giovedì 1 maggio 2014

La musica? Non twittare: ascoltala

Concordo pienamente con Nicola Campogrande, autore dell'articolo. Oltretutto, trovo veramente demenziale il comportamento di chi va ai concerti e invece di ascoltare e guardare dal vivo, se ne sta mani in alto a fissare lo schermino dello smartphone, per poi (forse) rivederselo a casa, piccolo, sfuocato, scuro e traballante . Stesso discorso per i vari "turisti da museo" o peggio ancora da acquario, che invece di godersi l'opera o l'animale da  vicino, ne fanno una foto veloce per poi (forse) riguardarsela a casa, magari con nel mezzo dell'immagine il lampo del flash. Ma statevene a casa!........


Negli Usa e in Australia posti in platea per chi usa i social media durante concerti classici

Sino ad ora le sale da concerto, in tutto il mondo, sono state l’esatto opposto dei nonluoghi descritti da Marc Augé: l’ascoltatore di musica classica che vi entrava ritrovava tratti familiari, rassicuranti, capaci di dare un’idea di casa anche a migliaia di chilometri di distanza. Il segno più forte, la traccia identitaria di un auditorium, era che — quando il concerto fosse cominciato — tutte le persone presenti davanti agli interpreti si sarebbero trasformate in ascoltatori e avrebbero vissuto bene o male la stessa esperienza, sottoponendosi a una sere di emozioni potenzialmente molto intense e capaci di assorbire in modo totale la concentrazione. La carta di caramella, il sussurro troppo sonoro e — Dio non voglia — la suoneria lasciata accesa, più che un segno di maleducazione, erano una ferita, una lacerazione nell’atmosfera emotiva che si creava lì dentro: era ovvio, dovunque, e mai sarebbe venuto in mente di doverlo ricordare.

