La vera storia del caso Marchionne
Fa piacere a tutti quelli che fanno il mio mestiere poter dire ogni tanto: "l'avevo scritto prima di tutti" anche se molte volte ci sbagliamo nelle previsioni e nei giudizi. E allora: quando Marchionne annunciò che la Fiat aveva conquistato il controllo della Chrysler, gran parte della stampa magnificò quell'operazione come un'offensiva in grande stile della società torinese per proporsi come uno dei quattro o cinque gruppi automobilistici mondiali che sarebbero sopravvissuti nell'economia globale. Io scrissi invece che l'operazione di Marchionne era puramente difensiva. La Fiat stava affondando; aggrappata alla Chrysler sarebbe sopravvissuta, sia pure con connotati industriali e territoriali completamente diversi.
Ma perché proprio la Chrysler e non invece la Peugeot e magari la General Motors che sembrava anch'essa sull'orlo del disastro? La Peugeot non si poneva il problema di sopravvivenza planetaria e non stava affatto affondando; quanto alla GM, aveva un programma di rilancio che infatti è andato a buon fine con l'aiuto dei fondi messi a sua disposizione dal governo Usa. Chrysler era completamente decotta e il governo americano non l'avrebbe rifinanziata, l'avrebbe lasciata fallire. L'arrivo della Fiat e del piano industriale di Marchionne la salvò, Obama decise il rifinanziamento e in questo modo tenne a galla Chrysler e indirettamente la stessa Fiat. Il capolavoro di Marchionne è stato questo. Ma poi arrivarono allo stesso pettine altri nodi.
Massimo Giannini, trattando ieri questo stesso tema, ha scritto che la questione di Pomigliano è stata una "provocazione" di Marchionne per saggiare la risposta dei sindacati. L'errore dei sindacati (Cisl e Uil) - ha scritto - è stato di pensare che la provocazione riguardasse soltanto Pomigliano; invece no, riguardava l'assetto di tutto il gruppo Fiat a cominciare dal Lingotto. In effetti è così. È vero che nell'accordo firmato con Cisl e Uil la Fiat ha preso l'impegno che le nuove regole non saranno applicabili in nessuno degli altri suoi stabilimenti in Italia; Marchionne infatti non ne applicherà ma semplicemente trasferirà in Serbia l'attuale lavoro previsto per Mirafiori.
Ma perché in Serbia? La differenza di costo salariale tra la Serbia e Torino è molto forte ma la componente salariale non pesa più dell'8 per cento sul prodotto finale. La ragione del trasferimento dunque non è questa; la ragione sta nel fatto che lo stabilimento Fiat in Serbia sarà pagato per tre quarti dall'Unione europea e per il resto da incentivi fiscali del governo di Belgrado. Quello stabilimento non costa nulla alla Fiat; per di più la sua gestione è vantaggiosa e genera utili. Perché Marchionne dovrebbe rinunciarvi?
Quanto al governo italiano, non ha assolutamente nulla da dare alla Fiat. L'azionista della società torinese non ha soldi per nuovi investimenti automobilistici; tanto meno ne ha il governo Berlusconi-Tremonti. Quindi liberi tutti, checché ne pensino Chiamparino e la Regione Piemonte a guida leghista. Bossi vuole il federalismo, della Fiat non gliene frega niente. Il ... tavolo aperto dal ministro Sacconi per mercoledì prossimo si limiterà ad auspicare qualche dettaglio; sotto l'auspicio niente.
Tutto questo era prevedibile ed infatti era stato previsto. Come era stata prevista la mossa fondamentale di scorporare l'automobile dalla Fiat e quindi dal gruppo Agnelli. In gergo borsistico quest'operazione è stata chiamata "spin off", un termine che richiama in qualche modo lo "spinnaker", la vela di prua che viene alzata quando il vento soffia da poppa. Se quel vento è forte la barca vola sulle onde. Infatti la Borsa ha accolto con molto favore lo scorporo. Il significato strategico è chiaro a tutti: gli azionisti del gruppo e "in primis" la famiglia Agnelli, vogliono disfarsi dell'automobile. Lo "spin off" serve appunto a questo: predisporre la vendita dell'automobile ex Fiat a chi vorrà comprarlo. Nel frattempo preparare la fusione con la Chrysler. La Fiat resta a Torino, ma senza più l'auto. Questa è la prospettiva del futuro prossimo.
