lunedì 1 luglio 2013

Il male viaggia sul telefonino (Marek Halter)


Imagine there’s no countries

It isn’t hard to do 

Nothing to kill or die for

And no religion too

Imagine all the people

Living life in peace

Il male viaggia sul telefonino (Marek Halter)
Il conflitto siriano è entrato in una nuova fase, ben più pericolosa delle precedenti. Fino a pochi
mesi fa, l’opinione pubblica internazionale veniva informata dei massacri compiuti dall’aviazione
del regime di Damasco, della morte dei bimbi o della distruzione dei villaggi e degli ospedali
soprattutto grazie alle immagini registrate dai cellulari.
Quei filmati erano una richiesta di aiuto che proveniva da una popolazione sotto le bombe o vittima
delle rappresaglie degli shabiha, gli uomini delle squadracce di Bashar al Assad.


Si usava il cellulare come forma di impegno civile, per testimoniare di un sopruso, per gridare al
mondo il proprio sdegno o il proprio bisogno di aiuto. Oggi è diverso. Il cellulare è ormai uno
strumento passivo.
La condanna a morte e la decapitazione diventano eventi normali, e chi vi assiste

può scattare foto o riprendere filmati come se si trattasse di una cerimonia qualsiasi, di una festa di
nozze o di una partita di calcio per, un giorno, poterli mostrare ai propri nipotini. Questa
banalizzazione del male è in contraddizione con lo spirito critico di chi insorge contro l’orrore. Il
cellulare non serve più a trasmettere l’abominio, ma a fissarlo.
Si indirizza la lente del telefonino

contro chi sta tagliando la gola a un povero Cristo, sia esso un monaco o un “traditore” della
rivoluzione sunnita, solo per captare l’istante. E per dirsi: «Io c’ero! Che fortunato che sono! Ho
assistito all’esecuzione di un uomo e posso dimostrarlo».

Lo stesso è accaduto durante l’impiccagione di Saddam Hussein, o durante la cattura e il linciaggio
di Muammar Gheddafi. Davanti al garage dove era stato adagiato il cadavere dell’ex raìs, gli
shebab facevano la fila per farsi fotografare accanto al suo corpo sfregiato.
Come disse Robespierre, per questa gente «la giustizia è l’esecuzione del terrore». In Siria sono
sempre più numerosi coloro che pensano che sia più giusto eseguire una condanna che giudicare,
che la morte sia sempre auspicabile, anche senza il bisogno di un processo sommario. Ho perciò
chiesto al Papa di accogliere al più presto una delegazione di trenta imam, guidata da me che sono
un ebreo di Varsavia, per dimostrare al mondo che chi uccide in nome dell’Islam, sia esso nelle file
di Bashar al Assad sia in quelle dei salafiti o di Al Qaeda, non rappresenta né Allah né il Corano. E
che 1,2 miliardi di musulmani condannano questi atti. Ma è necessario agire molto in fretta. Anche
per salvare i cristiani di Oriente: i copti egiziani, per esempio, sono tra i più minacciati. La più
antica comunità cristiana del pianeta potrebbe scomparire, massacrata in nome di un Islam fasullo e
incarnato da una minoranza di esagitati.
Se le persone che hanno assistito alle decapitazioni dei tre uomini avessero usato il loro cellulare
per lanciare richieste di aiuto, si sarebbero comportati da bravi musulmani. Ma loro si sono limitati
a fissare un’immagine. Il loro intento non era verosimilmente neanche quello di voler trasmettere
l’orrore del quale erano partecipi o forse protagonisti. Trasmettere è cercare di intervenire sulla
Storia. E non è stato così. Hanno colpevolmente scattato una foto ricordo, o girato la scena della
barbarie, senza preoccuparsi delle conseguenze del loro atto. Ora, nel Corano è scritto che un uomo
che salva una vita umana salva l’intera umanità.

I tempi per scongiurare una guerra di religione sono sempre più stretti. Anche perché c’è il rischio
di una reazione cristiana ai massacri compiuti dai jihadisti. Basterebbe che si scoprisse che i tre uomini decapitati sono davvero degli uomini di chiesa per dar fuoco alle polveri.

in “la Repubblica” del 29 giugno 2013