lunedì 4 agosto 2008

la libertà di vivere e morire

la libertà di vivere e morire
Repubblica — 29 luglio 2008 pagina 26 sezione: COMMENTI
Egregio Dott. Augias, la notizia della morte di Randy Pausch, il professore della Carnegie Mellon University divenuto famoso per la sua "ultima lezione", mi ha fatto riflettere ancora una volta sul senso della vita e della morte. Negli stessi giorni in cui in Italia si discute della vicenda di Eluana Englaro, dall' altra parte dell' Oceano un uomo consapevole di essere stato colpito da un male incurabile ha deciso di lasciare a tutti il suo testamento spirituale. Non voglio paragonare le due situazioni, ma sono d' accordo con il Signor Pierri (la Repubblica del 25 luglio) secondo cui «per il Signore non sembra tanto importante quanto si vive, ma come si vive: se nel bene o nel male». Randy Pausch, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Giovanni Nuvoli, Paolo Ravasin e tanti altri come loro, hanno combattuto e combattono per lo stesso diritto, ovvero quello di poter decidere in che modo affrontare un destino crudele ed immutabile. Da cristiana, ho fede nell' aldilà, in quella che sarà la vita vera, quella eterna; da laica, credo nel libero arbitrio e nella "legge morale" che ci consente di operare su questa terra con coscienza. Non credo che queste due posizioni siano inconciliabili e, malgrado possano apparire come una contraddizione, mi inducono a rispettare sempre la volontà altrui. Ilaria Botti ilabotti@yahoo.it

La risposta di Corrado Augias:
Credo che la signora Botti faccia benissimo a considerarsi cristiana ma anche titolare di ' libero arbitrio' , cioè di una personale, inalienabile facoltà di scelta di fronte a situazioni estreme. Una teologia crudele ha a lungo considerato il dolore un mezzo necessario per la salvezza, un necessario strumento di espiazione per il mitico peccato commesso dai progenitori nell' Eden. Si è arrivati perfino a considerare il dolore come il sintomo di una colpa, un castigo di Dio. Non devo certo dire io, che non appartengo a quella religione, fino a che punto questa ipotesi teologica diventasse blasfemia. Incombeva su queste concezioni l' ombra cupa della Controriforma, la visione di un cristianesimo, nella versione cattolica, visto come mortificazione, il peso di farsi ' politica' . L' idea di Dio come consolazione e amore, entità capace di comprendere l' umana fragilità, era stata totalmente rimossa e cancellata quando perfino la Bibbia (che viene tirata in ballo solo quando fa comodo) prevede esplicitamente la possibilità del cedimento: «Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica» (Siracide 30, 17). Esiste però, sempre nell' ambito del cristianesimo, anche un' altra teologia che senza negare il valore spirituale che il dolore può avere, ammette che se un individuo, dopo anni di sofferenza senza esito e senza più speranza, voglia affrettare il ritorno alla ' Casa del padre' (come ebbe a dire perfino papa Giovanni Paolo II), ebbene egli possa farlo. Questa teologia vede Dio non come un' entità punitiva bensì come ragione di gioia. Non c' è bisogno di dire quale delle due filosofie dia maggiore consolazione e forza.