lunedì 1 luglio 2013

le parole di Manlio Milani

Sul magazine "l'estro verso" del maggio 2013 è apparsa questa bella  intervista a Manlio Milani, relativa alla strage di Piazza della Loggia del 1974.


 Abbiamo voluto affiancare a "Parole povere" le parole, nobili e intense, di Manlio Milani. Tragicamente segnato dalla strage di Piazza della Loggia, egli in questi anni ha testimoniato con esemplare impegno, attraverso la Casa della Memoria, la necessità di una presenza che non fosse solo commemorativa, ma affermasse le ragioni della giustizia e le istanze di un vivere civile che sappia contrapporsi alla violenza e all'intolleranza. Proponiamo di seguito una sintesi della lunga intervista che ha concesso a L'estro verso.

Le chiediamo come ha vissuto, cosa ha provato nelTassistere allo spettacolo teatrale "Parole povere". Quali le sue emozioni, le sue riflessioni?
Lo spettacolo mi ha profondamente emozionato, sostanzialmente per due ragioni. La prima è il grande valore della proposta teatrale in sé: la dedizione, la partecipazione di chi l'ha costruito e di chi soprattutto l'ha interpretato. C'è però un altro elemento che vorrei sottolineare e lo faccio usando con grande rispetto la parola diversità. La cosa più straordinaria è stata vedere che le persone che hanno interpretato quei ruoli e ricostruito quella storia spesso nella società vengono indicate come diverse, separate dalla cosiddetta normalità. In realtà sono uno specchio della cosiddetta normalità. Vedere presentata una straordinaria ricostruzione di quel giorno terribile da coloro che, ripeto con rispetto, vengono visti come una diversità in realtà fa apparire ancora più tragica la "normalità" di quella tragedia. Purtroppo, e l'abbiamo visto anche recentemente con le bombe a Boston, queste tragedie stanno diventando sempre più "normalità". Ed è questa "normalità" che oggi dobbiamo cercare di mettere in discussione. Ecco che allora la cosiddetta diversità diventa un elemento positivo che ci offre l'importante occasione per una preziosa riflessione. Secondo me questo è stato il grande messaggio, ripeto bello ed emozionante, dello spettacolo.
Quali sono le ragioni per le quali secondo lei non si è ancora fatta giustizia sulla strage di Piazza della Loggia?
Dobbiamo cercare di metterci d'accordo sui termini. Noi diciamo che non c'è giustizia perché giudiziariamente non sono stati individuati e condannati i responsabili. Sulla strage di Piazza della Loggia però abbiamo oggi molte verità e le troviamo fra le motivazioni della sentenza dell'ultimo processo d'appello. Anzitutto l'indicazione di possibili colpevoli, non condannabili in quanto nel frattempo morti e perciò usciti dal processo. Ermanno Buzzi, processato nel 1979, condannato all'ergastolo in primo grado nella prima istruttoria, poi alla vigilia del processo d'appello trasferito dal carcere di Brescia a quello di Novara e lì strangolato da due neofascisti per farlo tacere. Carlo Digilio, l'armiere dell'organizzazione della destra eversiva Ordine Nuovo veneto, indicato come colui che ha costruito l'ordigno e che, ricordo, è stato condannato per aver costruito anche la bomba esplosa il 12 dicembre 1969 a Milano in Piazza Fontana; la sua figura è quindi un evidente collegamento fra le due stragi, facendoci vedere come in quegli anni vi sia stato un progetto eversivo unificante. Il terzo possibile responsabile è un certo Marcello Soffiati, che teneva i rapporti di Ordine Nuovo con gli ambienti dei servizi segreti italiani e americani. È quindi provato che la strage di Piazza della Loggia, come altre stragi, è ascrivibile alla destra eversiva. Sappiamo anche con certezza la copertura, i silenzi, la distruzione di documenti messa in atto da uomini dei servizi segreti e che sono alla base del perché dell'impunità. Ad esempio: se il generale Maletti, interrogato nell'agosto del 1974, avesse allora testimoniato ciò che era a sua conoscenza e che oggi sappiamo, lo sviluppo giudiziario, scrivono i giudici nelle motivazioni, sarebbe stato molto diverso. Abbiamo infine anche il movente della strage, chiaramente emerso nel corso del processo: l'anticomunismo, fare cioè in modo che non venisse attuato il cosiddetto compromesso storico, cioè l'alleanza di governo fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, un'alleanza che per certi versi riprendeva l'unità della lotta antifascista come modalità per affrontare i gravi problemi del momento.  
In questi lunghi anni, ormai trentanove, di assenza di una vera giustizia, non ha mai avuto momenti di cedimento, di rinuncia? Come ha reagito? Quali ragioni si è dato e si dà per continuare nel suo impegno civile?
