Nel bell'inserto domenicale del Corriere della Sera "la lettura" ho trovato questo articolo che vede nel ritorno alla logica del dono l'unica via di redenzione di un mondo in cui crescono colossali diseguaglianze sociali ed economiche. Preannunciato da un bel raccontino...
Giorgio Gregori
Un
cane e un bimbo nel circuito contagioso della reciprocità
di
MARK ANSPACH
Dare,
ricevere, ricambiare: dallo scambio di colpi o d'insulti a quello di
complimenti o di doni, le relazioni umane sembrano
contraddistinte dalla reciprocità. «Quale forza contenuta
nella cosa donata fa sì che il donatario la ricambi?», chiede
l'antropologo francese Marcel Mauss nel suo classico Saggio sul dono
(1923). E trova la risposta nello spirito del dono dei maori.
Nel disincantato mondo moderno non si crede più all'intervento
di spiriti magici, eppure esiste ancora qualcosa di misterioso
nel dono, qualcosa di contagioso che spinge a dare a sua volta.
La
reciprocità del dono non assomiglia allo scambio mercantile. Il
dono fa nascere una relazione dotata di un'esistenza autonoma, che va
al di là di ogni singola transazione. Pertanto il valore di un dono
è incalcolabile. Non si riduce a quello della cosa donata,
risiede soprattutto nella relazione che fa vivere. Ma anche il costo
di un dono è potenzialmente incalcolabile. Crea un legame molto
esigente che può portare con sé obblighi impossibili da
prevedere nel momento in cui il dono si fa.
Al
contrario, il pagamento di una merce non comporta alcuna esigenza al
di fuori della transazione in questione. Come scrive un allievo
giapponese di Mauss, Itsuo Tsuda: «Quando compriamo un pezzo di
pane dal fornaio, non siamo legati da alcun obbligo verso
di lui. Una volta effettuato il pagamento, siamo liberi nei suoi
confronti e lui nei nostri».
Siamo
liberi perché il pagamento monetario non crea un legame
personalizzato. Se avessimo ricevuto il pezzo di pane in
regalo, sarebbe diverso, come mostra una storia anonima
pubblicata in un'antologia americana nel nel
1910.
I1
narratore guarda fuori dalla finestra ogni mattina e vede
passare per strada un cane che cammina un po' più indietro del suo
padrone. Il cane cerca un bambino che lo aspetta sempre nello
stesso posto e gli regala ogni volta un pezzo di pane da mangiare.
Dopo
qualche settimana, l'uomo alla finestra nota un cambiamento
progressivo nel bambino. Questi diventa più pallido e più
magro, i suoi vestiti più lisi. Un giorno non ha più la giacca,
poi neanche le scarpe. Intanto il pezzo di pane che porta per
l'animale diventa sempre più piccolo. Alla fine arriva il giorno in
cui il bambino non ha più pane. Si ritrova ormai seduto per terra a
mendicare. Il cane si ferma un attimo lo stesso, per salutare il
bambino, prima di correre dietro al suo padrone.
Nel
frattempo, si vede anche un cambiamento progressivo nel padrone.
Sembra sempre più prospero, si veste in modo sempre più elegante.
Anche il cane ha un collare nuovo di zecca. Poi, un giorno, il cane
arriva portando qualcosa in bocca: un gran pezzo di pane. Lo mette ai
piedi del bambino, che lo mangia con gusto. La stessa scena si ripete
per diversi giorni, finché una volta il padrone si gira indietro e
si accorge di quel che avviene alle sue spalle. Paonazzo di rabbia,
urla: «Disgraziato di un cane! Sei proprio ingrato. Rubi il pane in
casa per darlo a un mendicante. Vattene, non voglio più
vederti».
Questa
storia illustra bene come una relazione di dono possa evolvere in
modo imprevedibile nel corso del tempo. Nella prima fase, sembra che
il valore — almeno quello economico — sia strettamente negativo
per il bambino: è sempre lui a donare! E, ovviamente, lo fa senza
sognarsi di poter un giorno ricevere qualcosa in cambio dal
cane.
