La crisi? Un'opportunità. Per cambiare modo di produrre e ridare un senso al tempo liberato
di Mara Accetterà
Bisogna ritrovare il senso dell'ozio». In tempi di crisi potrà sembrare una dichiarazione snob. E in parte lo è. A farla è Serge Latouche, economista e filosofo francese autore, tra gli altri, di Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri).
Già, si potrebbe pensare, facile per lui che dopo aver insegnato per tanti anni all'Università di Paris Sud adesso gira l'Europa per conferenze. E quando è in Italia non resiste a farsi delle lunghe camminate attraverso piazze, chiese e piccoli musei. Nemico del consumismo e della globalizzazione, Latouche è convinto che la crisi dell'ultimo anno possa anche essere un'opportunità per invertire rotta ed "evitare così la catastrofe umana ed ecologica" che ha più volte annunciato.
Una di queste inversioni passa appunto per una nuova concezione del lavoro e del tempo libero. Nella nostra società però il lavoro rende degni, anzi, in un'ottica protestante il lavoro salva. E il piacere è condannato - a meno che non crei un profitto. Cosa ne pensa? «Nel sistema attuale ci sono lavori come quello alla catena di montaggio ma anche nei call center che sono lavori infami con salari altrettanto infami. Sono travailles, strumenti di tortura. Non danno alcuna dignità, al contrario dei lavori artigianali. Hannah Arendt distingueva tra vita "activa" e contemplativa.
Nella prima metteva la praxis, cioè il momento della politica, del dibattito, dell'agorà che oggi è stato quasi cancellato, poi l'opera, cioè il momento del saper fare, la danza, la musica, l'artigianato e infine il lavoro fatto per guadagnare. Quest'ultimo era una necessità che doveva essere limitata. Nella vita contemplativa Arendt inseriva la preghiera, il sogno, il gioco. Ma noi abbiamo perso il senso dell'ozio e la capacità di sognare e occupiamo il tempo libero in attività mercantili. Siamo cioè formattati e non sappiamo più che farne. Così il tempo libero si professionalizza. Dobbiamo ridare un senso al tempo liberato e così riacquistare l'incanto della vita».
In Francia da questo punto di vista avete fatto passi avanti, però c'è chi dice che la legge delle 35 ore non abbia frenato la disoccupazione.
«È una bugia. Quella legge ha creato 300mila nuovi posti. Ma è solo l'inizio. Si dovrebbe arrivare alle 30 ore di lavoro. A livello europeo e anzi mondiale, perché per me non ha senso mettere in concorrenza un europeo con un cinese. La concorrenza va regolamentata, sennò è un massacro globale». Lavorare tutti ma lavorare meno? «Già nel 1848 Marx diceva che il problema non era più crescere ma condividere meglio. Da allora la produttività è cresciuta 30 volte di più e potremmo lavorare 30 volte di meno. Invece lavoriamo due volte di meno e quegli orari recuperati li investiamo in lavori fantasma, per esempio legati ai trasporti. Siamo 30 volte più felici? No. Abbiamo creato bisogni artificiali e distrutto le risorse naturali. Auspico anche un'altra cosa. Che ci sia più mobilità e flessibilità. Nel corso della vita bisognerebbe saper reinventarsi il lavoro più volte». Lei auspica cambiamenti epocali ma parla di rivoluzione serena. Non le sembra una contraddizione? «Le rivoluzioni non sono sempre traumatiche. Penso a quella "gloriosa" del 1688 che coinvolse la monarchia inglese senza spargimento di sangue. La mia rivoluzione della decrescita è assolutamente pacifica e comincia con un cambio di mentalità: si deve uscire dalla prigione della crescita e cambiare modo di produrre. Non è un ritorno alla caverna come accusano i miei critici. È un progetto per una società autonoma ed ecologica dove a crescere deve essere la nostra gioia di vivere». Ma le frenate portano dolore...
