mercoledì 26 novembre 2014

i grandi dei

La credenza nei custodi immortali ha consentito il passaggio epocale dalle piccole tribù a grandi comunità fondate sulla cooperazione tra estranei

Il legame sociale
è figlio degli Dei

«Chi viene sorvegliato si comporta bene». Un principio alla base delle civiltà più antiche

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Nel 1904 Max Weber attraversa in treno gli Stati Uniti. Conversando con un casuale compagno di viaggio, il sociologo finisce col parlare di religione. È allora che l’uomo, un commesso viaggiatore, pronuncia una frase divenuta celebre: «Signore, per quel che mi riguarda ognuno è libero di credere o di non credere, a suo piacimento; tuttavia, se incontrassi un agricoltore o un imprenditore che non appartiene ad alcuna Chiesa, non gli farei credito nemmeno di 50 centesimi. Perché uno che non crede in niente dovrebbe pagarmi ciò che mi deve?».
Il tema della fede è centrale nello sviluppo della società umana. Ne dipendono l’organizzazione dei gruppi, commercio e crescita, pace e guerra. In un mondo in cui siamo sempre più a contatto con chi ha una religione diversa, e con chi non ha religione alcuna, la questione del commesso viaggiatore di Weber è fondamentale. Possono convivere credenti e non credenti? Può coabitare chi ha Dei diversi? La risposta è di norma affidata ai leader politici e religiosi: a Obama, al Dalai Lama, a Papa Francesco, al califfo dello Stato islamico. Oppure ai teologi. Tuttavia, contributi profondi e originali vengono sempre più dagli antropologi, dagli studiosi di economia comportamentale, dagli psicologi.
Ara Norenzayan, professore di Psicologia sociale all’Università della British Columbia, in Canada, ha scritto un libro molto importante che esce ora in Italia: Grandi Dei (Raffaello Cortina). L’autore ha una tesi ambiziosa. Si deve alla religione la transizione avviata circa undicimila anni fa da società organizzate in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori strettamente imparentati tra loro, a società stanziali, inizialmente basate sulla domesticazione di animali e cereali, e poi ingranditesi fino alle grandi strutture sociali moderne, in cui moltitudini di anonimi cooperano su larga scala.
Perché ciò fosse possibile, si sono costruite sulla cooperazione tra estranei non sono il risultato di una religione qualsiasi. Ci sono voluti «Grandi Dei» perché nascessero «grandi gruppi»: ci sono volute le divinità delle grandi religioni monoteiste e politeiste che hanno conquistato la terra, Dei potenti, onniscienti e intenti al controllo del comportamento morale degli uomini.
Si srotola pagina dopo pagina l’argomentazione di Norenzayan. Lucida e appassionata. I Grandi Dei possono essere molto diversi tra loro, tanto quanto Shiva differisce da Gesù Cristo. Essi tuttavia hanno in comune otto principi di cui l’autore intende dimostrare la validità logica e sperimentale.
Il primo principio è il più importante: «Chi è sorvegliato si comporta bene». L’avvento dei Grandi Dei e dei grandi gruppi è cominciato qui, quando il controllo sociale esercitato dai piccoli gruppi etnico-familiari è stato sostituito dalla sorveglianza di «occhi soprannaturali». È stato allora possibile costruire legami di fiducia e scambio tra estranei, allargare l’economia, ingrandire le comunità. Sviluppando precursori naturali inscritti nella mente attraverso l’apprendimento culturale, i Grandi Dei hanno creato legami efficaci di timore e di fiducia. Sono i principi numero due, tre e quattro: «La religione è più nel contesto che nelle singole persone»; «L’inferno è più potente del paradiso», «Fidati di coloro che si fidano di Dio».
Crescendo, le grandi religioni hanno dovuto combattere il rischio della falsa fede, dell’imbroglio, dell’ipocrisia dei profittatori. Hanno così selezionato leader credibili e divinità degne di venerazione, per cui valeva la pena di compiere riti «bizzarri» e «costosi». Ecco i principi numero cinque e sei: «Nella religione le azioni contano più delle parole»; « Gli Dei che non sono oggetto di adorazione sono Dei impotenti». Si sono imposti così, recita il principio numero sette, «Grandi Dei per Grandi Gruppi», ovvero gruppi religiosi che, come recita l’ultimo principio, «cooperano per competere».
Emigrato in Canada dal Libano a causa della guerra, Ara Norenzayan giunge con il suo ultimo principio al nodo della violenza religiosa. Constata che nei Grandi Dei vi sono parti che «possono generare e intensificare i conflitti», ma anche «impulsi che possono essere convogliati per attenuare e superare i conflitti». È piena di energia questa sfida a guardare al divino dal punto di vista dell’interazione tra mente e società, tra evoluzione biologica e culturale. L’attenzione sulla sorveglianza dall’alto pone questioni scomode. L’autore suggerisce che dopo il passaggio dalle piccole società alle società sotto «i grandi occhi del cielo», si profila ora il passaggio a società complesse in cui l’empatia e la compassione per il genere umano e la solidarietà sociale, unite a istituzioni laiche efficaci e non corrotte, con giudici indipendenti e Stato di diritto, si candidano a sostituire gli «osservatori soprannaturali».
È il passaggio che sembra intravvedersi nelle società scandinave, cui è dedicato l’ultimo capitolo del libro, e in generale laddove i credenti, a differenza del commesso viaggiatore di Weber, riescono ad aver fiducia persino negli atei. Nella sua bella introduzione al volume, Telmo Pievani invita a non ridurre il pensiero di Norenzayan, com’è invece avvenuto negli Stati Uniti, alla divisione del mondo in svedesi laici, ricchi e tolleranti, e arabi religiosi, poveri e fondamentalisti. Il passaggio «dagli Dei vigili ai governi vigili» è certo cruciale. Ma la forza dell’autore sta altrove. Egli si sforza di adottare il punto di vista dell’occhio di Horus, raffigurato nei bassorilievi dell’antico Egitto, e degli occhi di Buddha, ritratti negli stupa del Nepal. Come fanno gli Dei, Ara Norenzayan guarda in fondo alla nostra mente.
Marco Ventura