Quanto
al cane, accetta i doni del bambino senza immaginare che un giorno
toccherà a lui ricambiare. Nella seconda fase della relazione,
è sempre lui a donare, e i conti finiscono per equilibrarsi. Si
potrebbe dire che adesso il bambino recupera il suo investimento.
Ma per il cane il costo della relazione con il bambino non si
misura solo dalla quantità di pane restituito. Il prezzo
da pagare si rivela infinitamente più alto del previsto perché
il legame con il bambino gli costa l'espulsione da casa. Accettando
di entrare in una relazione di dono con il con il bambino, il
cane ha assunto un obbligo davvero pesante.
Il
cattivo della storia è il padrone del cane, ma bisogna anche provare
a vedere le cose dal suo punto di vista. Dava ospitalità al cane,
gli forniva da mangiare, è stato sempre lui, il padrone, a
donare. E cosa fa quest'animale svergognato? Ricambia la sua
generosità rubando in casa! Il padrone percepisce il gesto
del cane come un insulto nei suoi confronti, lo considera un
colpo da restituire al più presto.
Quando
si guasta la reciprocità positiva del dono studiata da Mauss, essa
si trasforma velocemente nella reciprocità negativa della
vendetta. Come ci insegna un antropologo francese dei nostri tempi,
René Girard, la violenza è contagiosa, si propaga per
imitazione.
Per
fortuna, anche lo spirito del dono è contagioso. Anche la
generosità si propaga per imitazione. Così la storia del
bambino e del cane finirà bene, grazie proprio all'uomo che la
racconta. Infatti, quando vede dalla finestra il cane
abbandonato davanti al bambino, non sta solo a guardare. Scende in
strada e invita tutti e due a vivere in casa sua.
Un
tal esito felice non era scontato. Né il bambino né il cane
potevano sapere che i loro doni di pane avrebbero spinto un
terzo a mostrarsi generoso a sua volta. Ma il dono è sempre una
scommessa fatta su un futuro aperto. Una scommessa ben definita dalla
parola dell'Ecclesiaste: «Getta il tuo pane sulle acque, perché con
il tempo lo ritroverai».
Mark
Anspach, autore di questo intervento per «la Lettura», è un
antropologo californiano che vive tra Italia e Francia. Ricercatore
al Centre de recherche en epistemologie appliquée di Parigi,
allievo di René Girard, tiene un blog culturale sul sito
www.imitatio.org.
L'Occidente
riscopre il dono
Torna
l'attenzione per la pratica dello scambio gratuito che produce
relazioni estranee alla logica mercantile
di
MATTEO ARIA e ADRIANO
FAVOLE
Nel
corso della sua esistenza, Marcel Mauss scrisse opere acute e
pionieristiche tra cui, nei primi anni Venti del Novecento, il
celebre Saggio sul dono (Einaudi).
L'etnologo francese scopri che in molte società antiche e in
alcune società «primitive» gli scambi non avvenivano in base
alla logica dell'interesse individuale e alla legge della
domanda e dell'offerta. Intere culture infatti erano
vissute o continuavano a vivere nell'atmosfera del dono, inteso
come una prestazione di beni e servizi effettuata, senza
garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o
ricreare il legame sociale tra le persone, come dice Jacques
Godbout, uno dei massimi studiosi del fenomeno (Lo
spirito del dono, Bollati
Boringhieri). Mauss identificò la logica del dono e le sue tre
«leggi» (dare, ricevere, ricambiare) nelle culture oceaniane, tra i
melanesiani, i maori, i samoani, i tonga-ni. Nella società moderna
il dono sopravviveva in modo residuale, per esempio a Natale o
in occasione delle cerimonie nuziali e nelle relazioni amicali e
famigliari. Mauss era piuttosto pessimista sul destino del dono
nella società contemporanea: «L'uomo — scrive nel suo Saggio
— è stato per lunghissimo
tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una
macchina calcolatrice». Eppure, da
socialista convinto e difensore dei valori della solidarietà, vedeva
nel ritorno alla logica del dono l'unica via di redenzione
di un mondo in cui andavano crescendo colossali diseguaglianze
sociali ed economiche.
