domenica 11 ottobre 2009

Flexi Time

Uffici pieni in orari fissi? Solo in Italia.
L’Europa sperimenta da anni nuove forme di organizzazione.
Che offrono vantaggi ai dipendenti. E fanno guadagnare di più le aziende

Nell'economia di oggi, non conta più quanto si sta in un luogo preciso. Conta soltanto ciò che si fa. Non c'è più spazio per la rigidità, neppure negli orari di lavoro. Perché il flexitime, come viene chiamato, in realtà fa bene all'azienda. E non in senso generico: la fa proprio guadagnare di più. Oltre a generare risparmi per la collettività, in termini di traffico, benzina, inquinamento. Questo hanno scoperto sia in Europa, sia in molti Paesi del mondo sviluppato.

E nelle sei imprese straniere che ci hanno spiegato la loro scelta. Mentre l'Italia pensa ancora agli uffici pieni in orari fissi. E interpreta la flessibilità come un beneficio graziosamente elargito dal datore di lavoro al singolo dipendente. Oppure come metodo di sfruttamento. Mascherato.
I risparmi dei teleworker
Brìtish Telecom, Gran Bretagna. Su 106 mila dipendenti, sono 80 mila, dal senior executive al programmatore, quelli che lavorano da casa o con orari "non standard" suddivisi in due, tre o quattro giorni a settimana. Secondo Caroline Waters, responsabile delle risorse umane, «oggi la competizione è agguerrita, occorre dare risposte rapide. L'orario dalle nove alle cinque non funziona più».
Primo effetto: l'assenteismo è sceso al 3,1%, mentre la media nazionale è all'8,5%, E sono diminuite anche le spese per gli uffici. Ogni dipendente che lavora da casa produce un risparmio di 6 mila sterline l'anno. Quasi nessuno si licenzia più, tanto che la mancata spesa alla voce "selezione del personale" determina un risparmio che è stato stimato in oltre cinque milioni di sterline. Prima, erano in fuga soprattutto le donne: in Gran Bretagna, oltre la metà di loro dopo la maternità lascia il lavoro. In British Telecom invece tornano. La senior project manager Rachel Baker, per esempio, a due anni dalla nascita del figlio Rueben spiega: «Ho scelto di lavorare tre giorni a settimana da casa. Quando la stanza comincia a starmi stretta, vado in uno degli uffici che l'impresa ha messo a disposizione per chi opera come me». E ora l'azienda pubblicizza il suo contributo sociale: ogni anno, evita il consumo di 12 milioni di litri di benzina e l'emissione di 54 mila tonnellate di CO2. Mentre i teleworker producono il 30% in più degli altri dipendenti.
Idee a spasso sotto il sole
Walter de Gruyter Publishers, Germania. Niente più cartellini da timbrare. Nessun badge. Nessun controllo. Nella sede berlinese di questa casa editrice, ognuno decide giorno per giorno quante ore lavorerà. Deve solo rispettare le scadenze dei progetti in cui è impegnato. La società, che oggi ha circa 200 dipendenti e un volume d'affari di 40 milioni di euro l'anno, è arrivata a questo risultato per superare una crisi: erano gli anni Novanta e il management decise che orari di lavoro più flessibili avrebbero aiutato. Da allora, ognuno gestisce il suo "conto orario" settimanale tra le sette del mattino e le otto di sera. Il dipartimento a cui fa capo deve garantire, nel suo insieme, un'unica presenza dalle nove alle tre e mezzo del pomeriggio. Sta quindi ai dipendenti annotarsi le ore lavorate e non superare il tetto stabilito dal contratto. Il modello è basato sulla fiducia e sull'adesione volontaria.
Carsten Burfeind, 39 anni, editor e project manager di un'enciclopedia della Bibbia, è entusiasta: «Quando sento di non trovare l'energia per lavorare al meglio e mi sembra di perdere tempo, esco. Durante la Berlinale sono andato a vedermi un paio di film che iniziavano presto" e se sbuca il sole, vado a farmi un giro. Le idee vengono anche cosi. In più, quando arrivo tardi o vado via presto mentre altri colleghi sono lì al lavoro, non mi sento più in colpa».
Wolfgang Bottner, del Consiglio d'amministrazione, fa il bilancio del cambiamento: «Riduzione dei costi degli straordinari, oltre a ricadute positive sul clima in azienda e sulla produttività». Entro fine 2008, sarà coinvolta anche la tipografia.