Fin qui abbiamo considerato la questione Fiat misurandola su tre dimensioni successive: Pomigliano, Lingotto, scorporo dell'auto. Ma c'è una quarta dimensione ancora più importante e ancora più globale. Ne scrissi due mesi fa e non l'ho chiamata "provocazione" ma "apripista". Il caso Pomigliano cioè, e ciò che ne sta seguendo, funziona da caso "apripista" per un'infinità di operazioni analoghe che possono coinvolgere l'intero apparato industriale italiano, soprattutto quello delle imprese medio-piccole e piccole, quelle che occupano tra i 300 e i 20 dipendenti e che rappresentano il vero ed unico tessuto industriale italiano soprattutto nel nord della Lombardia, nel Triveneto, nell'Emilia-Romagna, nelle Marche, in Puglia, in Campania, nel Lazio.
Queste imprese esportano nell'euro e fuori dall'euro. Avevano registrato una grave crisi nel 2007-2008, poi si sono riprese, aiutate dalla svalutazione dell'euro, dal lavoro nero e precario e dal lassismo fiscale. Non sappiamo quanto reggeranno all'"austerity" di Tremonti e alla ripresa dell'euro nei confronti del dollaro. Il rischio è che adottino anch'esse la delocalizzazione di cui Pomigliano ha funzionato come apripista. Nelle imprese medio-piccole e piccole il sindacato è molto più debole che nelle grandi e grandissime. Quindi il problema non è di disciplinare il sindacato, ma di disciplinare direttamente i dipendenti. La minaccia della delocalizzazione servirà a questo e sarà estremamente difficile resistervi. Andiamo dunque verso un rapido azzeramento delle conquiste sindacali e dell'economia sociale di mercato degli anni Sessanta fino all'inizio di questo secolo?
Io temo di sì. Temo che la direzione di marcia sia proprio quella ed ho cercato di definirla parlando della legge chimico-fisica dei vasi comunicanti. In ogni sistema globalmente comunicante il liquido tende a disporsi in tutti i punti del sistema allo stesso livello, obbedendo all'azione della pressione atmosferica. In un'economia globale questo meccanismo funziona per tutte le grandezze economiche e sociali: il tasso di interesse, il tasso di efficienza degli investimenti, il prezzo delle merci, le condizioni di lavoro.
Tutte queste grandezze tendono allo stesso livello, il che significa che i paesi opulenti dovranno perdere una parte della loro opulenza mentre i paesi emergenti tenderanno a migliorare il proprio standard di benessere. La prima tendenza sarà più rapida della seconda. Al termine del processo il livello di benessere risulterà il medesimo in tutte le parti, fatte salve le imperfezioni concrete rispetto al modello teorico. La Fiat ha fatto da apripista. Marchionne disse all'inizio di questa vicenda che lui ragionava e operava nell'epoca "dopo Cristo" e non in quella "ante Cristo". Purtroppo il "dopo Cristo" è appena cominciato.
C'è un modo per compensare la perdita di benessere che il "dopo Cristo" comporta per i ceti deboli che abitano paesi opulenti? Certo che sì, un modo c'è ed è il seguente: far funzionare il sistema dei vasi comunicanti non solo tra paese e paese, ma anche all'interno dei singoli paesi. L'Italia è certamente un paese ricco. Anzi fa parte dei paesi opulenti del mondo, che sono in prevalenza in America del nord e nella vecchia Europa. Ma l'Italia è anche un paese dove esistono sacche di povertà evidenti (e non soltanto nel Sud) e dislivelli intollerabili nella scala dei redditi e dei patrimoni individuali.
Tra l'Italia dei ceti benestanti e quella dei ceti poveri e miserabili il sistema dei vasi comunicanti è bloccato, non funziona. Il benessere prodotto non viene redistribuito, rifluisce su se stesso e alimenta il circuito perverso e regressivo dell'arricchimento dei più ricchi e dell'impoverimento dei poveri. Una politica che volesse perseguire il bene comune dovrebbe dunque smantellare il circuito perverso e far funzionare il circuito virtuoso. Attraverso una riforma fiscale che sbloccasse il meccanismo e redistribuisse il benessere. E poiché la mente e lo stomaco dei ceti poveri e medi reclamano un meccanismo meno iniquo dell'attuale, la riforma del fisco può e deve essere anticipata da misure specifiche di pronta attuazione, stabilite dalla concertazione tra governo e parti sociali che funzionò egregiamente tra il 1993 e il 2006, finché fu abolita con un tratto di penna all'inizio di questa legislatura.
Le opposizioni dovrebbero a mio avviso concentrarsi su questo programma. Bersani ne ha parlato recentemente, ma le opposizioni dovrebbero convergere su un programma concreto con questo orientamento per uscire da una situazione caratterizzata da vergognosi privilegi e diseguaglianze. Si parla molto di riforme. Questa delle ingiustizie sociali da combattere è la madre delle riforme. Perciò mi domando: che cosa aspettate? Che la casa vi crolli addosso?
Fonte: Eugenio Scalfari - Repubblica
Lunedì 26 luglio 2010