Bell'articolo sulla ricerca della felicità: ma cercarla, ne vale la pena?....
FELICISMO LA NUOVA IDEOLOGIA
Nelle prossime settimane, finanze
permettendo, ci impegneremo in una periodica ricerca della felicità,
le vacanze. Si tratterà di un episodio minore di "happyism",
che potremmo tradurre con "felicismo", una specie di
feticismo della felicità in cui la felicità diventa una ragione di
vita. Intendiamoci: la felicità è sempre di moda, come dimostra la
quantità di saggi anche recenti sull' argomento, da David Malouf, La
vita felice (Frassinelli), a Economia della felicità di
Bruno S. Frey e Claudia Marti (il Mulino), da L' arte della
felicità in un mondo in crisi del Dalai Lama (Mondadori) a
servizi speciali di riviste (come l' ultimo numero di Colors ), da
testi come Pensieri lenti e veloci del premio Nobel per l'
economia Daniel Kahneman (Mondadori) alla moltitudine di guide di
self-help per essere felici.
Ed è sempre stato così, basti dire
che uno dei grandi successi editoriali di vent' anni fa era stato la
Lettera sulla felicità di Epicuro.
Tuttavia, il caso del felicismo è più
specifico.
Come ricorda l' economista americana
Deirdre N. McCloskey in un articolo apparso l' 8 giugno su The New
Republic, si sta affermando una "scienza della felicità",
identificata con il piacere, che classifica le persone sulla base di
un punteggio da uno a tre: "non troppo felice", "piuttosto
felice", "molto felice". E che spiega come passare da
uno a tre seguendo il consiglio di economisti e psicologi.
Di qui curiose statistiche sui paesi
più felici al mondo, come se le nazioni fossero persone.
Secondo una indagine recente, nella
scala dei trenta paesi più felici troviamo in testa la Danimarca e
in fondo la Germania (l' Italia è terzultima). Il che alla fine è
bizzarro, perché significa che passando un confine, quello tra
Danimarca e Germania, si entra in un abisso di infelicità, o
quantomeno si passa dal massimo al minimo.
Il padre del felicismo è lo stesso
filosofo che ha inventato il Panopticon, cioè il dispositivo che
permetteva a un solo secondino di controllare a vista tutti i
carcerati, Jeremy Bentham, che nel 1789, con la Introduzione ai
princìpi della morale e della legislazione, aveva proposto un'
algebra morale, capace di quantificare il piacere e il dolore per
ottimizzare i nostri comportamenti. Bentham era un uomo geniale e
infantile, fondatore della London University dove dispose che si
conservasse in una specie di armadio la sua mummia, con un curioso
ideale di socialità (e felicità) postuma.
In questa centralità della felicità è
all' opera una ideologia fortissima, che è coestensiva alla
modernità illuministica.
In effetti, l' idea che l' uomo sia
destinato a scontare un peccato originale o quantomeno la colpa di
essere nato è il carattere fondamentale dei reazionari, da
Dostoevskij a Cioran, passando per Renan che poco prima della Comune
considerava che la rovina della Francia dipendeva dalla "felicità
volgare" delle masse eccitate contro il potere.
Gli illuministi, invece, affermano
che è nostro diritto ricercare la felicità, ed è nostro dovere non
considerare l' infelicità nostra e altrui un retaggio naturale. Nel
1738 Mirabeau aveva detto che "il nostro unico scopo" è la
felicità,e Voltaire, nel suo Elogio del mondano, scriveva
"Dio mi ha detto: sii felice!". E sappiamo tutti che nella
Costituzione americana del 1776 sono considerati diritti inalienabili
dell' uomo la vita, la libertà e, per l' appunto, la ricerca della
felicità. Una simile ricerca della felicità incarna i più alti
ideali di un' epoca, espressi in un' altra frase sempre citata, di
Saint-Just: "La felicità è un' idea nuova in Europa". Il
senso della dichiarazione si capisce nel seguito del discorso: "Non
tollerate che ci sia nello Stato un solo povero e infelice",
perché la felicità è una felicità comune (come si legge nel primo
articolo della Dichiarazione dei diritti dell' uomo e del cittadino
del 1793).