Yoga e tuttofare
Rmsi Geospatial Information, India. Specializzata in servizi di mappatura del sistema informativo geografico conosciuto come Gis, l'azienda è stata fondata nel 1992 da tre giovani appena tornati a casa dopo aver conseguito la laurea negli Stati Uniti. Ora ci lavorano quasi duemila persone. Gagan Yot, responsabile del personale, descrive la filosofia dell'impresa: «Le iniziative per favorire l'equilibrio tra attività professionale e impegni personali non riducono affatto la produttività, anzi». Per prima cosa, però, c'è la continua messa a punto dei carichi di lavoro, con un monitoraggio mensile che verifica gli squilibri e ridistribuisce compiti e responsabilità ogni volta che è necessario. Per i dipendenti, oltre alla possibilità di lavorare da casa o con orari ridotti, c'è a disposizione un "tuttofare" dedicato alle incombenze private: dai servizi postali alle pratiche in banca, agli appuntamenti con l'elettricista e l'idraulico. Al momento, se ne servono in 450. Riempiono un modulo e il giorno stesso un addetto sì presenta. Pronto ad aiutarli. Infine, ogni settimana e durante l'orario dì lavoro, ai dipendenti vengono offerti corsi di yoga per alleviare lo stress. È questa la cosa che piace di più a Kavita Yadav, ingegnere trentunenne: «Prima mi capitava di avere un fastidioso mal di schiena. Dopo i suggerimenti dell'istruttore di yoga, mi sento molto sollevata, anche su un piano psichico». E resta fedele all'azienda che l'ha assunta, due anni fa.

La borsa del tempo
Grupo Lacera, Spagna. Mai riunioni dopo le cinque, uffici vuoti il venerdì pomeriggio. D'estate, giornate a orario "compresso". E questo vale per duemila dipendenti, senza distinzioni. Sono cinque anni che l'azienda di pulizie e manutenzioni di Oviedo ha introdotto il "piano Concilia", pensato dal governo per favorire la flessibilità. E, nel 2006, è arrivato il premio del ministero del Lavoro. Anche perché grazie a Concilia, l'addetta alle pulizie Isabel Fernan-dez Galves, che alla Lacera lavora da 16 anni, ha finalmente potuto avere un turno pomeridiano. «La mattina», spiega, «posso accompagnare mio figlio a scuola, occuparmi della casa. Vado al lavoro quando torna mio marito». Grazie al monte ore mensili della "borsa del tempo", la signora Galves può anche prendere permessi, ridurre l'orario. E recuperare in seguito. L'impiegata Rachel, invece, può seguire le sue lezioni d'italiano e andare in palestra «senza il rischio di dover saltare un corso già pagato perché il capo convoca all'ultimo minuto una riunione non programmata». Il capo ora non può più farle, le riunioni "al volo". E, dal 2007, nuove misure favoriscono i congedi di paternità. Il manager Marcos Suarez è soprattutto consapevole dei benefici economici: «La nostra impresa non è una ong. Non agiamo secondo principi altruistici. Il fatturato cresce con costanza, l'indice di rotazione del personale e l'assenteismo diminuiscono e la produttività aumenta».
Fasi della vita
Allied Irìsh Bank, Irlanda. Su 24 mila dipendenti, al momento circa 1.800 sono in flexitime.
Ronan J. Sheridan, responsabile della comunicazione, spiega: «Abbiamo introdotto la flessibilità nel '95. Quei 1.800 sfruttano il job-sharing, dividendo l'impegno di un contratto a tempo pieno in due, oppure scelgono l'orario personalizzato o le pause di minimo sei mesi dei career break». L'opzione più popolare è quella dell'orario personalizzato: da un minimo di 14 ore a settimana divise in due giorni, fino a 31 ore da fare in quattro giorni. All'inizio la banca era abbastanza rigida e dopo la prima richiesta, per ottenere un secondo cambiamento di ritmi dovevano trascorrere alcuni anni. «Con il tempo però», prosegue Sheridan, «ci siamo resi conto che nella vita le persone attraversano diverse fasi e hanno bisogno di cambiamenti continui». Di fatto, dopo alcune resistenze del management, tutti si sono accorti che è meglio così. Le difficoltà sono finite. E in questo periodo quasi seicento impiegati sono in career break. Potrebbero tornare anche fra cinque anni.