Se dicessi che non ho mai avuto cedimenti o voglia di rinunciare vi direi una bugia. Ne ho avuti tanti. Le stragi sono diverse dagli atti di terrorismo che colpiscono singole persone, per esempio giornalisti o magistrati. Uccisero il giornalista Walter Tobagi perché smettesse di approfondire chi erano i terroristi: lui li riteneva, smitizzandone l'immagine, dei "samurai non invincibili". Paradossalmente nella tragica scelta delle persone da uccidere fatta dai terroristi, vedi riconosciuto il valore di quelle persone. Diranno, a proposito di Emilio Alessandrini che bisognava ucciderlo perché "troppo bravo". Invece nelle stragi le persone sono completamente annullate, ridotte a numeri: più alto è il numero dei morti, maggiore è l'effetto sull'opinione pubblica. Perché lo scopo implicito nella strage è quello d'ingenerare la paura, far sentire tutti insicuri. Certo, quando la subisci personalmente vieni a perdere, o si riduce fortemente, la fiducia negli altri. Anche perché noi quella mattina eravamo in Piazza della Loggia per difendere il diritto di tutti alla libertà. Ma come? Noi siamo qui a difendere le istituzioni democratiche e improvvisamente succede tutto questo? A ciò si aggiunga anche la perdita di fiducia nei confronti delle istituzioni, una lacerazione che si accentua quando vieni a sapere delle coperture e degli impedimenti all'individuazione dei colpevoli messi in atto da uomini delle istituzioni. Nasce quindi un sentimento di totale sfiducia che, se portato all'estremo, diventa la rinuncia al voler vivere. E qui è una delle cose più importanti che ho imparato: guardare ai fatti, renderti consapevole che le verità che conosciamo le dobbiamo ad altri uomini dello Stato. Questo dice della necessità di saper distinguere; pur provando spesso questo sentimento di sfiducia, grazie a tutto ciò mi sono convinto della possibilità di perseguire la scelta faticosa del non rinunciare a vivere. Un altro esempio d'esperienza. Ero all'obitorio, il pomeriggio di quel giorno, davanti al corpo di Livia freddo, immobile. Livia era una ragazza molto dinamica, sempre in movimento, un'insegnante che portava a casa gli studenti; sentivo che lì non c'era più lei. Allora sono tornato in Piazza della Loggia, quasi a volermi riappropriare di ciò che era avvenuto. E succede una cosa straordinaria. La piazza è piena, vengo riconosciuto, c'è come un grande movimento: mi chiamano e si fanno attorno, una dimostrazione di grande solidarietà, una formidabile partecipazione che tifa rivivere per un momento. E poi le parole che mi vengono dette: "E importante che tu sia qui perché noi non gliela dobbiamo dare vinta, dobbiamo saper rispondere tutti insieme". Questo sarà per me un punto di partenza fondamentale: comprendo come sia importante raccontare, testimoniare i fatti, recuperare una mia dimensione soggettiva, ma nello stesso tempo riconoscermi in una dimensione collettiva, dentro la storia. Perché è nelle ragioni della storia che puoi trovare quell'elemento che ti porta a poter sopportare la perdita che hai subito.
C'è una speranza civile, oltre a quella della giustizia per la strage di Piazza della Loggia, che vive in lei e vuole condividere con noi? 
 Bisogna partire da un presupposto. Questi fatti non colpiscono alcune persone, ma colpiscono tutti e la strage di Piazza della Loggia è quella che più di ogni altra certifica esplicitamente la volontà di modificare violentemente le istituzioni democratiche. Ecco perché non riguarda qualcuno, ma tutti e la memoria di essa a maggior ragione è un fatto pubblico. Dobbiamo distinguere fra ricordo e memoria. Ricordo è ciò che ho vissuto quel giorno, è il mio rapporto con Livia e coi miei amici Trebeschi, attiene alla mia interiorità. La memoria è una dimensione pubblica, collettiva. La memoria è partire da quel fatto per capirne insieme le ragioni e trarne gli insegnamenti per il futuro. Se la storia di quegli avvenimenti viene pubblicamente svelata, penso che la democrazia di questo paese non possa che migliorare. Nel libro "Uomini e no" di Elio Vittorini c'è un bellissimo dialogo fra il nonno e il nipote a proposito della Resistenza. Il nipote chiede: "Perché sono morte queste persone?". Il nonno risponde che bisogna imparare da quei morti. Il nipote allora domanda: "Imparare dai morti? Che cosa dobbiamo imparare?". E il nonno risponde: "Le ragioni per cui sono morti". A questo insegnamento ci richiama la memoria del passato. Aggiungo che io sento molto la mancanza del volto del colpevole. Vorrei poterlo guardare, parlare con lui, ascoltare le ragioni che l'hanno condotto a operare quel gesto. Non sto parlando del perdono, cosa completamente diversa. Avrei bisogno di capire che cosa l'ha spinto. Se io mi pongo in quest'ottica non solo mi porrò il problema di recuperare quella persona, ma porrò anche il problema di superare quella rancorosità che c'è all'interno della nostra società e che ci fa vivere in contrapposizione l'uno rispetto all'altro.
Lei pensa che se la sentenza della Cassazione identificasse i colpevoli, ancorché morti e quindi non condannabili, ciò potrebbe compensare il fatto che non sconteranno mai la pena? Indubbiamente da una parte sì. Senza l'individuazione dei colpevoli hai come la sensazione che il fatto non sia mai avvenuto, che tutto sia in balia degli eventi. Talvolta mi è capitato di dubitare, dopo le sentenze che negavano l'esistenza di colpevoli, se eravamo davvero in piazza quel giorno. Difatti dopo la sentenza dell'ultimo processo qualcuno ha messo sulla stele di Piazza della Loggia un cartello con scritto: "Qui non è successo niente". La giustizia serve proprio invece a dire che non soltanto il fatto è accaduto, ma che si è riusciti a fronteggiarlo.