venerdì 1 luglio 2011

la metafisica del viaggio nell' epopea di Rasmussen

Sembra passata sotto silenzio, o poco ci manca, la prima traduzione italiana del capolavoro di Knud Rasmussen, Il grande viaggio in slitta (Quodlibet), pubblicato in Danimarca nel 1932. Eppure, non è così frequente imbattersi in un libro appassionante e generoso come questo, nel racconto di un' avventura ai limiti del credibile che è anche un documento etnologico di prim' ordine e un indimenticabile repertorio di intuizioni poetiche e metafisiche. È l' impresa in sé, prima di tutto, che andrà ricordata, perché da questa dipende tutto il resto.

 
Tra il 1921 e il 1924, Rasmussen fu a capo della sua quinta, e più impegnativa, spedizione polare. Aveva da poco passato i quarant' anni. Nelle sue vene, il sangue danese si mischiava, dal lato materno, a quello groenlandese, e in Groenlandia, figlio di un pastore luterano, aveva passato l' infanzia. All' epoca del grande viaggio, la sua perfetta conoscenza della lingua degli eschimesi doveva rivelarsi utilissima, tanto quanto il fisico capace di resistere a condizioni del clima inumane. Anche a guardarlo su un atlante, l' itinerario della spedizione di Rasmussen genera stupore, come un mito di età moderna, una nuova impresa degli Argonauti compiuta su slitte trainate da cani.
Ad ogni modo, Rasmussen partì dalla Groenlandia per toccare la Siberia, dopo aver attraversato gli sconfinati territori artici del Canada e dell' Alaska. Solo la burocrazia sovietica, come racconta con ironia il grande esploratore, fu in grado di opporre un ostacolo insormontabile alla sua sete di spazio e conoscenze. Ma a quel punto, toccare la Siberia era solo una questione di orgoglio: il fine del grande viaggio era stato conseguito.
Rasmussen e gli altri membri della spedizione erano riusciti a entrare in contatto con tutte o quasi le tribù di eschimesi che intendevano studiare, prima che il commercio e gli altri contatti con l' uomo bianco distruggessero per sempre tradizioni millenarie. Avevano condiviso con quelle popolazioni tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalle fatiche della caccia alle feste interminabili, e raccolto un grandissimo numero di oggetti tra utensili, stoffe, amuleti magici.A guardarli nelle vecchie foto, con la pelle del viso ustionata dalle intemperie e l' espressione allegra e spensierata, Rasmussen e i suoi compagni ricordano dei cavalieri di ventura, dei mistici vagabondi capaci di sopportare ogni tipo di privazione e traversia col sorriso in faccia. Il loro lavoro etnologico è difficilissimo, perché si tratta di ricostruire tutto un cosmo di sentimenti religiosi, tabù, leggende mai prima esaminato.
Centrale, in tutte le comunità, è la figura dello sciamano, capace di viaggiare tra il mondo dei vivi e quello dei morti, e di scendere negli abissi marini a placare il grande spirito che, corrucciato per qualche peccato o infrazione di tabù, tiene nascoste le foche, i trichechi, le balene rendendo vana la caccia e riducendo gli uomini alla fame e alla disperazione.
Solo nel 1951 Mircea Eliade pubblicherà la sua opera fondamentale sullo sciamanesimo e le cosiddette "tecniche dell' estasi".
Rasmussen non possiede un raffinato quadro teorico, ma in compenso è uno straordinario ascoltatore, capace di eliminare le naturali diffidenze da parte delle sue fonti. Nei suoi appunti di viaggio, leggende di sapore primordiale prendono per la prima volta una forma scritta, assieme a inni e preghiere di suprema bellezza. Rasmussen insomma è uno di quegli uomini preziosi che sono stati capaci, con la passione e l' intensità delle loro domande, di farsi carico di tradizioni millenarie un attimo prima che la modernità le estinguesse senza rimedio.
Appartiene alla stessa famiglia di John Neihardt, che ascoltò le storie dei pellerossa dalla bocca di Alce Nero, e di Marcel Griaule, etnologo francese che fu ammesso alla "conoscenza medica" dei dogon del Mali. È stupefacente il fatto che dei singoli individui, all' insaputa l' uno dell' altro, abbiano trovato il modo di interrogare gli ultimi testimoni di mondi prossimi alla scomparsa, salvandone la memoria e forse la stessa essenza.
Senza questi uomini saremmo tutti più poveri: un giorno qualcuno dovrebbe scrivere la loro storia. Ramsussen è così fedele alla sua materia che non solo registra in modo magistrale credenze e leggende, ma non dimentica nemmeno certi tratti psicologici solo in apparenza secondari, come la maliziosa ironia dei suoi eschimesi, la loro congenita allegria, il loro «spensierato abbandono all' attimo». E da queste invidiabili disposizioni d' animo che scaturisce l' insegnamento più saggio e memorabile dell' intero libro.
«Qual è il senso di questa storia?» chiede Rasmussen dopo avere ascoltato una vecchia leggenda su un lupo e una volpe. «Noi», gli risponde il suo amico eschimese, «non pretendiamo sempre che ci sia un senso nelle nostre storie, purché siano divertenti. Solo gli uomini bianchi vogliono che tutto abbia un senso e una spiegazione, perciò i nostri vecchi dicono che dobbiamo trattarli come bambini». È proprio vero che le maggiori illuminazioni derivano proprio dalle domande più sbagliate. (L' autore ha scritto "Il libro della gioia perpetua" per Rizzoli) - EMANUELE TREVI

Repubblica - 30 giugno 2011 —   pagina 47   sezione: CULTURA