Mandare in soffitta il Pil per costruire un’economia del benessere
DI GIAMPAOLO FABRIS
Repubblica affari e finanza, lunedì 2 febbraio 2009
Di essere in una situazione di crisi lo sappiamo sin troppo bene. Che siano ogni giorno stime nella fluttuazione del Pil a ricordarcelo è una conferma di quanto anacronistici, e socialmente offensivi, siano gli indicatori di cui l’economia si serve. Quanto profondo lo iato tra una malintesa concezione dell’economia e la società.
A testimonianza del diffuso malessere per questo indicatore vorrei ricordare come, nelle recenti festività fra gli sms più inviati, viralmente o come augurio natalizio, vi fosse la registrazione del discorso di Bob Kennedy nel 1968 all’Università del Kansas. La prima, che mi consti, tanto autorevole e severa requisitoria su questo indicatore. Ho ricevuto questa mail da più fonti fra cui Marco Roveda, pioniere, con Scaldasole, dell’industria biologica in Italia ed ora impegnato con Lifegate a ridurre ad impatto zero, con processi di riforestazione, le emissioni di CO2. In quel discorso Kennedy afferma che ad alimentare il Pil "sono anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità per le sigarette, il costo delle ambulanze che intervengono per le carneficine sulle autostrade, il napalm e l’armamento nucleare, i programmi tv che glorificano la violenza, le serrature per barricare le nostre case e i costi della prigione di chi le infrange…il Pil cioè misura tutto ad eccezione di ciò che rende la vita degna di essere vissuta". Da allora sono trascorsi quattro decenni, la sua messa in stato di accusa è ormai ricorrente e le pubblicazioni all’insegna della più drastica condanna non si contano più: fra le tante segnalo due recenti, eccellenti volumi (De Padova, Lorusso: «DePILiamoci. Liberarsi del Pil superfluo ed essere felici». Ed. Riuniti; Dacrema: «La dittatura del Pil», Marsilio). Illustri economisti (Senn, Kaheneman, Stgliz ) hanno, al pari, messo in guardia dal considerare il Pil come misurazione del benessere collettivo. Ma è risultato più comodo attribuire loro premi Nobel che non apportarvi anche la più timida correzione.
Che lo stato di benessere di un Paese, lo stato della sua economia si valutino ancora sulla base di un indicatore tanto semplicistico e grossolano, adatto forse a società di prima industrializzazione, non è soltanto incomprensibile ma anche socialmente inaccettabile. Le devastazioni in atto nella striscia di Gaza si rifletteranno positivamente sul Pil di quel Paese perché occorrerà ricostruire così come, per Israele, reintegrare la sua macchina da guerra. Il Pil potrebbe divenire utile se integrato, ponderato, corretto da altri indicatori. Soprattutto depurato da componenti non socialmente utili o addirittura, come sovente accade, dannosi per la collettività.
Il Pil non misura la qualità dei prodotti, la loro compatibilità ambientale, la soddisfazione del consumatore, la qualità della vita. In breve non indica il livello di benessere di un Paese. Eppure, nei confronti di questo indicatore, c’è una sorta di idolatria: diminuzioni o aumenti di qualche decimale divengono notizie di prima pagina, inducono depressione o euforia. C’è davvero da chiedersi come tutto ciò sia possibile. Come sia ancora accettabile fotografare il contributo dell’economia al benessere di una nazione con un indicatore tanto misleading.
Non è davvero un interrogativo retorico questo. Non è impossibile, né eccessivamente costoso se non abbandonare il Pil che può comunque risultare utile se non altro per i raffronti internazionali –, affiancargli comunque altri indicatori che introducano quelle dimensioni di qualità della vita che dovrebbero costituire la finalità del sistema economico. Un aumento del Pil, a fronte di una diminuzione della qualità della vita o della soddisfazione dei consumatori, non è certo un dato rassicurante mentre può esserlo una sua diminuzione a fronte di un miglioramento del benessere dei cittadini. Perché allora non può essere proprio il nostro Paese a farsi carico di promuovere un sistema che generi un Pil sano, nel prendere decisamente le distanze dall’aspetto più vistoso di distorsione di una cultura economica? Si potrebbe far ricorso all’Istat, ormai ridotto al ruolo di fabbrica di dati per lo più di scarsa utilità, per raccogliere in maniera sistematica altri indicatori che aiutino a correggerne le deformazioni rendendolo uno strumento utile a valutare lo stato dell’economia depurata dalle sue componenti di patologia sociale.