di Marco Travaglio
Con la lettera del presidente Napolitano alla famiglia
Craxi, indirizzata dal Quirinale alla villa di
Hammamet, appena lasciata da tre ministri
aviotrasportati del governo in carica, si chiude
degnamente il triduo di celebrazioni per l’anniversario della
scomparsa del grande statista corrotto, pregiudicato e
latitante: 10 anni, tanti quanti ne aveva totalizzati in
Cassazione.
Oggi completeranno l’opera in Senato altri
luminosi statisti come l’ex autista Renato Schifani e il
pluriprescritto Silvio Berlusconi, già noto per aver definito
“e ro e ” il mafioso pluriomicida Vittorio Mangano. Intanto
fervono i preparativi per festeggiare i 150 anni dell’Italia
unita e il Pantheon dei padri della Patria è un porto di mare.
Gente che va, gente che viene. Soprattutto gentaglia. Nel
felpato linguaggio del capo dello Stato, la latitanza di Craxi
viene tradotta testualmente così: “Craxi decise di lasciare il
Paese mentre erano ancora in pieno svolgimento i
procedimenti giudiziari nei suoi confronti”. Anche perché,
aggiunge Napolitano in perfetto napolitanese, le indagini
sulla corruzione (non la corruzione) avevano determinato
“un brusco spostamento degli equilibri nel rapporto tra
politica e giustizia”. E il sant’uomo fu trattato “con una
durezza senza eguali” mentre, com’è noto, la legge impone
di processare i politici che rubano senza eguali con una
morbidezza senza eguali. E le mazzette miliardarie, e gli
appalti truccati, e i soldi rovesciati sul letto, e i 50 miliardi
su tre conti personali in Svizzera? Non sono reati comuni: il
napolitanese li trasforma soavemente in “fe n o m e n i
degenerativi ammessi e denunciati” (come se rubare e poi,
una volta scoperti, andare in Parlamento a dire “qui rubano
tutti” rendesse meno gravi i furti). Il presidente ricorda che
“la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ritenne violato
il ‘diritto ad un processo equo’ per uno degli aspetti indicati
dalla Convenzione europea”. Ma non spiega che Craxi fu
processato in base al Codice di procedura che lui stesso
aveva voluto e votato, il Pisapia-Vassalli del 1989 che –
modificato da due sentenze della Consulta – consentì fino al
1999 di usare i verbali delle chiamate in correità dei
coimputati anche se questi non si presentavano a ripeterle
nei processi altrui. Se i processi a Craxi non furono “equi”,
non lo furono tutti quelli celebrati in Italia dal 1946 al 1999.
Su un punto Napolitano ha ragione: Craxi lasciò
“un’impronta incancellabile”: digitale, ovviamente.
Quel che sta accadendo è fin troppo chiaro: si
riabilita il corrotto morto per beatificare il
corruttore vivo. Si rimuovono le tangenti della
Prima Repubblica per legittimare quelle della
Seconda. Si sorvola sulla latitanza di Craxi per
apparecchiare nuove leggi vergogna che
risparmino la latitanza a Berlusconi. L’ha ammesso,
in un lampo di lucidità, Stefania Craxi: “Gli italiani
non credettero a Bettino, ma oggi credono a
Berlusconi”. Ma perché credano a Berlusconi su
Craxi, ne devono ancora passare di acqua sotto i
ponti e di balle in televisione. Stando a tutti i
sondaggi, la stragrande maggioranza degli italiani
di destra, di centro e di sinistra è contraria a
celebrare Craxi, come è contraria all’i mmunità
parlamentare e alle leggi ad personam prossime
venture. Forse gli italiani sono ancora migliori di
chi dice di rappresentarli. E allora, tanto peggio
tanto meglio. Si dedichino pure a Craxi
monumenti equestri, targhe votive, busti bronzei,
strade, piazze, vicoli, parchi e soprattutto
tangenziali. Dopodiché si passi a Mangano (sono
ancora in tempo: anche lui scomparve
prematuramente nel 2000). Così sarà chiaro a tutti
chi sono i “loro ” eroi. Noi ci terremo i nostri e da
domani chiameremo i lettori a sceglierli. A
Mangano preferiamo ancora Falcone e Borsellino.
A Craxi e a Berlusconi, politici diversi ma limpidi
come De Gasperi e Berlinguer. Ieri, poi, ci è venuta
un’inestinguibile nostalgia per Luigi Einaudi e
Sandro Pertini.
Il Fatto quotidiano 19 gennaio 2010