Bene: le cose sono cambiate. Il godimento, la gioia di immergersi in un concerto gestendo le proprie emozioni in modo intimo, la capacità stessa di assistere a qualcosa di importante senza comunicarlo ad altri in tempo reale, non sono più patrimonio comune. Soprattutto per i giovani, l’ascolto della musica — così come qualunque altra attività umana — passa, come è noto, attraverso la condivisione immediata via social network. Così qualcuno ha cominciato a tirare fuori uno smartphone e a mandare un tweet per raccontare che stava ascoltando un concerto, senza curarsi del fatto che, in una sala in penombra, avere un vicino di posto intento a scrivere su uno schermo luminoso non è esattamente il massimo della vita. E, arrendendosi all’evidenza, poco dopo negli Stati Uniti e in Australia alcuni organizzatori si sono rassegnati a prevedere, in zone specifiche delle sale, dei settori dedicati agli irrefrenabili.
Tweet seats si possono dunque già comprare per assistere ai concerti della San Francisco Symphony, della Cincinnati Symphony, della Indianapolis Symphony, della Pacific Symphony, della Dayton Opera; e la stessa cosa, in ambito cameristico, è stata fatta dalla società di concerti australiana Musica Viva, in occasione di un concerto del Quartetto Kelemen a Sydney, a Melbourne e a Canberra.
A sostenere la legittimità della scelta, un paio di grossi nomi della musica classica si sono dichiarati a favore della condivisione di un concerto in tempo reale e, anzi, l’hanno sostenuta: lo ha fatto il maestro Leonard Slatkin lo scorso febbraio quando, dirigendo la Detroit Symphony in tournée, ha invitato gli ascoltatori della Florida a filmare e diffondere il prezioso concerto al quale stavano assistendo, cosa che è puntualmente avvenuta. Lo fa la pianista Valentina Lisitsa, star di You-Tube, che — mentre il collega Krystian Zimerman, per fare un esempio, lo scorso giugno ha interrotto un concerto ad Essen perché si è accorto che un ascoltatore lo stava filmando con il proprio telefonino — è solita autorizzare serenamente il proprio pubblico a fotografarla e a riprenderla durante i concerti, che peraltro lei stessa spesso offre in streaming.
Ora: è giusto rassegnarci e aspettare avviliti la notizia del primo organizzatore di concerti nostrano che si sentirà sexy e astuto nell’offrire posti per twittanti al proprio pubblico? No, non credo. Come compositore, anzi, inorridisco all’idea che l’ascolto della musica classica, in una sala appositamente costruita, debba essere disturbato da un «fare altro» così invasivo come quello dell’usare uno smartphone. Per tre motivi.
Il primo, quello più ovvio, è che non mi fido di una separazione in settori. Le sale da concerto sono costruite per stare insieme, seduti davanti ai musicisti, e non sono stan- ze d’albergo: quello che si fa lì dentro lo sen- tono e lo vedono tutti, e io vorrei che la mia sensibilità (e i soldi che ho pagato per il mio biglietto) fossero rispettati. Il secondo è che la musica classica, da quando esistono appositi luoghi per ascoltarla, è stata composta — e lo è tuttora — per essere sentita nel suo insieme. Nel Settecento e nei primi dell’Ottocento, ad esempio, il pubblico aveva impara- to a memorizzare i temi delle pagine di Mozart e Beethoven e si costruiva un’immagine mentale di un movimento di sinfonia solo alla fine, quando il proprio cervello riuniva i diversi momenti dell’ascolto (gli studiosi lo definiscono ascolto sintetico). Non a caso, all’epoca il livello di complicità tra compositori e pubblico era molto alto proprio perché esisteva questo accordo implicito: il compositore giocava con le aspettative degli ascoltatori, così come fa oggi uno sceneggiatore cinematografico, e chi era seduto in sala godeva nel riconoscere le forme, nel decodificare le invenzioni, nello stupirsi, quando era il caso, davanti a ciò che stava attentamente seguendo.
In epoca romantica ci si abbandonava invece al flusso della musica, venendone travolti, lasciando che l’atmosfera emotiva riempisse il cuore e la mente (lo si chiama ascolto passivo) e, di nuovo, si aveva una percezione di ciò che era accaduto solo alla fine, quando l’ebollizione dei sentimenti si era calmata e il silenzio aveva riguadagnato il proprio posto.
Poi i modi di ascoltare si sono moltiplicati e, a quelli precedenti, che sono tornati a essere validi, se ne sono aggiunti alcuni altri: certa musica delle vecchie avanguardie (si pensi alle pagine di Pierre Boulez, ad esempio) richiede un’attenzione spasmodica, senza la quale si rischia di sentirsi esclusi — cosa che, peraltro, in molti casi accade comunque. Altri compositori domandano all’ascoltatore un certo gusto per la teatralità, per la sorpresa, per lo spettacolo e, di nuovo, se non si segue la partita, il gioco perde di gusto (basta ascoltare la musica di Darius Milhaud per capirlo). Altri autori ancora propongono al pubblico di immergersi in un viaggio di sospensione del sé, alludendo alle esperienze artistiche e spirituali orientali, come fa con efficacia la scuola minimalista (da Terry Riley in avanti).
Ciò che conta è che in nessun caso la musica è stata composta per essere ascoltata un paio di minuti, poi commentata in un tweet, poi ascoltata un altro minuto, poi descritta in un secondo tweet e così via: così facendo non solo si perde il filo, ma in molti casi si pregiudica il senso stesso dell’essere lì ad ascoltare.
Anche perché mi sembra che ci sia un terzo, serio motivo per combattere contro l’idea di mandare tweet durante un concerto: dobbiamo opporci perché quella è un’attività che, in altro modo, stiamo già svolgendo. In fondo si assiste a un concerto per goderne insieme alle persone che si hanno intorno, per vedere le proprie emozioni riflesse nei loro occhi, per sentire il calore o la freddezza del loro applauso, per commentare l’esecuzione nell’intervallo. La sala da concerto è un social network, che funziona magnificamente da alcuni secoli, senza bisogno di up-grade. Pregiudicarne l’uso e rompere le scatole a tutti solo per far sapere ai propri follower lontani che «c’è un momento dell’Allegro proprio bellissimo» o, peggio, per ricevere un messaggio dalla baby sitter che conferma che sì, va davvero tutto bene, proprio mentre solista e direttore si scambiano uno sguardo grazie al quale ti sentiresti meravigliosamente coinvolto nella musica, se solo l’avessi visto alzando gli occhi dall’iPhone, mi sembra, perdonate, davvero un’idiozia.
Nicola Campogrande
Corriere della Sera » Il Club de La Lettura  27 aprile 2014