domenica 28 aprile 2013

Enzo Jannacci - l'antieroe del surreale

L'antieroe del surreale che cantava da stralunato per riscattare gli esclusi

Ci sono vari fili rossi nelle canzoni di Enzo Jannacci: motivi che, accompagnati dall'unicità dell'esecuzione, concorrono a dare un'impronta inconfondibile alla sua personalità artistica. Il primo ? e forse il più resistente ? è, al di fuori di ogni retorica, quello dell'emarginazione: ed è probabile che abbia origini autobiografiche. Metà milanese, metà pugliese, Jannacci si sente un po' integrato, un po' no. È normale che guardi ai derelitti e agli esclusi con partecipazione.

Ma lo sguardo politico è filtrato da una specie di visione surreale evidente nei testi ed enfatizzata dalla voce schizoide e dalla mimica. Si tratta di un'esclusione non solo sociale, ma ontologica. Non è un caso che Jannacci abbia conosciuto e frequentato uno scrittore come Luciano Bianciardi. Nel film La vita agra lo vediamo magro, pallido, rigido, con scatti burattineschi e una mimica volutamente inespressiva suonare e interpretare la canzone assurda di un uomo che cerca l'ombrello di suo fratello, un tipo sfacciato, raccomandato, maleducato (e ladro). È con aria stralunata e spersa che canta la storia di un barbone che parla da solo: «El portava i scarp de tennis... el g'aveva du oecc' de bun...». Qui la normalità di una miseria quotidiana trova una forma di riscatto in quella esecuzione dai timbri «straniti». Altrove, invece, lo scarto surreale si rivela anche nell'eccezionalità dei personaggi che vengono narrati, come Giovanni telegrafista «dal cuore urgente», che cerca ovunque la sua donna, Alba, fuggita una mattina «per andare abitare città grande piena luci gioielli». Il patetico e lo strazio di fondo vengono tenuti a distanza dal suono ossessivo del telegrafo: «Piripiripiri... Piripiripiri...». Per non dire di Bobo Merenda che si innamorò di una lente a contatto... Jannacci, con il suo amico Gaber, è un erede italiano (e popolare) di Beckett molto prima di essere l'Estragone di Aspettando Godot a teatro (1990) e forse persino prima di averlo letto. Un Beckett attraversato da una scossa energetica e satirica. L'invocazione di «Vengo anch'io, no tu no» è di un'insistenza formidabile, martellante: quella che potrebbe diventare la resa del vinto si trasforma in un nonsense delirante grazie a un'autoironia potenziata dalla gestualità marionettistica: «Sì, la scoperta che ho fatto sul Godot ? raccontava Jannacci ? è che i personaggi di Beckett sono vincenti, e non perdenti, hanno ragione loro. Tutto quell'aspettare è un trucco: non aspettano niente, perché hanno capito tutto». Quando parla di fabbrica, si avverte in Jannacci l'aria del tempo, quella nevrosi visionaria che alimentava anche la letteratura «alta» contemporanea: l'alienazione psicotica che percorre i romanzi di Paolo Volponi e di Ottiero Ottieri, ma anche i versi di Giovanni Giudici. I suoi antieroi urbani soffrono l'impatto con il boom economico che li ignora e li emargina facendone personaggi alterati, sognatori indifesi alle prese con un mondo distruttivo e disumano, solo apparentemente razionale. L'altra vera battaglia di Jannacci è stata condotta contro i luoghi comuni di «Quelli che... con una bella dormita passa tutto, anche il cancro» o «che votano a destra perché hanno paura dei ladri...»: di «quelli che...» era (è) piena l'Italia. Tutto il lavoro con Cochi e Renato era fondato sul proposito di mettere alla berlina tanti cliché sociali e tanti tic mentali del pensare comune. Si potrebbe dire che l'estraneità per Jannacci non produce protesta o rabbia politico-sociale né rassegnazione o nichilismo, ma uno sfogo dissacrante che prevede lo scarto imprevisto entro una dimensione alternativa. Immagini insensate: il Duomo di Milano «pieno di acqua piovana» portata con i pianti «per la redenzione delle puttane»; l'innamorato che si lamenta per il mal di piedi («me fan mal i pè») dovuto al fare «avanti e indrè» sotto la finestra della sua bella; o quello che chiede alla sua donna di fargli provare l'«ebressa dei tendini» o di essere picchiato «solo negli angoli...».Anche quando sembrava percorrere strade elegiache o romantiche, Jannacci ha saputo trovare nello scarto delirante e tragicomico una via di scampo e una possibilità di spiazzamento e di riscatto per il popolo scalcinato dei suoi poveri cristi solitari.

Di Stefano Paolo

(17 aprile 2013) - Corriere della Sera