A
lungo confinato nel ristretto circolo degli antropologi, il Saggio
sul dono conoscerà una
rinnovata fortuna alla fine degli anni Settanta, in coincidenza con
le prime avvisaglie della crisi economica e con l'indebolirsi delle
grandi narrazioni (in primis marxismo
e strutturalismo), il dono, inteso come il totalmente altro
dall'utile, perdita assoluta e incondizionata, affascinò
filosofi come Jacques Derrida (Donner le temps,
Galilée) ed Emmanuel Lévinas.
Parallelamente, nonostante la trionfale ascesa dell'homo oeconomicus
globalizzato, l'Occidente ha
progressivamente riscoperto (o dato vita), ad alcune «isole» di
dono protette dalle impetuose correnti del capitalismo: dal
volontariato alla donazione del sangue, dai gruppi di acquisto ai
condomini solidali, dalle economie informali alla decrescita,
fino alle varie forme dello sharing. In
Francia, i «nipoti» di Marcel si sono uniti nel Mauss,
acronimo del Movimento anti utilitarista nelle scienze sociali ed
eponimo del fondatore, rivendicando l'attualità dello spirito
del dono nelle società contemporanee.
Se
l'Occidente ha ritrovato il dono, va detto che il peccato originale
del suo pensiero — l'etnocentrismo — ha finito per oscurarne il
destino in altre società, come se l'«altrove» globalizzato non
avesse più nulla da dire. Che fine ha fatto il dono in Amazzonia,
nell'America «nativa», in Melanesia e in Polinesia? Che fine hanno
fatto i sontuosi riti potlatch
dei
Kwakiutl americani, i cui capi rivaleggiavano in generosità
fino a distruggere le ricchezze? E lo scambio kula
degli
abitanti delle isole Trobriand della Melanesia (Bronislaw Malinowski,
Argonauti del Pacìfico
occidentale, Bollati
Boringhieri) che compivano lunghe navigazioni attraverso mari
tempestosi per donare e ricevere collane di conchiglia (e
rinsaldare nel contempo relazioni sociali e matrimoniali)? I
polinesiani
hanno rinnegato il dono adottando il denaro, le automobili,
la televisione e i social network?
L'incontro
con le società che ispirarono Mauss riserva anche oggi sorprese
interessanti. Fin dall'esordio delle nostre ricerche in
Oceania ci siamo accorti di quanto le atmosfere del dono fossero
diffuse e, anzi, sembrassero rifiorire in modo creativo
proprio in risposta all'affermarsi della modernità
capitalistica. L'ospitalità, i beni di prestigio come i maiali
e le stoffe di corteccia, gran parte dei servizi alle persone
(crescere, accudire, cucinare, curare) rientrano tuttora nella sfera
del dono. In particolare,
i prodotti della terra non possono essere comprati e venduti, perché
essi, a differenza delle
merci che arrivano dall'Occidente, sono intrisi della persona che li
ha seminati, cresciuti e prodotti: donandoli, si dona qualcosa di sé
(Mauss lo chiamò hau,
utilizzando
una parola maori), cosa che costringerà chi riceve a
ricambiare, alimentando una spirale infinita di relazioni.
Le
culture del dono dunque esistono tuttora, ma la sua presenza non è
esclusiva come immaginava Mauss. Partecipi della storia e della
globalizzazione in corso, gli oceaniani (e molti altri nativi)
hanno difeso e mantenuto ampia la sfera del dono, facendola
tuttavia convivere da un lato con le merci che il mercato globale
vomita incessantemente sulle loro isole e con la razionalità
utilitaristica; dall'altro con un insieme di beni che solo di
recente hanno attratto l'interesse di antropologi ed economisti.
La circolazione degli oggetti, attraverso il dono e lo scambio di
mercato, è in effetti garantita dal fatto che vi
sono cose che non possono e non devono circolare affatto.
Laddove il colonialismo non si è imposto con effetti troppo
devastanti, la
terra e l'acqua, forme di sapere come la danza e i racconti
della tradizione orale, hanno mantenuto il loro status di beni
inalienabili, come
scoprì Annette Weiner, tornando a studiare negli anni Settanta
i Trobriandesi di Malinowski (Inalienables
possessions, University
of California Press). Quelli che un tempo chiamavamo primitivi
ci insegnano dunque che solo
un'accorta politica dei beni comuni garantisce la sostenibilità
dell'economia di scambio.