«Dolore a chi non è preparato, a chi è un tossicodipendente della società dei consumi e del lavoro. E rompere con la droga è difficile. Per anni persino la sinistra ci ha spinto alla corsa allo sviluppo, a ingrandire il Pil sempre di più, ma quella torta era avvelenata e ci ha portato inquinamento e distruzione». E questa crisi.
«Lo si diceva da molti anni. Herman Daly, ex economista della Banca Mondiale, aveva segnalato che la corsa allo sviluppo sarebbe stata insostenibile per le risorse del pianeta. La crescita va di pari passo all'inquinamento. È vero che i redditi aumentano ma così anche le spese per compensare e riparare i danni della crescita e che sono nascosti nell'inquinamento, nelle malattie, nelle spese per i farmaci. Il guadagno non è proporzionale alla felicità, anzi al benessere vissuto, che è misurabile. Il paradosso di Easterlin, economista americano, dimostra che il benessere aumenta col reddito fino a un certo punto, poi decresce».
È innegabile che ci sia una certa angoscia per la perdita di posti di lavoro. «Certo, ma è anche un'opportunità di cambiare. Vogliono farci credere che quello che succede sia legato solo al mondo finanziario, ma no, è una crisi sistemica, è una crisi di civiltà e noi ci troviamo davanti a una svolta della storia. Per questo servono soluzioni nuove. La polìtica dei governi attuali è sbagliata. Persino Obama fa meglio di Sarkozy, ma cerca di salvare Wall Street». E invece? «Il nostro immaginario è colonizzato dall'economia. Sa come si dice? Quando si ha un martello nella testa si vedono i problemi sotto forma di chiodi. Deconomicizziamoci. La soluzione non è consumare, produrre e fare soldi. Ma decrescere, uscire dal sistema capitalistico e andare verso una società del doposviluppo, un progetto dì ecosocialismo».
E lei come mette in pratica queste cose? Come passa il tempo? «Adesso sono in pensione, però vado in studio ogni giorno e scrivo. Traggo grande soddisfazione dal creare ogni giorno qualcosa di nuovo. Leggo anche molto, anzi vorrei avere il tempo di rileggere la mia biblioteca ma non so se ci riuscirò. Cammino, visito musei e chiese anche quando sono in Italia per conferenze. Non viaggio più in aereo. A Parigi poi, da quando hanno fatto le piste ciclabili, sono sempre in bicicletta».
Le sue scelte sembrano in sintonia con quello che descrivono Dan Kieran e Tom Hodgkinson in The Book of Iòle Pleasures, piaceri molto semplici e slegati dal consumo compulsivo come raccogliere le fòglie, tirare i sassi nell'acqua, farsi un lungo bagno. «Vivo un terzo del tempo in una casa sui Pirenei, nella Catalogna francese, da dove ho una splendida vista sulla montagna Canigou. Capisco bene il piacere dello spettacolo naturale, passeggiare con la neve, raccogliere piante selvagge, riconoscere gli alberi. Però io sono più un cittadino. I decrescenti sono divisi in due tribù: quella della campagna e quella della città, lo appartengo senza dubbio alla seconda». Per essere un decrescente bisogna rinunciare a molte cose. «Non pongo la questione in termini di rinuncia. Non uso l'aereo, la macchina e non guardo la tv ma perché non ne sento la necessità. Non creda che la tv francese sia molto meglio di quella italiana. Quando mia moglie guarda le notizie io ascolto Bach e rileggo l'Odissea».
Alla fine del suo libro lei dichiara che il ruolo dell'artista è insostituibile per la costruzione di una società serena della decrescita. Ci salveranno gli artisti? «Qualche mese fa nove intellettuali delle Antille hanno lanciato un manifesto "per i prodotti di alta necessità". In questo documento, non a caso dalle ex colonie dove il nostro modello economico ha prodotto dei disastri, difendono, contro lo sfruttamento del lavoro e la disuguaglianza sociale, quei valori non commerciabili come la libertà, l'eguaglianza e la fraternità e che però sono vitali. Vede, c'è una parte prosaica della vita e una poetica, lo credo che bisogna lottare per quella poetica».
23 MAGGIO 2009 - la repubblica delle donne