sabato 1 marzo 2014

Camille Paglia: io sto col rapper che odia le donne (Eminem)

Molto interessante questo lungo e provocatorio articolo su Eminem. Non amo il rap come genere, musicalmente mi sembra tutto uguale e dato che non riesco a capire i testi direttamente nella lingua originale, non  lo posso "apprezzare" come si deve. Ma d'altronde, lo stesso effetto mi fanno i rapper italiani, che hanno ovviamente storie personali diverse da quelli americani. Poi, sui contenuti.....boh....

 Camille Paglia: Io sto col rapper che odia le donne

 



Finora non avevo mai preso sul serio Eminem. Nel corso che ho creato per gli studenti di musica della mia università, focalizzato sui testi delle canzoni, manifesto da tempo la mia insofferenza verso quella che considero la stagnazione dell’idioma rap. Dai tempi dei primi classici del genere, come
Fight the Power dei Public Enemy (1989) e Treat’em Right di Chubb Rock (1991), le canzoni rap davvero significative sono state molto poche. I bianchi che fanno rap — Vanilla Ice, i Beastie Boys — li ho sempre considerati poco più che esibizionisti, giullari con la mano sul pacco.
Ecco perché sono rimasta a bocca aperta, l’anno scorso, quando dalla radio della mia automobile è rimbombato un pezzo straordinario. Era The Monster, il duetto di Eminem con Rihanna, dove la parlantina furibonda e mitragliata di lui si alternava alla corposa e malinconica voce da contralto di lei. È stata come una rivelazione, una folgorazione di Paolo sulla via di Damasco.
« Sono amica del mostro che sta sotto al mio letto / Vado d’accordo con le voci dentro la mia testa ». Come nei racconti dell’orrore dell’Ottocento, da Poe a Stevenson e Wilde, il mostro di Eminem è un doppio oscuro, il subconscio amorale o la vita dei sogni da cui l’artista trae ispirazione. Rihanna apre la canzone e si inserisce più volte durante il pezzo, chiudendo le frasi di Eminem come se fosse la sua vita interiore o la sua musa. In tutti i suoi album, il rapper inserisce spesso voci femminili liriche (Dido, Liz Rodrigues, Polina, Skylar Grey) per esprimere stati di sentimento puro, difficili per un uomo.
Marshall Bruce Mathers III è nato a St. Joseph, nel Missouri, da un musicista ambulante, un uomo irresponsabile che abbandonò ben presto il suo unico figlio. La madre, Debbie Nelson, una donna incostante e umorale, che aveva diciassette anni nel momento in cui lo partorì, non faceva che trasferirlo incessantemente da una casa all’altra, tra Missouri e Michigan. Eminem, che quasi mai restava nello stesso posto per più di un anno o due ed era sistematicamente oggetto di prepotenze da parte degli altri bambini, sviluppò una forma peculiare di immaginazione come difesa contro un mondo instabile. Lettore non lo fu mai, ma da ragazzo era attirato dai fumetti e dal rap: il suo stile gli valse il rispetto dei coetanei per le strade di Detroit, in un quartiere abitato in massima parte da afroamericani di ceto medio-basso. L’instabile vita familiare con sua madre si complicò ulteriormente quando lei accolse una ragazza fuggita da casa, Kim Scott. Eminem aveva quindici anni e Kim tredici. Dopo alcuni anni la loro amicizia divenne una storia d’amore. Ebbero una figlia, Hailie, a cui fecero seguito due matrimoni turbolenti e due divorzi amari.
Eminem cercava di mantenere la sua famiglia con lavoretti vari: come racconta nel suo nuovo album, « spazzavo pavimenti, cucinavo hamburger e lavavo piatti ». Il suo primo disco, registrato nel 1996 in un piccolo studio di Detroit, vendette mille copie. Il secondo, The Slim Shady Lp, prodotto dalla leggenda del rap Dr Dre e pubblicato nel 1999, vinse quattro dischi di platino. Trasformandosi incessantemente in Slim Shady, il suo alter ego teppista e impasticcato, Eminem raggiunse fama mondiale.
In un film del 2002, 8 Mile( dal nome della strada che divide i quartieri bene dal ghetto, sullo sfondo di una Detroit in piena depressione economica), il cantante interpretò se stesso, con una Kim Basinger impressionante nella parte della sua caotica e ambigua genitrice.
