sabato 29 marzo 2014

Il successo del film "Her" con la splendida voce di Scarlett Johansson: parla di  fantascienza o realtà già attuale? In fin dei conti, nell'articolo qui sotto si parla di metropolitane senza conducente. A Brescia è già la  normalità. Ho scoperto che mi stupisco  quando al casello dell'autostrada una volta tanto incontro un esattore umano, non la macchinetta....

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È come al tempo delle prime industrie Bisogna ripensare l’intero sistema economico

La rivoluzione tecnologica (senza lavoro)

Anche gli impieghi più creativi sono messi a rischio dall’hi-tech

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La tecnologia non sempre crea lavoro, scrivevamo sul «Corriere» del 14 gennaio scorso, e all’argomento ha dedicato una bella inchiesta di copertina il penultimo numero dell’«Economist», che avverte sui drammatici effetti occupazionali delle nuove tecnologie. Nessuno può accusare il settimanale britannico di neoluddismo, ma certo la realtà non è quella raccontata da Google, Facebook e altri imperi digitali: la favola bella di una distruzione creatrice che dà con una mano ciò che con l’altra toglie. Per un po’, anzi per un bel po’, vedremo più distruzione che creazione. Ci attende una complicata «fase di adattamento», come del resto è già accaduto nella storia.
L’innovazione tecnologica, madre delle rivoluzioni industriali, ha sì portato benefici, ma sempre dopo una fase di sconquassi. Oggi siamo all’inizio di questa prima fase, in cui i vantaggi dell’hi-tech vanno al capitale e all’élite del lavoro (esattamente come agli albori della rivoluzione industriale), lasciando esclusi gli altri e creando nuove, e più profonde, ineguaglianze. La quota di ricchezza in mano all’1 per cento degli americani ricchi è salita dal 9 per cento degli anni Settanta al 22 per cento attuale.
La rivoluzione tecnologica «classica», dopo le fabbriche e gli operai, ha già drasticamente ridimensionato gli uffici e la classe media, spina dorsale dell’Occidente nel XX secolo: centinaia di lavori impiegatizi, maschili e femminili, dalle banche al commercio, sono stati cancellati. Internet ha «disintermediato», cioè reso inutili molti compiti, come organizzare un viaggio, cosa che molti di noi svolgono per conto proprio online. Un fiume impetuoso ha attraversato il mondo privato, ma che cosa accadrà nelle pubbliche amministrazioni con l’e-government applicato su vasta scala?
Finora abbiamo parlato di impieghi ripetitivi, di routine. Ma oggi il digitale è a un nuovo passaggio rivoluzionario, potenzialmente in grado di esercitare effetti dirompenti anche sui lavori a più alto contenuto intellettuale grazie al supercomputing, alla biorobotica e all’ubiquità dell’informazione digitale (i cosiddetti Big Data). I ricercatori di Oxford ritengono che nei prossimi vent’anni, anche in molte professioni tecniche e legali, quasi la metà dei professionisti potrebbe essere sostituita dalle tecnologie digitali. Per dirla con Federico Butera, presidente della Fondazione Irso e docente di organizzazione all’Università di Milano Bicocca, «in prospettiva nessun lavoro può dirsi al riparo».
Pessimista? No, realista. La crescita esponenziale nella velocità di elaborazione dei chip, le capacità delle nuove memorie e le performance degli ultimi super-computer invadono la sfera dell’intelligenza umana. Gli ultimi progressi sono stati rapidissimi, e quasi tutti provengono dagli Stati Uniti, tuttora culla dell’innovazione militare e civile: dieci anni fa, l’idea di un’auto senza pilota sembrava fantascienza, oggi modelli sperimentali di Google car girano per le strade della California.
La storia ci aiuta a capire. L’industrializzazione ha migliorato il reddito e la vita di grandi masse umane, ma il cammino percorso per arrivare alla meta è stato più impervio e lungo di quanto non si creda, dice Joel Mokyr, storico dell’economia alla Northwestern University.