Salvate i senior
Aria Foods, Danimarca, Nell'impresa lattiero-casearia che oggi impiega circa 18 mila dipendenti, il "progetto Senior" esiste dal '95. L'obiettivo? Che gli over 55 possano restare attivi all'interno dell'impresa. Lars Kaae, del dipartimento risorse umane, racconta come funziona: «Si concordano le modalità con cui la persona trascorrerà ì suoi anni da senior in azienda durante un primo colloquio, poi il dipendente segue un corso di formazione tenuto da medici, volontari, legali e rappresentanti dei fondi pensione». Buona parte dei senior sceglie di lavorare 3 o 4 giorni a settimana. Il bilancio è positivo: migliorate sia l'efficienza, sia la soddisfazione. «Ma soprattutto», sottolinea Kaae, «l'iniziativa ci ha permesso di continuare a tenere le persone, le loro competenze e il loro sapere all'interno dell'impresa».


ECCELLENZE SCANDINAVE
A scoprire il paradosso del flexitime che fa bene ai profìtti è stata Eurofound. la fondazione della Commissione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Un'indagine su oltre 21 mila imprese, pubblicata nel 2007, ha scoperto che le più dinamiche sono quelle che hanno ampliato l'uso di orari personalizzati e avviato misure per gestire la permanenza in azienda e il passaggio verso ia pensione dei lavoratori maturi. Il 19% di quelle aziende è in condizioni economiche ottime. Fra chi usa gli straordinari, invece, la collocazione nelle "ottime* scende a quota 13%. Finlandia e Svezia sono i Paesi dove la tendenza è più sviluppata, con il 33 e il 32% di aziende con flexitime e buoni profitti. La media europea è del 14%. L'Italia è all'11% - e non ci sono dettagli sugli effetti economici. In compenso, da noi un'azienda su quattro conosce bene la flessibilità" degli straordinari che chiede ai dipendenti. F.P.

IL CAPO ITALIANO? MANIACO DEL CONTROLLO SOCIALE
In Italia quella parola, flexitime, quasi non si conosce. La colpa? In buona parte, sta nella mentalità dei dirigenti. Parola di Paolo Criterio, presidente dell'Associazione dei direttori delle risorse umane italiani (Gidp). Duemila iscritti, tutti con poteri lievemente Inquietanti: sono loro, in genere, ad avere l'ultima parola su tanti destini personali. Ma è pur vero che sono sempre loro a conoscere meglio di tutti le dinamiche interne. «Da noi», spiega Citterio, «c'è un bisogno di controllo sociale dei capì sui subordinati. Li vogliono vedere lì intorno. Non capiscono che bisogna valutare le persone per gli obiettivi raggiunti, non per le prestazioni di tempo, fisiche, che forniscono. E poi c'è la pigrizia mentale. C'è il "si è sempre fatto così”. L'anno scorso la Gidp ha fatto un'indagine sul telelavoro, per scoprire che in Italia si usa morto poco. Gli ostacoli, vale la pena ripeterlo, sono nella mentalità di chi dirige: guadagna abbastanza da amare l'azienda e volerci vivere dentro, ma pretende lo stesso atteggiamento da chi guadagna morto meno». Da direttore del personale, Citterio ha introdotto varie innovazioni nell'impresa dove lavorava in passato. Palestra, sportello bancario e postale, addetti per le pratiche burocratiche personali. «Sono favorevole da sempre. Ma credo ci voglia anche un aiuto da parte di governo e sindacati, li primo potrebbe finanziare le spese di start up del telelavoro e rivedere, insieme ai secondi, certi limiti dello straordinario. Qui non parliamo delle fabbriche. Ma in settori come il terziario, gli obblighi di legge su riposi dopo lo straordinario, sabati lavorati e simili, andrebbero superati. L'ideale sarebbe permettere una certa autonomia di patti aziendali». Alessandra Baduel

La repubblica delle donne
15 MARZO 2008