8 Mile è un’avvincente ricostruzione della battaglia di un rapper bianco per farsi accettare da un pubblico nero ostile. Più di un critico ha paragonato Eminem a James Dean, per la capacità di trasmettere un senso di dolore e vulnerabilità sotto la sua impassibile maschera di coolness. Fu in quel periodo, stressato dalle riprese del film, che Eminem diventò dipendente da farmaci come l’Ambien, il Valium e il Vicodin. Ingozzandosi ogni giorno da McDonald’s e Taco Bell, lievitò fino a superare i cento chili, diventando letteralmente irriconoscibile agli occhi dei fan. Un periodo, questo, che si chiuse nel 2007, quando rischiò di morire per un’overdose di metadone che lo obbligò a ripetuti ricoveri d’urgenza. I titoli dei suoi album successivi,
Relapse (ricaduta) del 2009 e Recovery (guarigione) del 2010 ne evocano il calvario prolungato.
È l’artista che ha venduto di più in questo millennio: 115 milioni di copie. Ha vinto tredici Grammy e un Oscar per la miglior canzone in un film. Nonostante tutta la fama e la ricchezza, però, la sua vita è rimasta immutata. Coscienzioso padre single, vive ancora con Hailie in una grande villa a Rochester Hills, vicino Detroit (« Non potrò mai voltare le spalle a una città che mi ha creato », dice in una sua canzone). Ha in affido anche la nipote dell’ex moglie, e il figlio che lei ha avuto da un altro uomo. Hailie, che adesso è una graziosa biondina di diciassette anni, recentemente è stata incoronata reginetta del suo ex liceo. Gira voce che il rapper stia costruendo a Kim Scott una casa nelle campagne intorno a Detroit, segnale che forse spera ancora di riconciliarsi con lei. Ancora oggi, Eminem è una star riluttante. «Non sono uno che cerca attenzione», ha detto alla rivista Rolling Stone parlando della sua riservatezza nella vita privata. Con modestia disarmante, nega di avere qualsiasi talento a parte il rap: «L’hiphop è l’unica cosa che ho mai saputo fare».
Dalla sua nascita, nel Bronx degli anni Settanta, il rap si è affermato in tutto il mondo come un genere musicale populista, usato anche da dissidenti politici come affilato strumento di protesta. Le sue radici sono riconducibili, attraverso il rhythm and blues afroamericano, all’Africa occidentale, con la sua tradizione orale di bardi tribali (i griot). Una sua propaggine narrativa, il talking blues, haavutoun’ottimafiorituranella musica country ed è stato praticato da musicisti folk come Woody Guthrie e il suo accolito Bob Dylan.
Il rap emerse per la prima volta, sotto forma di jive, negli striduli dischi degli anni Venti: jive voleva dire parlare a qualcuno o di qualcuno in modo offensivo o ingannevole. Improvvisazione, aggressione, umorismo e competizione si intrecciano nella storia del rap. Nelle battaglie di freestyle in cui si cimentava Eminem nella mensa della sua scuola o nelle sfide-maratona a microfono aperto raffigurate in 8 Mile, il pubblico ride di gusto quando un cantante fa a pezzi impietosamente un altro, e più la stroncatura è crudele meglio è. Il rap non è carino, non ha niente a che vedere con la delicatezza borghese. Le scalmanate energie comiche del rap si nutrono ancora delle dozens, o snaps, le gare a base di scambi di insulti in rima tipiche della cultura afroamericana e con esempi precedenti in Ghana e in Nigeria, adottate ad ampio raggio dalle drag queen.
Esistono precursori caraibici del rap, in particolare il toasting giamaicano, in cui si parla o si scandiscono versi sopra un ritmo cadenzato fornito da un batterista o da un dj. Non è un caso che il primo pezzo rap importante, The Message, del 1982, sia stato creato da Grandmaster Flash, originario delle Barbados e cresciuto nel Bronx. The Message è l’antesignano diretto dei ruvidi tableaux vivants urbani disegnati da Eminem, con i loro vividi effetti sonori in stile radiofonico di porte che sbattono, rumore di passi, colpi di pistola, pneumatici che stridono e sirene della polizia. Paradossalmente, la stragrande maggioranza degli acquirenti di album rap negli anni Ottanta e Novanta era composta da adolescenti bianchi, maschi e benestanti. Isolati in una cultura sterilizzata da centro commerciale, cercavano nella remota vita del ghetto modelli di mascolinità che scarseggiavano alquanto nelle loro case signorili e nelle loro scuole ipercontrollate. Perfino il loro modo di vestire — pantaloni cadenti e scarpe da ginnastica sformate e slacciate — scimmiottavano l’abbigliamento degli ex detenuti di colore (cinte e lacci da scarpe sono vietati in carcere).
