lunedì 8 settembre 2008

che bello, mi sono perso...

Che bello, mi sono perso
Di Remo Bodei - sole 24 ore domenica 3 agosto 2008
Ci piace tanto viaggiare ma finiamo per seguire sempre i soliti percorsi.
Torniamo a praticare l’antica arte dello spaesamento: ecco le istruzioni per vedere il mondo come fosse la prima volta. E ritrovare se stessi.


Esiste un'arte del perdersi in qualche luogo per meglio conoscere un mondo che l'abitudine ha reso opaco e indifferente? E, parafrasando il Vangelo, questo perdersi implica, per sovrappiù, un ritrovare se stessi?
Siamo talmente abituati a percorsi standard che non facciamo più caso a quel che ci circonda e ci muoviamo nello spazio come automi miopi. E, se dobbiamo recarci in posti sconosciuti, ci affidiamo volentieri agli stereotipi di dépliant e guide, seguiamo i tragitti più scorrevoli e, viaggiando in automobile, ci consegniamo ai navigatori satellitari, che indicano la direzione attraverso piantine topografiche e petulanti messaggi vocali. Per risparmiare tempo o per radicata inclinazione alla fretta scegliamo quindi le autostrade o le vie di grande comunicazione, che rendono più rapidi i viaggi, ma ci tagliano fuori da città, paesi, monumenti, campagne, boschi. Preferiamo così l'Autostrada del Sole alla Via Emilia, i tracciati omogenei che convogliano processioni di macchine ai paesaggi segnati dalle millenarie stratificazioni del lavoro umano e del vissuto di generazioni.
Per perdersi non è necessario sfidare le zone desertiche, le foreste o gli oceani. Anche nello spazio abitabile, razionalizzato e orientato secondo determinati criteri culturali, basta abbandonare i percorsi consueti o guardare a essi con rinnovata cura, per scorgervi l'instancabile mano della storia: ad esempio, la divisione dei campi coltivati, che conserva in Italia le tracce della centuriazione romana, il variare della vegetazione non spontanea per effetto dell'introduzione dell'eucaliptus nell'Ottocento o della soia nei recenti decenni, la tortuosità del reticolo viario delle città medioevali rispetto alla pianta ortogonale di quelle romane o il pullulare di chiese e abbazie lungo le antiche vie di passaggio dei pellegrini.
Molti hanno perciò cominciato a gustare il piacere di ripercorrere - a tappe lente e con deviazioni nei dintorni - la Via Francigena o il Cammino di Santiago. Anche qui il tragitto è prefissato dalla tradizione, ma andando a piedi o in bicicletta, si ha modo divedere in maniera focalizzata ciò che s'incontra, di fermarsi ò di esplorare alcune zone secondo l'ispirazione del momento. Si è allora in grado - secondo l'espressione di Franco La Cecla - di «fare mente locale», di ricollocarsi nel tempo e nello spazio, di riformulare se stessi in sintonia con i nuovi contesti. Perché questo accada, bisogna però essere disposti al cambiamento fino ad accettare con riconoscenza possibili spostamenti del proprio baricentro intellettuale e affettivo. Vale altrimenti quello che osservava Socrate a proposito di qualcuno che non si era trasformato viaggiando: «Lo credo, si è portato dietro se stesso» (ha voluto conservare la sua inscalfibile identità precedente).
Il tempo è ormai una risorsa scarsa per quasi tutti. Solo pochi sono capaci, grazie a un'assidua pratica, di diventare dei virtuosi nell'arte dellospaesamento.È perciò difficile –e al limite stravagante - imitare Georges Perec nel progetto di riscoprire Parigi percorrendo, in ordine alfabetico, tutte le strade il cui nome ] inizia con la stessa lettera e di osservare «ciò che generalmente non si nota, non viene ricordato, ciò che non ha importanza: quello che accade quando non accade niente, se non il passare del tempo, delle persone, delle macchine e delle nuvole». Virtuoso di quest'arte è lo scrittore americano di origine Sioux William Least Heat-Moon, che, cambiando di colpo la sua vita, si mette con un camioncino a girare per le «strade blu», le vie secondarie indicate con quel colore nelle vecchie cartine stradali d'America. In alcune ore, esse «hanno un fascino intenso, e sono aperte, invitanti, enigmatiche: uno spazio dove l'uomo può perdersi», ma anche stabilire appaganti, seppur fugaci, rapporti con le persone in cui s'imbatte.
Per quanti hanno a disposizione solo il tempo delle vacanze, vi sono due modi di perdersi: quello irritante di quando, disorientati e stanchi, non rinvengono il posto che cercavano e quello programmato come viaggio di scoperta in cui si spostano in una località guidati dal magnetismo inconscio di segnali che di volta in volta incuriosiscono. Questo è il metodo suggerito da Walter Benjamin: «Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare». Non si tratta però tanto dell'atteggiamento delflàneur ottocentesco, che si aggira ozioso tra la folla dei boulevards parigini, ma della tecnica della «deriva», teorizzata da Guy Debordi «Andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta». Privandoci della familiarità con ciò che ci circonda, sforzandoci di dimenticare quanto sappiamo (compito solo in piccola parte eseguibile), inglobando quote di estraneità, prendiamo meglio le misure di noi stessi.
Secondo Georg Simmel, il perdersi volontario costituisce la metafora che caratterizza la condizione dell'uomo moderno, il quale «ama le vie senza le mete e le mete senza le vie». Ormai nessuno, infatti, sembra contentarsi facilmente di quello che è e della routine di cui si sente prigioniero: aspira a dare un senso più pieno alla propria vita inserendola in un altrove indeterminato e arricchendola con l'esperienza dell'ignoto, perseguito secondo itinerari da inventare. Desidera l'avventura (l'andare verso le cose future, ad ventura), la docile resa all'imprevisto, sperando così di propiziare il suo rinnovamento. Il viaggiatore (o colui che lascia vagare in luoghi già conosciuti la sua attenzione "fluttuante") è allora talmente stupito da quel che trova da chiedersi se è veramente lui a vivere quei momenti e essere entrato in una dimensione spaziale e temporale che lo risarcisce della vuota successione di attimi spenti e di posti senza sorprese. Si chiede Baudelaire: dove anela l'anima moderna, questo «tre alberi in cerca della sua Icaria»? Verso un esilio dal noto, verso una fuoriuscita dal mondo. E non importa dove, risponde in inglese: Anywhere out ofthe worId! Ma la modernità è davvero espressa dalla voluttà del perdersi? O questo è solo uno dei suoi aspetti, visto che noi procediamo di norma secondo il metodo prescritto da Cartesio, di non indugiare ad aggirarci nella foresta, ma di camminare sempre e risolutamente nella stessa direzione, perché alla fine ci troveremo in qualche luogo dove probabilmente staremo «meglio che nel fitto della boscaglia»?