Chi era Fabio Curti? Chissà! Sicuramente una istituzione, per chi a Brescia segue i numerosissimi concerti e mostre (non è vero che a Brescia non succede niente, chi lo dice si trasferisca a New York e viva là felice e contento). Lo definivo "il professore". Mi dava l'idea di quegli insegnanti in pensione, solitari, abbandonati da tutti e che magari hanno difficoltà a tirare avanti. Le prime volte che lo vidi, decenni fa, alla inaugurazione di qualche mostra, aveva l'aria dell'"imbucato", di chi è lì per mangiarsi le tartine e rimediare la cena. Prendeva i depliant, e via per un'altra inaugurazione. Ma era anche ai concerti (senza tartine). E chi riusciva a scambiare due parole con lui, scopriva una persona molto curiosa (nel senso che era piena di curiosità, chiedeva notizie degli strumenti, come suonarli, ecc.). Ce ne sono sempre meno, di quelle persone. E rimpiango di non avere mai avuto il coraggio di parlargli, di chiedergli notizie di sè. Bello l'articolo che gli dedica Massimo Minini.
Curti
e le sue carte. Quale futuro per il suo archivio?
Fabio
Curti
era come un fantasma. Un po' quell'impermeabile bianco, stile
tenente Colombo che già
di per sé dava un'idea di understatement, qualcuno che "seguiva
un suo pensiero senza troppo curarsi delle apparenze.
Cosa
pensassero gli altri di lui non é che non gliene importasse,
semplicemente era troppo occupato a rincorrere gli avvenimenti di
seppur vago sapore culturale per porsi il problema. Guardava per
terra davanti a sé mentre camminava, un po' per timidezza, un po'
per la schiena, un po' per il peso del bottino; non salutava per
troppa concentrazione, sembrava non vedere. Invece vedeva tutto
e ultimamente mi faceva persino dei trattenuti sorrisi...
Poi
il suo incedere, con quella piega in avanti, chissà', una scoliosi,
una deviazione o forse solo il peso delle carte che gentilmente, con
mano (anzi manina) delicata ma determinata raccoglieva ad ogni dove.
Chissà
chi era Fabio Curri, dicono un ingegnere: se é vero, un
Ingegnere anomalo, uno ammalato di cultura, di curiosità, di
collezionismo spinto alla manìa. Uno che, narra la leggenda, rimase
sotterrato sotto un catasta di documenti raccolti puntigliosamente
negli anni, documenti che gli si sono ribellati, sotterrandolo. L'ho
conosciuto, la prima volta, con il professor Giancarlo Piovanelli,
mio insegnante di Storia dell'arte, anni fa. Vennero in galleria e
restarono a parlare, veramente parlava solo Piovanelli, cui
notoriamente non manca la parola specialmente se si parla d'arte. E
mentre io e il mio ex professore ripercorrevamo le nostre vite,
lui allungava sguardi pieni di un triste ma determinato interesse
verso le amate «carte». E si vedeva che le avrebbe anche mangiate
pur di averle. Quel giorno gli diedi tutto quello che potevo e lui
usci felice col suo sacchetto di plastica bianco, anonimo,
quelli dei fruttivendoli che non possono permettersi la sovrastampa
personalizzata.
Quel
sacchetto che sempre lo accompagnava, vuoto all'inizio del periplo,
gonfio del cartaceo bottino al termine del suo «voyage au bout de la
nuit». Niente a che vedere con Celine, un amico mi suggerisce
piuttosto Truffaut. lo propenderei per Monsieur Hulot e Jacques
Tati, non fosse che la statura non corrispondeva.
Sabato
era in prima fila in Santa Giulia alla presentazione del grande
libro sulla Pinacoteca. Poco dopo non c'era più. Ma come é
possibile? Ma come è possibile! E il suo archivio? Lo immagino
enorme, disordinato, impilato in disequilibrio, non credo
popolato tanto di libri quanto piuttosto da documenti. Chissà
dove abitava. Aveva una famiglia? Figli? Stavo per andare a trovarlo
e capire come era fatto quel tesoro, forse una collezione
importante per la cultura a Brescia. Posso chiedere agli eredi di non
buttare via quelle montagne di cartacce e di farcele consultare?
Massimo
Minini
Corriere
della Sera, 24 dicembre 2014