martedì 2 settembre 2008

Alitalia, resta solo la bandiera

Repubblica (29 agosto 2008)

IL COMMENTO
Alitalia, resta solo la bandiera
di MASSIMO GIANNINI


IL povero Ludwig Erhardt si starà rivoltando nella tomba. Se il sedicente "salvataggio" di Alitalia è davvero il primo esperimento di "economia sociale di mercato" che la premiata ditta Berlusconi-Tremonti azzarda nel nostro Paese, allora c'è davvero da dormire preoccupati. Il Cavaliere non mente, quando dice "abbiamo salvaguardato l'italianità della compagnia aerea".

Ma purtroppo, per simulare la strenua difesa di un presunto "interesse nazionale", il governo ha compiuto un vero e proprio "suicidio industriale". Il nuovo piano messo a punto da Banca Intesa e avviato dai provvedimenti varati ieri dal Consiglio dei ministri non serve a salvare il futuro di Alitalia, ma è utile solo a salvare la faccia al leader di Forza Italia.

Ancora una volta (e come nella migliore tradizione, dai tempi di Nordio e Andreotti in poi) quello che accade alla nostra compagnia aerea non ha niente a che spartire con la logica economica, ma ha tutto a che vedere con la logica politica. Berlusconi in campagna elettorale aveva giocato tutta la sua credibilità sul caso Alitalia, usando il possibile accordo con Air France come una clava per bastonare Prodi, noto affamatore di popoli e famigerato svenditore di gioielli (dalla Sme alla Stet).

Dopo aver scientificamente fatto fallire l'operazione con i francesi, con il colpevole contributo di un sindacato miope e irresponsabile, il premier neo-eletto non poteva fallire a sua volta, esponendosi alla gogna popolare. Serviva, anche su Alitalia, un'operazione di facciata, improntata allo stesso decisionismo con il quale è stata "risolta" l'altra tragedia nazionale, quella dei rifiuti di Napoli. Un'operazione di patente torsione giuridica, che realizzasse comunque un'apparente innovazione pratica.


Sulla mondezza campana, per toglierla dalla strada e nasconderla sotto il tappeto, si trasformano ope legis tutte le discariche in terreni militari, sottraendone la giurisdizione alla magistratura ordinaria. Sulla compagnia aerea, per evitare la bancarotta congiunta di Alitalia e Air One, si alterano ope legis le norme sulla concorrenza, sottraendo la valutazione sulle deroghe temporali dei regimi semi-monopolistici all'autorità Antitrust.

Poco importa che non si sia affatto risolto il ciclo perverso dei rifiuti. Poco importa che non si sia affatto sciolto il nodo del posizionamento italiano nel grande network del trasporto aereo globale. Quello che importa è che il premier possa accreditarsi ancora una volta, agli occhi dell'opinione pubblica, come il Grande Facilitatore. Quello che, come ha detto il ministro del Tesoro, aveva ereditato due disastri, e in due mesi ha fatto il miracolo di risolverli entrambi. La verità è un'altra, ed è molto più amara. In un Paese normale, un premier così non sarebbe sicuramente acclamato dalle folle come il salvatore della patria, ma probabilmente verrebbe inquisito dalla Corte dei conti per danno erariale.

Quella scelta su Alitalia non è una soluzione. È solo un imbroglio, come ha scritto Eugenio Scalfari, che finirà per penalizzare tutti: i dipendenti, gli utenti e i risparmiatori. Lo dicono i numeri, nudi e crudi, non la trita demagogia anti-berlusconiana. Secondo il piano Air France, il salvataggio di Alitalia sarebbe passato attraverso la difesa dell'unitarietà del gruppo, del suo marchio e dei suoi asset (a parte il cargo). Gli esuberi diretti sarebbero stati 2.150, la flotta si sarebbe ridotta da 174 a 137 aerei, ma con un evidente rafforzamento delle grandi destinazioni e delle rotte a medio e lungo raggio (24 destinazioni nazionali, 45 internazionali e 14 intercontinentali). Si sarebbe potenziato Fiumicino come grande hub tra Europa e Mediterraneo, e si sarebbe incentivata la "riorganizzazione di Malpensa come importante gateway" del Nord Italia. Air France avrebbe investito 850 milioni di euro entro il 2010, e soprattutto, per comprare Alitalia, avrebbe messo sul piatto 1,7 miliardi di euro, tra la doppia Opa su azioni e obbligazioni (a tutela quindi di tutti i risparmiatori) e il successivo aumento di capitale.

