissali della sua esperienza mistica. Anche per questo il libro di p.Ambrosio è prezioso, così come – a livello più immediato – per la nostra società sarebbe utile declinare il celebre adagio sufi: «Mangiare poco, dormir poco e parlare poco», ma non per una dieta, bensì per lasciare spazio al mistero di Dio.
Alberto Fabio Ambrosio, Dervisci. Storia, antropologia, mistica, Carocci, Roma, pagg. 190, € 16,00

da: Il Sole 24 ore del 19 febbraio 2012