Le
ricerche compiute in questi anni in Oceania e in altre parti di
mondo, ci dicono che non esistono — almeno nella
contemporaneità — società interamente fondate sul dono, ma forme
di convivenza e complementarietà con il mercato. Tuttavia,
sembra esserci una differenza piuttosto netta tra società ed epoche
che sottomettono il sociale all'economico e altre che, attraverso il
dono, compiono la scelta opposta. Diversamente dallo scambio basato
sull'interesse egoistico dell'homo oeconomicus, il
dono è un fattore di «domesticazione». Se il mercato per sua
natura libera dai legami e crea differenza (di valore, di ricchezza,
di status), il dono
rafforza la somiglianza e «addomestica» l'altro: come dice la
volpe al Piccolo principe, addomesticare «è una cosa da molto
dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...».
Gli
anni di benessere e crescita economica senza precedenti del
dopoguerra, hanno costruito e reso abnorme l'homo oeconomicus
che è in noi. Gli anni di
crisi e decrescita che stiamo vivendo sembrerebbero
viceversa più propizi a rafforzare il dono e la relazione.
Forse, riflettendo sulle nuove esperienze del dono in Occidente
e su quanto sta avvenendo nelle società in cui esso fu scoperto per
la prima volta, possiamo concludere che non si tratta di uccidere
l'homo oeconomicus, ma
di pensare nuovi e più ampi spazi di convivenza tra mercato e dono,
smettendo di vedere quest'ultimo come una chimera, un'utopia
radicalmente antitetica al mercato.
Il
dono continua per molti versi a essere un «enigma» (Maurice
Godelier, L'enigme
du don, Fayard)
e la sua logica non è priva di ombre, ambiguità e avvelenamenti:
il dono eccessivo distrugge ricchezza, quello unilaterale e
asimmetrico umilia chi lo riceve, creando clientele e corruzione.
Nonostante ciò, il
dono, se adottiamo una visione «slargata» dell'umanità,
appare alquanto tenace e persistente e, soprattutto, secondo la
lezione di Claude Lévi-Strauss, è il fondamento stesso
della società. Come
dice il titolo del festival di Pistoia: «Dono, dunque siamo».
Viaggi
e ricerche nel Pacifico
Gli
autori di questo articolo, studiosi del dipartimento Culture,
politica, società dell'Università di Torino, hanno compiuto vaste
ricerche sul campo tra le popolazioni delle isole del Pacifico, note
per la loro cultura del dono.
Adriano
Favole ha lavorato in Nuova Caledonia e nel territorio di Wallis e
Futuna. Dalle sue indagini è scaturito il saggio -
«Oceania.
Isole di creatività culturale», edito da Laterza nel 2010.
Matteo
Aria ha svolto ricerche nelle Marchesi e nelle Isole della Società,
su cui ha scritto il libro «Cercando nel vuoto. La memoria perduta e
ritrovata nella Polinesia francese»
(Pacini, 2007)
Il
francese Marcel Mauss (1872-1950) è considerato uno del
fondatori dell'antropologia.
Nipote
e allievo del grande sociologo Émile Durkheim, studioso delle
pratiche magiche e religiose, è noto soprattutto per il suo «Saggio
sul dono» del 1923 (edito in Italia da Einaudi), nel quale analizza
a fondo i meccanismi della reciprocità.
Altre
opere importanti di Mauss sono «Manuale di etnografia» (Jaca Book),
«Teoria generale della magia» (Einaudi), «Saggio sul sacrificio»
(Morcelliana)
All'insegnamento
di Mauss si richiama il Mouvement anti-utilitariste en sciences
sociales (in sigla appunto Mauss), che pubblica la «Revue du Mauss»
e ha tra i suoi esponenti più noti Alain Caillé e il teorico della
decrescita Serge Latouche
Da:
Corriere della Sera – supplemento “la lettura” domenica 20
maggio 2012