Questo è il lucro cessante, imputabile al veto berlusconiano ai francesi. Ma c'è un danno emergente, che si può ugualmente imputare al premier in virtù della geniale "Fenice" che ha cavalcato insieme all'advisor. Con il nuovo piano, il gruppo viene scisso in "best" e "bad" company: un controsenso industriale rispetto a quello che vanno facendo i grandi vettori mondiali, che contano proprio sulla dimensione e sull'integrazione per reggere la competizione globale, e un corto circuito gestionale perché sarà difficile stabilire quali sono gli asset buoni e quali quelli cattivi senza impoverire drasticamente l'assetto del gruppo.

Le rotte internazionali vengono ridimensionate, e si salvano solo quelle a breve-medio raggio. E soprattutto si eliminano gli "hub", con il seguente, felice paradosso: non si riqualifica Malpensa (tra lo scorno e il disdoro di Formigoni e Moratti) e per di più si squalifica Fiumicino (con l'ira funesta di Alemanno e Zingaretti).

Gli esuberi diventano 6 mila, e non si capisce dove andranno a finire, se non in qualche carrozzone del parastato. E poi il capolavoro finale: i sedici "capitani coraggiosi", tutti "partner naturali" del governo obbligati a versare l'obolo per Berlusconi come l'oro per Mussolini, sganciano due soldi (in qualche caso magari finanziati dallo stesso circuito bancario che ha organizzato il salvataggio) lucrando in cambio prebende di vario genere, legate ai loro core business, dalle concessioni pubbliche autostradali (vedi Benetton e Gavio) alle commesse pubbliche infrastrutturali (vedi Ligresti, Tronchetti, Caltagirone).

E gli azionisti, e soprattutto gli obbligazionisti della compagnia? Saranno tutelati, promette Tremonti, perché "il risparmio è sacro". Da profani, vorremmo capire come si articolerà questa tutela. Al momento non se ne sa nulla.

Cosa resta, alla fine del giro? Una piccola Alitalia, drasticamente ridimensionata nelle ambizioni industriali e nelle relazioni internazionali. È vero, la cloche resta in mano al governo italiano, e i francesi potrebbero rientrare con una quota di minoranza. Ma forse è proprio questo il problema: l'Italietta si tiene la sua Alitalietta. Detto altrimenti: resta la bandiera, ma della compagnia rimane poco. Ora i sindacati hanno poco da protestare: hanno avuto quello che si meritano. E le opposizioni non hanno granché da criticare: hanno pagato i loro demeriti.

E oggi il Pd, nonostante le assennate parole di Veltroni e Bersani, è sostanzialmente privo di voce perché politicamente privo di identità: il suo ministro ombra delle Attività Produttive, il giovane Matteo Colaninno, dovrebbe attaccare il pasticcio Alitalia ma non può farlo perché porta lo stesso cognome del presidente in pectore della "Nuova Alitalia", il padre Roberto Colaninno.

Chi paga, per questa magnifica "bicamerale dei cieli" (come l'ha definita Europa) tentata grazie alla banca più vicina al centrosinistra e alla nomina di un commissario ex-ulivista? Lo Stato, che non incasserà nulla dall'operazione ma si accollerà gli oneri sociali per la gestione degli esuberi. L'operazione "non pesa sui cittadini", assicura il Cavaliere. Ha ragione, ancora una volta: non pesa, li schianta. Guardavamo a questo centrodestra di "nuovo conio", uscito straordinariamente forte e volitivo dalle urne del 13 aprile, come a una squadra di chiara marca conservatrice e liberista. E invece sembrano usciti dal solito, vecchio album di famiglia delle PpSs della Prima Repubblica. Gli eredi, malriusciti, dell'Efim e della Gepi.