La rivoluzione industriale non fu soltanto sostituzione di muscoli con motori, ma anche reinvenzione del lavoro. Nacque una nuova categoria di esperti, ben pagati e molto richiesti, che riparavano le macchine utensili e guardavano dall’alto in basso la folla dei colletti blu poco qualificati. Ma tra il 1750 e il 1850, sottolinea Mokyr, la qualità della vita per le masse non migliorò in modo significativo: una relativa prosperità, per i lavoratori, è arrivata solo dopo la Seconda guerra mondiale.
La descrizione del passato contiene alcune impressionanti somiglianze con il presente. I salari dei lavoratori sono stagnanti, anche in Inghilterra e in Germania, da una decina d’anni, perché la sostituzione di lavoro umano con automi è sempre più conveniente. Per questo il denaro, da trent’anni, affluisce sempre più verso il capitale e sempre meno verso il lavoro e, perfino in Paesi come la Svezia, dalla lunga tradizione sociale, le ineguaglianze aumentano. Il lavoro, scrive David Graeber, antropologo della London School of Economics, si divide sempre più tra pochi possessori di competenze e una marea di bullshit jobs (lavori pesanti dequalificati).
In questo contesto, dice Franco Bernabè, imprenditore ed ex presidente esecutivo di Telecom Italia, «le prospettive di miglioramento per le persone non sono più collettive, legate all’appartenenza a una classe o alla mobilità sociale, ma individuali». E anche per questo i Paesi che vincono nella competizione globale sono quelli in cui il ruolo degli individui è centrale. L’Italia soffre più di altri perché le condizioni che offre all’individuo sono più difficili; mentre il peso della fiscalità, l’eccesso di burocrazia, la lentezza della giustizia civile, il non rispetto delle regole e la difficoltà di accesso ai capitali rendono dura la vita di chi vuole fondare imprese.
E i famosi posti di lavoro creati grazie alle nuove tecnologie? Quelli verranno, scrive il settimanale inglese, ma non subito. Vero, è esploso il numero delle start-up, che domani produrranno cose di cui oggi non sappiamo di aver bisogno, come ieri i videogiochi o i tablet: ma per ora impegnano una minoranza di capitani coraggiosi e di grande talento. La jobless recovery, la ripresa senza lavoro resta un pericolo concreto.
Che cosa fare per contrastare la disoccupazione? Secondo l’«Economist» bisogna ripensare i sistemi educativi e formativi per potenziare il pensiero critico e creativo, quello che i computer non possono rimpiazzare, dislocando gli sforzi sull’intero ciclo didattico, a partire dall’asilo, per migliorare le abilità cognitive e sociali fin dai primi anni di vita. Conoscenze rigorose e «inaspettate», le definisce Giuseppe Lanzavecchia, fisico e sociologo della scienza, autore nel 1996 del saggio Il lavoro di domani, dal taylorismo al neoartigianato, concepite «non per rispondere alle richieste del mercato ma per crearle offrendo soluzioni nuove per una vita più sicura, interessante e ricca. Il lavoro di domani non potrà che essere quello di creare conoscenza, che sarà usata da macchine, e di insegnare alle macchine come usarla».
L’attuale dibattito politico è concentrato esclusivamente sulle regole del lavoro. Ma la rivoluzione in corso «richiede una capacità di progettare i cambiamenti tecnologici, organizzativi e professionali, e qui ancora si balbetta», dice Butera. La strada non è quella di opporsi al cambiamento, ma di accompagnarlo; non è quella di proteggere il lavoro, ma di far crescere le imprese, la collaborazione e gli individui. Le esperienze nelle migliori organizzazioni, private e pubbliche, dimostrano che, se si vuole, è possibile.
esegantini@corriere.it
Twitter @SegantiniE