I rapper neri, con la loro spacconeria e il loro fallocentrismo, diventarono per Eminem padri putativi, surrogati di una guida che nella vita reale il suo deadbeat dad (gergo Usa per indicare un padre divorziato che non versa alimenti per i figli) non gli ha mai fornito. Compaiono come ospiti d’onore, singolarmente o collettivamente, in tutti i suoi album, primo fra tutti Dr Dre degli Nwa (Niggaz with Attitude), il prototipo del gruppo gangsta rap, fondato nel 1986 in un sobborgo malfamato di Los Angeles. Eminem assorbì diligentemente dai rapper neri la retorica impudente e l’infatuazione per le armi da fuoco, e anche i loro atteggiamenti cinici verso donne e gay. Questi temi scottanti della musica rap scatenano regolarmente proteste, sia da destra che da sinistra. Nel 1985 Tipper Gore, moglie dell’allora senatore del Tennessee Al Gore, fu tra le fondatrici del Parents Music Resource Center, un’organizzazione che puntava a richiamare l’attenzione sulla presenza di violenza, sesso e droga nella musica pop. Nonostante l’iniziale resistenza dell’industria discografica, che tacciava di censura queste contestazioni, il movimento ottenne l’introduzione di un sistema di etichettatura abbastanza ragionevole, che segnalava ai genitori la presenza di contenuti espliciti in un disco, e che oggi è diventata uno standard in molti Paesi (è presente anche sui cd di Eminem).
All’inizio degli anni Novanta, C. Delores Tucker, veterana delle battaglie per i diritti civili e prima donna nera a ricoprire la carica di segretario di Stato della Pennsylvania, attaccò il gangsta rap definendolo una «lordura pornografica» e fu arrestata più volte per picchettaggi di fronte a negozi di dischi a Washington. Durante le elezioni del 2000, quando il marito Dick era candidato alla vicepresidenza, Lynne Cheney citò esplicitamente Eminem nella sua audizione di fronte a una commissione del Senato: «Eminem non è il primo rapper a crogiolarsi nella misoginia violenta, ma ha portato a nuovi estremi l’odio verso le donne e le descrizioni di azioni degradanti nei loro confronti». La Glaad (Gay and Lesbian Alliance Against Defamation) attaccò Elton John per il previsto duetto con Eminem alla premiazione dei Grammy del 2001, e organizzò una manifestazione a Los Angeles la sera della cerimonia. Da parte sua, il rapper ha replicato nei propri testi in modo sferzante, tanto a Gore e a Cheney quanto alla Glaad. Prima dei concerti di Toronto e Montreal (nel 2000), il procuratore generale dell’Ontario, a seguito di una denuncia contro Eminem per incitamento all’odio da parte di un’organizzazione per la vigilanza sui media, cercò di impedirgli di entrare in Canada perché nei versi delle sue canzoni esaltava «la violenza contro le donne». I concerti si tennero come previsto. Un funzionario dell’immigrazione dichiarò al sito della rivista Nme: «Se dovessimo impedire di entrare in Canada a tutti quelli che fanno brutta musica, avremmo almeno potuto evitarci la disco music».
A dispetto di tutto ciò, l’ultimo album, The Marshall Mathers LP 2, con le sue tormentate oscillazioni tra bramosia e disgusto, dimostra in modo eclatante come la visione delle donne di Eminem sia molto più profonda di quella dei suoi precursori e colleghi rapper, incastrati in tediose formule di prodezze sessuali maschili e sculettanti compiacenze femminili. Le donne in quanto soggetti forti quasi non esistono nel filone principale del rap, che si è distanziato drasticamente dal sofferto romanticismo del soul, quello di Marvin Gaye o Luther Vandross. I rapper neri si identificano esclusivamente nel “clan” maschile: scatenato, sfrenato, barbarico.
