venerdì 9 ottobre 2009

Guadagnare meno per vivere di più

«Scelta da parte di diverse figure di lavoratori di giungere a una libera, volontaria e consapevole riduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività professionali, in maniera tale da godere di maggiore tempo libero».

Via dal traffico, dalle città costose e dai lavori stressanti. Nel mondo oltre 16 milioni pronti a «scalare marcia»
Simone voleva uscire dall’ingorgo. La macchina era immobile da almeno mezz’ora, in coda con le altre sul Grande raccordo anulare. Sole a picco, aria condizionata che boccheggia. I telefonini che suonano all’impazzata. Dai finestrini delle altre auto, giacche e cravatte, facce stressate che riflettono la sua. «Così non va», disse. Fu allora, da fermo, che decise di scalare una marcia.
Era un manager. Ultimo incarico presso la Boston Consulting, prima era capo delle Relazioni esterne Sisal (quella del Superenalotto), un passaggio anche nell’editoria, Rcs. Ci ha messo dieci anni, per uscire da quell’ingorgo che era diventata la sua vita. Oggi Simone Perotti risponde al telefonino dalla sua casetta nelle campagne tra La Spezia e le Cinque Terre. Sono le 15 di una calda giornata feriale di inizio ottobre. È seduto su un tronco, pantaloncini corti e torso nudo. Ha appena finito di zappare l’orto. Questa sera deve «scendere» a mare per tenere un corso di vela. In mezzo, leggerà un libro, scriverà qualcosa. Non ha programmi. «Prima, la mia vita era completamente pianificata. Con un margine di ragionevole certezza avrei potuto immaginare tutto quel che mi sarebbe successo nei prossimi cinque anni».
Downshifting, si chiama così. L’anglismo è reso meno insopportabile per il fatto che su Internet ormai è questo il nome che identifica una pratica traducibile come scalare marcia, rallentare. In Australia, che ne è un po’ la patria, lo chiamano anche Sea-changing, parafrasando una fiction dove la protagonista molla il suo lavoro redditizio e superstressante per andare a vivere in un piccolo villaggio rurale. Da Wikipedia: «Scelta da parte di diverse figure di lavoratori di giungere a una libera, volontaria e consapevole riduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività professionali, in maniera tale da godere di maggiore tempo libero».
La definizione è corretta ma riduttiva. Del resto solo ora la pratica dello «scalare marcia» sta cominciando ad essere registrata dai radar di sociologi e studiosi dei comportamenti di massa. Datamonitor, agenzia londinese che si occupa di ricerche di mercato, stima che in tutto il mondo i lavoratori potenzialmente inclini a fare downshifting sarebbero 16 milioni. Ogni anno, circa 260 mila cittadini britannici fanno una scelta di vita che va in quella direzione. Nel 2008, il ministero dei Servizi sociali australiani ha stimato che sono almeno un milione le persone, tutte comprese nella fascia di età tra i 25 e i 45 anni, che hanno deciso di scalare una marcia. La stragrande maggioranza (circa il 79 per cento) lo ha fatto non solo cambiando lavoro e quindi regime di vita, ma anche scegliendo di abbandonare la città a favore di località costiere e di campagna. Non a caso, in Francia li chiamano néo-ruraux, neorurali, termine che però non si limita alla mera decisione di vivere in campagna, ma implica l’accettazione di ritmi diversi, l’appropriarsi del proprio tempo libero.
Centomila nel 2007, quasi il triplo nel 2008, secondo uno studio di Ipsos France che precisa come per rientrare nella categoria sia necessario non solo aver cambiato domicilio, ma anche lavoro. «Per quanto mi riguarda, il downshifting è però qualcosa di più di un abbassamento del salario in cambio di maggiore tempo libero. Si tratta di un cambio di vita netto, sia verso se stessi, sia verso il mondo dei consumi, per accedere alla libertà. Essere liberi, oggi, nel sistema occidentale, può rivelarsi estremamente difficile». Perotti ha scritto un libro, «Adesso basta» (edizioni Chiarelettere, nelle librerie da oggi) che può benissimo essere considerato come il primo vademecum italiano per chi vuole lasciare lavoro e cambiare vita senza però per questo essere costretto a inseguire irraggiungibili utopie. Ci vuole metodo, ci vuole costanza. Qualcosa di molto diverso dal sogno del chiosco sull’isola deserta, del 6 al Superenalotto, dell’eredità milionaria da una zia sconosciuta.