Futuro prossimo La politica fatica a regolare e guidare il processo. La sfida della scuola

E il robot prepara cocktail e fa la guerra

Si moltiplicano le attività svolte da macchine




Per non soccombere agli automi che facilitano la nostra vita ma si prendono, anche, i nostri lavori, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, docenti del Mit di Boston e autori di The Second Machine Age, un saggio appena arrivato nelle librerie americane, propongono una rivoluzione della scuola: formazione dei giovani spostata verso le materie scientifiche e accumulo delle nozioni, ormai raggiungibile più facilmente con l’aiuto delle macchine, sostituito da un insegnamento più orientato alla creatività, allo sviluppo del pensiero critico e anche dell’empatia. Soltanto così cavalcheremo con successo la tecnologia creando nuovi mestieri e ricchezza diffusa.
In Future Jobs Ed Gordon, storico dell’economia e presidente di Imperial Consulting, propone anche lui una rivoluzione del sistema scolastico, ma aggiunge che non verremo fuori da questa situazione se non trasformeremo da capo a fondo una burocrazia che vuole continuare a funzionare utilizzando i meccanismi di un mondo che non c’è più.
E pensa che per spingere le aziende ad attenuare la corsa verso la sostituzione della manodopera con le macchine sia utile consentire agli imprenditori di detrarre dall’imposizione fiscale, oltre agli investimenti in impianti, anche quelli in capitale umano.
Lord Martin Rees, docente di Astrofisica all’Università di Cambridge e astronomo della Regina, la vede un po’ diversamente: i robot sono utili per lavorare in ambienti proibitivi per l’uomo — piattaforme petrolifere in fiamme, miniere semidistrutte da un crollo, centrali in avaria che perdono sostanze radioattive — oltre che per svolgere mestieri ripetitivi.
Ma devono restare al livello di «utili idioti: la loro intelligenza artificiale va limitata, non devono poter svolgere mestieri intellettuali complessi. L’astronomo della Corte d’Inghilterra, occhi rivolti più alle glorie del passato che alle speranze e alle incognite di un futuro comunque problematico, propone una ricetta che sa di luddismo. Una ricetta anacronistica ed estrema che si spiega con l’angoscia che prende molti di noi davanti alla rapidità con la quale la civiltà dei robot — della quale abbiamo favoleggiato per decenni e che sembrava destinata a restare nei libri di fantascienza — sta entrando nelle nostre vite.
Che i robot stiano uscendo dalle fabbriche lo sappiamo da tempo: il bancomat è un bancario trasformato in macchina, in servizio notte e giorno. In molti supermercati il cassiere non c’è più, sostituito da sensori, lettori di codici a barre, sistemi di pagamento automatizzati. In Giappone e Francia si moltiplicano treni e metropolitane guidati da un computer (è così la nuova Linea 5 della metropolitana di Milano), così come tutti i convogli che si muovono all’interno dei grandi aeroporti del mondo sono, ormai, senza conducente.
Ne abbiamo dato conto ripetutamente, anche sulle pagine della «Lettura». Si torna a discuterne animatamente oggi perché, mentre la politica sembra avere altre urgenze (riforme istituzionali e dei sistemi elettorali in Italia, sanità, contenimento del bilancio federale e politiche per il lavoro negli Usa che seguono, però, ancora meccanismi tradizionali), si diffonde la sensazione che i processi di automazione abbiano raggiunto quello che Brynjolfsson e McAfee chiamano il punto d’inflessione: il punto critico oltre il quale la curva di un certo fenomeno si impenna. Un po’ come il tablet e l’ebook, i cui primi modelli sono rimasti per anni in circolazione nello scarso interesse generale: poi all’improvviso, senza rivoluzioni tecnologiche ma grazie ad apparecchi più raffinati e allo sviluppo del software, è arrivato il boom degli iPad e dei Kindle.
Ora tocca all’auto di Google che si guida da sola e al drone col quale Amazon vorrebbe fare dal cielo le sue consegne a domicilio.
Ne parliamo tanto nei giornali e sui siti perché tutto ciò colpisce la fantasia, anche se la sostituzione di autisti e camion delle consegne è ancora lontana, se non altro per motivi regolamentari e requisiti di sicurezza. Ma ci sono molti altri mestieri che il progresso delle tecnologie informatiche sta già meccanizzando con modalità meno spettacolari che non catturano l’attenzione dei media, dai lavori di contabilità alla lettura a raggi X e altre analisi mediche.
Andando avanti così, sospirano in molti, nelle fabbriche automatiche ci sarà lavoro solo per l’uomo delle pulizie. Ignorando che sono già diffusi i robottini, figli del Roomba, capaci di pulire ogni angolo dello stabilimento.
Mentre il Pentagono studia come sostituire con robot i 50 mila soldati che dovrà eliminare entro la fine del 2015 in base ai tagli di bilancio decisi dal Congresso, ci affascina Monsieur, il nuovo barman automatico costruito da un’industria di Atlanta, in Georgia, che non solo sa qual è il tuo cocktail preferito e lo prepara all’istante, ma raddoppia la dose di alcol se percepisce che sei di cattivo umore.
Già oggi in molti alberghi il cameriere che al mattino serve caffè, tè e cappuccini è stato sostituito da macchine sofisticate. L’idea che Kibo, il robottino oggi usato per intrattenere gli astronauti durante le lunghe missioni nella Stazione spaziale internazionale, verrà sviluppato in due versioni, baby sitter e badante per anziani, può farci inorridire.
Ma 50 anni fa chi si fosse sentito dire che sarebbe salito su un treno senza nessuno ai comandi o che avrebbe preso del denaro da una fessura nel muro avrebbe riso. I robot restaurant della Cina e del Giappone con gli automi che ti accolgono alla porta e ti portano al tavolo resteranno a lungo una curiosità e probabilmente esagera in sensazionalismo il giovane tecnologo inglese Ben Way che nel suo libro Jobocalypse, l’apocalisse del lavoro, sostiene che addirittura il 70 per cento degli impieghi oggi svolti dall’uomo saranno automatizzabili in 30 anni.
Terrore tecnologico trasformato in business editoriale? Sì, ma solo in parte, visto che un altro, ben più documentato studio pubblicato di recente dall’università di Oxford fissa a quota 47 per cento il numero dei lavori sostituibili dalle macchine. Anche se ci saranno molte frizioni a rallentare i cambiamenti e i numeri, alla fine, risulteranno minori. È evidente che si è messo in moto un processo imponente che spinge la politica a sfide difficili ma ineludibili: spingere cittadini (ed elettori), già di pessimo umore per il peggioramento delle condizioni economiche generali, a rinunciare a molte delle certezze rimaste, cambiando radicalmente anche il modo di studiare e lavorare. Sfide decisive per il futuro dei nostri sistemi sulle quali la politica è in forte ritardo. E, viste le crescenti difficoltà incontrate dai sistemi democratici nel raggiungere adeguati livelli di consenso politico anche su decisioni relativamente semplici, c’è da chiedersi come ce la caveremo davanti a questioni complesse e controverse che riguardano addirittura l’indirizzo che dovrà essere preso dalla nostra civiltà.
Twitter @massimogaggi
Massimo Gaggi

La Lettura, Corriere della Sera, 26 gennaio 2014