Ma Eminem è un solitario, a disagio in qualsiasi gruppo. Nessun altro rapper di primo piano ha mai ammesso le tormentate dinamiche emotive che lui propone da sempre nei suoi album. A dispetto della fama di misogino senza cuore, Eminem è popolato di donne. Le donne lo inondano. Le sue livide, truculente fantasie — schiaffeggiarle, strozzarle, scotennarle, ucciderle con una motosega — sono l’impeto disperato necessario per spingerle via, per liberarsi anche solo per un istante del loro potere sulla sua coscienza. Più di una volta conclude canzoni di un’inquietante violenza con una digressione ammiccante: «Sto solo scherzando, signore, lo sapete che vi amo».
Anche gli attacchi contro i gay, con tutto quel frasario di froci e finocchi, è un modo per marcare il territorio. Nell’autobiografica Rap God, dove passa in rassegna la sua ascendenza rap e prefigura sicuro il proprio lascito, si descrive a sei anni come «un bambino piccolo dall’aria gay / così gay che quasi non riesco a dirlo con la faccia seria » ( straight face: straight significa anche “etero”, ndt). In Brainless, dice che sembrava « un mollaccione fifone, una femminuccia », che gli altri bambini lo « comandavano a bacchetta ». A differenza di Lady GaGa, che proclama con faciloneria che gli omosessuali sono «nati così», Eminem riconosce l’esistenza di meccanismi sociali e, sì, di scelte in materia di orientamento sessuale. La penso come lui: il sesso è qualcosa di fluido e mutevole, e non può essere contenuto o fissato da categorie politicizzate. Il suo nuovo album si conclude deliberatamente con una scenetta in cui Ken Kaniff, il suo comico personaggio gay, è seduto a contorcersi in un cesso pubblico fantasticando di un’orgia con diciotto uomini nudi. L’ultima parola, Eminem la dà a una voce gay.
Con una chiarezza e un candore sorprendenti, nei suoi dischi il rapper di Detroit ci mostra l’intero spettro delle emozioni maschili, da un’amorevole tenerezza verso i bambini a sproloqui ritmati di tradimento e vendetta. Vediamo la straziante ambivalenza che è uno dei principali motori dell’arte ossessiva, da Michelangelo a Picasso, il quale una volta disse: «Ci sono solo due tipi di donne: le dee e gli zerbini». Da quando ha liquidato Freud con l’accusa di sessismo, il femminismo ha abbracciato formule politiche miopi divenendo incapace di comprendere i dubbi, le paure e le compulsioni della sessualità maschile, che si deve mettere e rimettere alla prova.
Headlights, canzone dell’ultimo album di Eminem, è una toccante lettera di amore-odio per la madre, con cui i rapporti non sono buoni e che tiene prudentemente a distanza. «Ero io l’uomo di casa», dice rievocando l’insicurezza della sua infanzia. Le linee di confine rimangono indistinte nella sua vita amorosa: d’altronde sua moglie è emersa con sembianze di sorella dall’orbita della madre, e questo ha intensificato le energie incestuose. La saga rap di Eminem è la sua Casa di Atreo. Come nel ciclo mitologico greco, con i suoi cannibalismi, tradimenti, ossessioni sessuali e sacrifici umani, il rapper sembra lottare contro una maledizione ereditaria: è perseguitato da erinni vendicative, che penetrano nel suo cervello con le loro voci castigatrici e ne fuoriescono in un rap convulso.
Se c’è in lui (e nei suoi testi) un punto debole, è invece la dipendenza da allusioni spontanee a una cultura pop oggi evanescente, fatta di celebrità di mestiere, videogiochi, film d’azione e di fantascienza. Ne vede la mediocrità: « Che cosa ne è rimasto? », chiede a proposito dei suoi rivali, assimilando sprezzante Lady GaGa a Justin Bieber. Mentre una come Lady GaGa si arruffiana i fan, incoraggiando il loro attaccamento simbiotico a lei, Eminem imbocca la strada coraggiosa del vero artista: sfida il pubblico a odiarlo. Varia con disinvoltura tra i gerghi delle diverse comunità, infrange ogni regola del decoro. « Voglio scavare giù fino all’inferno! », tuona il maestoso coro di Wicked Ways, la canzone che chiude — non a caso — proprio questo ultimo album.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Da: La Repubblica, 23 febbraio 2014

L'AUTRICE
Intellettuale e femminista, 67 anni, dal 1984 Camille Paglia insegna Scienze umane all'Università delle arti di Filadelfia. Il suo libro più noto è Sexual Personae: arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson (Einaudi, 1990). L'ultimo saggio pubblicato in Italia si intitola Seducenti immagini. Un viaggio nell'arte dall'antico Egitto a Star Wars (Il Mulino)