Questa felicità, dunque, si oppone
alla "felicità illusoria" di cui parla Marx nei
Manoscritti economico-filosofici del 1844, cara ai conservatori
(Domenico Losurdo ha ricordato che un giornale ultraconservatore
austriaco si intitolava Eudaemonia, richiamandosi alla dottrina che
identifica il bene con la felicità) e imparentata con la "felicità
vegetativa" dei poveri durante l' Ancien Régime, di cui parla
Tocqueville, quella a cui si appellavano i proprietari terrieri che
pretendevano che gli schiavi fossero felici, e ai quali Condorcet
ribatteva: "Non si tratta di sapere se i Negri sono felici ma se
godono dei diritti di cui tutti gli uomini devono godere".
C' è dunque una contrapposizione tra
una felicità illuminista ed emancipativa e una felicità apparente e
conservativa.
Così come è ovviamente controverso
stabilire che cosa si intenda con "felicità", che
per Aristotele è un equilibrio virtuoso, mentre Bentham la
identifica apertamente con il piacere e con un elemento quantitativo,
tanto che Carlyle dirà che la sua è "la felicità dei porci",
e John Stuart Mill suggerirà di cercare un piacere qualitativo,
osservando che un dotto infelice è preferibile a un ubriacone
felice. Tutto sommato il felicismo radicalizza l' elemento edonistico
e quantitativo, e suggerisce la ricerca di una felicità compulsiva e
bulimica, un po' come quella di Shame di Fassbender, cioè
imparentata più con la dipendenza che con la emancipazione.
Come evitare di confondere la
felicità con il felicismo? Suggerirei conclusivamente tre
elementi di buon senso.
Primo, la felicità richiede un
oggetto. Nelle istruzioni degli psicofarmaci si legge talora, tra
gli effetti collaterali, che potrebbero provocare "euforia",
e suonerebbe davvero strano che uno psicofarmaco potesse provocare,
sia pure a livello di effetto collaterale, della felicità. Perché?
Secondo me la differenza tra euforia e felicità sta nel fatto
che la felicità dipende dall' esistenza di qualcosa nel mondo (e
questo mondo può essere anche la nostra psiche) che ci rende felici:
una persona, una cosa, una speranza, anche una idea. Non una reazione
enzimatica senza oggetto, che creerebbe per l' appunto una semplice
euforia.
Secondo, non può essere un fatto
puramente individuale. Freud diceva che non si ride e non si
piange mai da soli, e credo che avesse ragione. L' uomo è un animale
politico, vale a dire un animale che sta in società. Tanto è vero
che il solo fatto di stare da soli può essere una causa di
infelicità. E d' altra parte non c' è felicità, per immensa che
possa essere, che non risulti un po' diminuita dal fatto di non
poterla dire ad altri, così come ci sono felicità che per essenza
non ci sarebbero se non ci fossero degli altri. Immaginiamo qualcuno
che riceva una medaglia, ma in segreto, e con l' ordine di non dirlo
a nessuno e di nascondere la medaglia. Sarebbe felice? C' è da
dubitarne.
Un corollario di questo punto è che
risulta piuttosto difficile essere felici se si causa l' infelicità
degli altri, e questo purtroppo è un problema che si dà spesso.
La conclusione, dunque, come suggeriva Socrate (e come è stato
confermato nel 2004 in un monumentale volume curato da Seligman e
Christopher Peterson, Character Strengths and Virtues: A Handbook
and Classification, e più recentemente da Il senso della vita
del grande critico letterario americano Terry Eagleton) è che si
è felici quando si è virtuosi. Infine,e soprattutto, non si
deve dimenticare che la ricerca ossessiva della felicità è da
annoverarsi tra le cause maggiori di infelicità.
Kierkegaard ha osservato che gli uomini
inseguono così ostinatamente la felicità che a volte la
sopravanzano. Credo che sia verissimo, ed è per questo che le
Istruzioni per rendersi infelici di Paul Watzlawick (1983,
tradotto in italiano da Feltrinelli)è un libretto da cui si può
imparare molto. Così come da La felicità di Paolo Legrenzi
(il Mulino, 1998), la cui tesi fondamentale è che non ha senso
misurare la felicità, ma che si possono invece riconoscere con
precisione gli ostacoli che si frappongono tra noi e lei. Senza
dimenticare che la felicità è uno stato: si è felici non quando
si cerca la felicità, ma quando, cercando qualcos' altro o non
cercando affatto, ci accorgiamo di essere felici, e questa
consapevolezza spesso coincide con la fine della felicità perché,
come ha scritto Adorno "Per vedere la felicità, se ne dovrebbe
uscire. L' unico rapporto fra coscienza e felicità è la
gratitudine".
La repubblica, 01 luglio 2012 — pagina 42 - 43 sezione: CULTURA - MAURIZIO FERRARIS