Perché sentiamo il
bisogno di conoscere mondi differenti.
Ci sono concetti e
immagini talmente integrati nella nostra cultura da indurci
erroneamente a pensare che provengano da un tempo remoto, come se non
avessero un'origine identificabile e fossero in vita da sempre. Di
solito servono strumenti molteplici, tra la linguistica e
l'antropologia, per mettere a fuoco la nascita di un'idea che ha
finito per entrare nel cosiddetto immaginario collettivo e che con il
tempo è necessariamente andata mutando, invadendo, toccando o
sfiorando diverse aree semantiche.
L'invenzione della
natura selvaggia di Franco Brevini (Bollati Boringhieri, pagine 439,
28) sta al confine tra diverse discipline e generi, mette in moto
numerosi sguardi, codici e linguaggi, fa uso di una bibliografia
sterminata, che va dalla trattatistica ai pamphlet alla poesia, per
definire i contorni di una nuova sensibilità nel rapporto tra l'uomo
e la natura.
Se vengono in mente
libri tra loro molto dissimili, che comprendono certi percorsi alla
Fosco Maraini ma anche indagini storiografiche come La nascita del
Purgatorio di Jacques Le Goff, è perché Brevini è molto abile nel
mescolare le carte, facendo della sua opera un'opera-mondo, una
specie di millefoglie, un testo composito, dove l'esperienza diretta
si mescola con la riflessione filosofica, la critica della cultura e
la critica letteraria, che è, insieme al racconto di viaggio, la sua
vera specialità.
Opera-mondo nel senso
più letterale, perché l'autore ci porta ovunque, un ovunque inteso
su più piani: epistemologico, cronologico, spaziale. Il punto
cruciale sta forse in una frase che si trova nella sua lunga e
articolata introduzione: l'idea di natura selvaggia, nella doppia
declinazione inglese sia di wilderness che di wildness, è un'idea
tutt'altro che naturale, è un prodotto culturale, «è un sogno che
ci portiamo dentro, è un mito del nostro universo mentale».
Con la fine del
Settecento, si impone una nuova sensibilità che si fa carico di una
perdita ben sintetizzata dalle parole di Schiller: gli antichi
sentivano naturalmente, i moderni sentono la natura. È una svolta
che non riguarda solo gli specialisti ma che comporta una rinnovata
percezione complessiva del rapporto tra natura antropizzata e natura
selvaggia, coinvolgendo un reticolo di saperi e di conoscenze. E una
diversa percezione morale dell'ambiente. Non più un atteggiamento
protezionistico, piuttosto una deep ecology (secondo la definizione
del pensatore norvegese Arne Naess), cioè una prospettiva
ecocentrica, non antropocentrica. In un libro leggibile a diversi
livelli, un filo rosso importante è rappresentato dal richiamo a
un'«etica per l'ambiente» così estranea alle politiche e alla
cultura italiane.
La parte più godibile
del libro di Brevini, che si giustappone e si integra con le dense
pagine riflessive e storico-culturali (molto istruttivi, tra gli
altri, i paragrafi relativi ai procedimenti euristici della cultura
rinascimentale svizzera), resta comunque quella narrativa, che ci
accompagna dalle falesie calcaree malesi all'Etna in eruzione, dai
più remoti villaggi della Groenlandia alle ascensioni sul Monte
Bianco. Non manca niente. E il tutto si accompagna con una messe
enorme di richiami letterari (decine i brani poetici di ogni tempo
che illustrano paesaggi e sentimenti naturali), artistici,
manualistici, storico-scientifici, sempre con la preoccupazione di
mettere a fuoco il mutevole rapporto dell'uomo con l'esotico naturale
che, mentre diventa esperienza vissuta anche off-limits, viene posto
in scena, narrato, dipinto, mitizzato con l'avvento della modernità.
Il viaggio fisico e
ideale dentro la natura selvaggia consente di acquisire una coscienza
talmente semplice, almeno in apparenza, da essere spesso rimossa o
dimenticata: che abbiamo radici naturali. Lo dice Holmes Rolston, uno
dei padri delle environmental ethics, che è tra i tantissimi nomi
che compaiono nel libro di Brevini. Ma la conclusione di questa
avventura civile e intellettuale spetta all'autore, che giustamente
le aggiunge una valenza autobiografica: «La wilderness come forza
generatrice indifferente all'umano e l'immersione in essa come
anamnesi verso le sorgenti della vita sono una delle esperienze più
sconvolgenti che personalmente ho vissuto inoltrandomi negli ambienti
selvaggi». Là in mezzo, confessa Brevini, si sentiva fragile e
indifeso: «davvero finitudine e nullità». Non tutti ne fanno
tesoro, poi, al ritorno.
PAOLO DI STEFANO,
Corriere della Sera 05 Aprile 2013