Il cammino verso la semplicità è a sua volta un lavoraccio, da pianificare con cura lavorando principalmente su se stessi. Ognuno dei molti siti dedicati al tema sottolinea questo aspetto. Lo studio «Getting a life: understanding the downshifting phenomenon in Australia» rivela come coloro che ci provano vengano sottoposti all’ostilità dell’ambiente che si preparano a lasciare, proprio per la loro scelta di rompere codici predefiniti e uscire dal gioco in anticipo. Coloro che restano aldiquà della linea li considerano anomalie. C’è da affrontare la solitudine, gli amici lavorano come sempre, tu sei alle prese con la gestione del tempo libero inframmezzata da piccoli lavori, tutta un’altra cosa. Lo scalino più alto è appunto quello economico. Guadagnare facendo ciò che si ama, e non sempre una persona ha le idee chiare in proposito.
Scalare una marcia è possibile soltanto al termine di un processo di risparmio, dell’accumulo di un gruzzolo che poi verrà lentamente eroso. Il cambio di città è motivato quasi sempre con la necessità di trovare posti dove il costo della vita sia più basso. La propensione al risparmio deve diventare ferrea, e questo significa cambiare pelle rinunciando alla naturale propensione al consumismo. Occorre essere molto sicuri di sé, perché non avere più lo stipendio fa paura.
La libertà da lavori e vite totalizzanti ha molto a che fare con i conti della serva più che con il gabbiano Jonathan Livingston. E il piano necessita di tempo per essere realizzato, downshifting non è l’equivalente inglese di colpo di testa, tutt’altro. Basta guardare quanto ci si mette a realizzare la propria fuga da Alcatraz. Dieci anni per Perotti, addirittura 15 per John Drake, autore di «Downshifting: how to work less and enjoy life more», uno dei libri di riferimento per chi sta pensando alla rivoluzione esistenziale. «Downshifters, Guide to re-location », «The essential downshifter», «Downshift to the good life», nel Regno Unito il racconto in prima persona sta diventando un sottogenere letterario, segno di una domanda decisamente in crescita.
Su 19 libri a tema pubblicati tra il 2007 e il 2009, solo due raccontano l’esperienza di una famiglia. Avere figli è uno spartiacque importante che rende l’impresa non impossibile ma senz’altro più difficile. La marcia da scalare riguarda un profilo di persona abbastanza definito. Media borghesia almeno, in possesso di un lavoro stressante e redditizio al tempo stesso, possibilmente con una buona rendita a disposizione, di natura ereditaria o dal risparmio.
Ne viene fuori il ritratto di una generazione, a ben vedere. I quarantenni di oggi. Quando è venuto allo scoperto, Perotti ha mandato una mail a tutti e 1.600 i contatti della sua agenda. Amici, colleghi, conoscenti. Gli hanno risposto tutti, alcuni increduli, almeno 800 ammirati, invidiosi, comunque d’accordo con la scelta che il quasi ex manager stava per fare. «Curioso: siamo passati dallo yuppismo interiore a cui abbiamo devoluto tutto a una forma di rifiuto per quello che abbiamo conquistato. Abbiamo creato un meccanismo dal quale siamo stati strangolati, e siamo la prima generazione che se ne sta rendendo conto. Quelli che hanno maggiormente goduto di questo sistema, alla fine non sono felici. Così nasce un nuovo fenomeno sociale».

Ci vuole coraggio, e si può sempre tornare indietro. Alcuni lo fanno, con il cappello in mano, vivendola come una sconfitta. La scorsa settimana, Simone Perotti ha ricevuto una telefonata. Era uno dei più grandi cacciatori di teste presenti in Italia. Gli stava offrendo the big one, l’offerta di lavoro a cui non si può rinunciare. Gli ha risposto nel corso della conversazione, e la risposta era «no». La prossima volta, potrebbe non essere così, potrebbero esserci ripensamenti. «Per il momento, sono libero da vincoli e costrizioni, e libero di gestire il mio tempo. Scalare una marcia significa questo». Mentre parla, in sottofondo si sente il rumore del mare.
Marco Imarisio corriere della sera
08 ottobre 2009