domenica 6 gennaio 2013

Oriana Fallaci Ho visto i conflitti del mondo li odio con tutte le mie forze


Faccio anche politica, sono anche politica, quando vado a vedere le loro sporche guerre. Come la guerra di Sharon. E questa è la parte del mio lavoro, del mio dovere, che mi attrae meno. Come corrispondente di guerra ho seguito la maggior parte delle guerre degli ultimi quindici anni. Sono stata alla guerra in Vietnam, in vari viaggi per otto anni. Sono stata alla Guerra indo-pakistana, nel Bangladesh, nel conflitto medio-orientale, nelle basi segrete dei fedayn in Giordania prima che fossero spazzate via, senza contare le varie insurrezioni in America Latina e altrove, (guerre anche quelle), e ogni volta ho odiato la cosa come quel capitano americano a Dak To, in Vietnam, che prima di condurre i suoi uomini alla battaglia per la collina 1383 mi disse: «Ogni volta è la prima volta, e ogni volta è peggio perché so meglio che cosa dovrò affrontare».

Vi dirò, vi sono corrispondenti di guerra cui andare alla guerra piace. Ci si muovono bene, quasi con grazia: l'elmetto gli sta bene, e così la giacca antiproiettile, l'uniforme quando si è obbligati a indossarla. Io no. Non posso sopportar le uniformi, considero la giacca antiproiettile un indumento scomodo e sinistro perché pesa troppo e lega i movimenti, mi sento disperatamente ridicola con l'elmetto in testa. Ma più che l'elmetto e la giacca antiproiettile e le uniformi, odio lo spettacolo della sofferenza. Odio la morte.
Sapete, io non sono una persona che piange facilmente. Anzi, e purtroppo, non piango mai. Non sono neanche una persona che si impressiona facilmente dinanzi agli orrori. Ne ho visti troppi. Eppure, quando mi trovo in una guerra, i miei occhi sono quasi sempre lucidi di lacrime e mi vengono certi nodi alla gola che non riesco più a parlare. A Beirut era così. Ogni volta che Sharon bombardava dalla terra, dall'aria, dal mare, sicché il cielo sopra la città diventava rosso e nero come l'inferno, mi si riempivano gli occhi di lacrime e non riuscivo più ad aprir bocca. Neanche per insultare qualcuno che una sera disse: «È eccitante. Ero curioso di vedere almeno una volta questo spettacolo e bisogna ammettere che, purtroppo, è eccitante». 
Quando si tratta di guerra, io ignoro il significato della parola eccitante . E della parola curiosità . Nemmeno quando sono andata la prima volta in Vietnam avevo quel tipo di curiosità. Infatti lo sapevo cos'era la guerra: fin da bambina. Come i bambini di Beirut ho imparato da bambina a correre sotto le bombe, a sopportare il terrore delle incursioni aeree, i cannoneggiamenti dell'artiglieria, le fucilate vili dei francotiratori, la paura, la distruzione, la morte, i cadaveri che puzzano fino a soffocarti.
Ho imparato nella Seconda guerra mondiale che trovarsi in una guerra non è come guardarla alla televisione, dove diventa uno spettacolo simile alle partite di calcio. Da adulta ho imparato anche che cos'è un massacro. Sebbene non abbia visto quello di Beirut ho visto quello di Hué, in Vietnam, quelli di Dacca, nel Bangladesh, quello di Città del Messico dove mi son presa anche tre pallottole, e vi dico che la televisione non dà la minima idea di che cosa è un massacro. Né le fotografie. Le fotografie non puzzano.
Sì, lo so: tutti odiano la guerra o dicono di odiarla. Però tutti la accettano come una parte della vita, o almeno come una maledizione che fa parte dell'esistenza. «La guerra è sempre esistita e sempre esisterà». Senza contare i farabutti che non la odiano per niente e anzi ci credono, suonano fanfare per essa. Ad esempio il gentiluomo, un ebreo americano che lavora per l'Istituto degli studi strategici a Washington, che conobbi a Tel Aviv, a casa di Yael Dayan: la figlia di Moshe Dayan. Mi disse con sussiego: «La guerra è bella». E qualcun altro rispose: «Non bella, necessaria». La guerra non è necessaria, accidenti! Non è neanche una maledizione inevitabile. Ve lo dico io che cos'è la guerra: l'attività più idiota, più illogica, più grottesca del genere umano; il crimine legittimato più abbietto, più inaccettabile, che possa esser commesso dai bastardi che ci comandano; l'ultima risorsa degli imbecilli che non sanno risolver le cose col cervello perché non hanno cervello. E così fanno la guerra. No, non la fanno. Ci mandano gli altri a farla. Come dissi al generale Galtieri durante la Guerra delle Falkland, coloro che decidono le guerre non le fanno mai. Non le vedono neanche col cannocchiale. Ci mandano gli altri.
Anche il gentiluomo (continuiamo a chiamarlo così) dell'Istituto degli studi strategici a Washington non aveva mai fatto una guerra. E manderebbe gli altri a farla: i giovani in buona salute, voi.

Oriana Fallaci - pubblicato dal Corriere della Sera 2 gennaio 2013