Riporto la prima parte dell'articolo di Eugenio Scalfari, pubblicato su "La Repubblica" domenica 29 giugno
Molte cose sono accadute in questi
giorni in Europa e in Italia. Ne passerò in rassegna le principali
ma ho la sensazione che, al di là dei loro effetti sulla politica e
sull'economia che ci riguardano direttamente come cittadini di questo
continente e di questo paese, esse abbiano un più profondo
significato ed è di questo che voglio ora parlare; ci sono infatti
notevoli cambiamenti di un'epoca e di un vissuto collettivo e
individuale, dove le scelte che siamo chiamati a decidere hanno
motivazioni ben più remote e conseguenze ben più profonde di quelle
connesse all'immediatezza che ci sta davanti.
Per capire meglio quanto avviene ho
recuperato i pochi libri di capezzale che spesso consulto per meglio
illuminare il mio comportamento. Per esempio gli Essais di Montaigne
e lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche; l'uno segna l'inizio
dell'epoca che chiamiamo moderna, l'altro ne rappresenta la fine.
Montaigne conclude così il terzo libro
dei suoi Essais, l'opera che impegnò 27 anni della sua vita e che
completò e aggiornò fino al momento della sua morte: "Tanto
più sei Dio quanto più ti riconosci uomo. Noi cerchiamo condizioni
diverse perché non siamo capaci di fare buon uso della nostra e
usciamo fuori di noi perché non sappiamo vedere quel che c'è
dentro. Se pure saliamo sui trampoli, dovremo comunque camminare
sulle nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo saremo
sempre seduti sul nostro culo. A mio giudizio le più belle vite sono
quelle che ci conformano al modello comune e umano, senza mirabilia e
senza stravaganze".
E poche pagine prima di questo finale,
aveva scritto: "Nulla nuoce a uno Stato quanto un cambiamento
totale che conduce solo all'iniquità e alla tirannia. Quando un
pezzo di quell'edificio si stacca lo si può puntellare. Ci si può
industriare affinché il naturale alternarsi e corrompersi di tutte
le cose non si allontani eccessivamente dai nostri principi. Ma
mettersi a riplasmare un così grande edificio equivale a fare come
coloro che pensano di correggere dei difetti particolari stravolgendo
ogni cosa e di guarire le malattie dando la morte". Infine: "La
parola appartiene per metà a chi parla e per metà a chi ascolta. Ci
sono due diverse concezioni della parola, come scambio o come duello,
ma alla fine è la fiducia ad avere la meglio: un parlare franco apre
la via ad un altro parlare e lo tira fuori come fanno il vino e
l'amore".
Tre secoli dopo di lui, Friedrich
Nietzsche chiude la modernità insieme ad altre persone che non si
conoscono tra loro ma agiscono nei loro campi perfettamente intonati
- senza saperlo - l'uno all'altro. Basterà citare Albert Einstein,
Sigmund Freud e poco prima di loro Karl Marx.
Di Nietzsche l'imbarazzo è nella
scelta che rappresenti al tempo stesso l'essenza del suo pensiero e
il suggello finale all'epoca della modernità.
Secondo me la summa del suo
insegnamento è questa: "Ciascuno di noi si sente al centro del
mondo ed è il centro del mondo. Dunque il centro è dappertutto e
cioè in nessun luogo. Ecco perché ciascuno vede il mondo e tutti
gli individui a suo modo e perché la verità assoluta non esiste.
Ciascuno ha la propria ed è questa la fatica del vivere e il suo
valore".
Concludo questa premessa citando un mio
giovane amico che certo non ha la levatura di quelli che ho appena
ricordato, ma il cui sentire in qualche modo li riecheggia.
Voi lettori lo conoscete, lo criticate
o lo apprezzate ma sapete che rappresenta una delle voci interessanti
della post-modernità, quelle che io chiamo i contemporanei ed ha
dedicato la vita fin qui vissuta alla politica e alla cultura, due
attività che purtroppo assai raramente vanno insieme. Parlo di
Walter Veltroni che è intervenuto il 24 giugno scorso al Festival
delle Letterature tenutosi in Campidoglio.
"Pensate al nostro rapporto col
tempo. La nostra modernità ha causato molte accelerazioni: quella
tecnica, oggi impieghiamo la metà delle ore di trent'anni fa per
arrivare da Roma a Milano, scriviamo mail invece di lettere, ci
vediamo attraverso il mondo parlando al telefono, accediamo al sapere
senza doverci muovere da casa. Ma anche l'accelerazione sociale:
spariscono mestieri sostituiti dall'automazione e istituzioni come la
famiglia, il lavoro, la scuola sono sottoposte a tensioni inedite.
Così cresce freneticamente il ritmo
della nostra vita e tutti noi, che pure abbiamo possibilità di
risparmio di tempo di ogni generazione vissuta prima di noi, sentiamo
che dobbiamo sempre correre. Il nostro tempo storico è l'immediato.
Non ci interessa il passato e il futuro ci spaventa. Non siamo
disposti ad aspettare, non ci si parla di progetti o di grandi
disegni. Ora, qui, subito. Ma il nostro problema è più generale
siamo una generazione il cui cervello viene ogni giorno affollato da
migliaia di informazioni che ci rendono più consapevoli ma ci
sottraggono il tempo necessario per sistemare e razionalizzare. In
fondo, per sapere. Stiamo sempre arrivando, ma il rischio è quello
di smettere di sapere perché il nostro ippocampo si stanca di tanto
cibo e comincia a coltivare una specie di anoressia, come un cassetto
troppo pieno che cominci ad espellere fogli, spesso a caso. È dunque
vero che ognuno, proprio ognuno, è il centro del mondo. Ad una sola
condizione però: sapere che anche il tuo fratello, il tuo vicino, il
tuo avversario, sono il centro del mondo. E conoscerli è il solo
modo di sapere, viaggiare, arrivare".