mercoledì 18 giugno 2014

Oltre la musica: l’arte si ascolta (Mostra Art and Sound - Venezia)


Carillon, dipinti, partiture e strumenti. «Un viaggio nei sensi. Poi gusto e tatto»
Oltre la musica: l’arte si ascolta
La Fondazione Prada propone in Laguna un percorso in cui anche i visitatori sono protagonisti.

La mostra: “Art and Sound”, Venezia, Fondazione Prada, Cà Corner della Regina, dal 7 giugno al 3 novembre, chiuso il martedi


Il titolo, o meglio il non-titolo, va inventato sul posto: così almeno suggerisce Jannis Kounellis per quello strano ibrido tra concerto, balletto, performance d’autore. Sarà arte, sarà suono, sarà qualcosa di ancora diverso? Di certo sarà uno dei tanti dubbi, o delle tante chiavi di lettura, suggerite da Art or Sound, la prossima mostra che la Fondazione Prada presenterà nella sua sede veneziana di Ca’ Corner della Regina dal 7 giugno al 23 novembre, praticamente negli stessi giorni della XIV Biennale di Architettura: quasi 200 frammenti dal Cinquecento a oggi (orologi, carillon, automi, macchine musicali, dipinti, partiture, sculture, ready-made, semplici strumenti «riveduti e corretti») che indagano «la relazione di simmetria e ambivalenza che esiste da sempre tra opera d’arte e oggetto sonoro », con l’intenzione — spiega in anteprima a «la Lettura» il curatore Germano Celant — «di proporre una rilettura dello strumento musicale che diventa entità plastico-visiva e del manufatto artistico che produce suono».


È appunto quello che succede nel contemporaneo caso del violinista e della ballerina di Kounellis e in quelli più squisitamente classici (tutti presenti a Ca’ Corner) delle chitarre e dei violini di marmo intarsiato di Michele Antonio Grandi e Giovanni Battista Cassarini, delle gabbiette a orologeria (con tanto di automi a forma di uccello) di Pierre Jacquet-Droz, dell’Intonarumori di Luigi Russolo, dell’organo-carrozza di Egor Kuznetsov o di quel rotolo di spago tra due lamine di ottone che secondo Marcel Duchamp «esplorava per la prima volta la dimensione del silenzio» (era il 1916, titolo dell’opera A bruit secret, oggi nella collezione del Philadelphia Museum).

Ai due estremi del viaggio ci sono, da una parte, i cinquecenteschi «dipinti a soggetto musicale» (la donna che suona il liuto di Bartolomeo Veneto o le tavole di Nicola Giolfino); dall’altra una nuova generazione di artisti- performer-compositori rappresentata da Anri Sala, Athanasios Argianas, Haroon Mirza, Ruth Ewan, Walter Kitundu, Tarek Atoui, Riccardo Beretta, Pedro Reyses, Alberto Tadiello, Maywa Denki. Nel mezzo: i mixpop di Tom Wasselmann, Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen; gli strani pianoforti di Günther Uecker, Richard Artschwager, Joseph Beuys; le chitarre, i violini o i banjo di Ken Butler e William T. Wiley (sculture da suonare); le performance di Christian Marclay, Janet Cardiff, Martin Creed, Thomas Demand, Maurizio Cattelan, Rebecca Horn.

«Non abbiamo cercato lo scontro fra queste forme d’arte — chiarisce subito Celant —, ma nemmeno volevamo la contaminazione a tutti i costi. La nostra intenzione era piuttosto proporre due percorsi che scorressero paralleli o, meglio ancora, due spartiti che scandagliassero il territorio di libero transito che, negli ultimi cinque secoli, ha fatto sempre più spesso sconfinare l’arte nel suono e il suono nell’arte. E per farlo abbiamo dovuto chiedere qualcosa di più anche ai visitatori, costringendoli a interagire con le opere. Insomma, facendole suonare».

È il caso dell’Handphone Table di Laurie Anderson (1978), della Crossfading Suitcase di Loris Gréaud (2004), del Marble Sonic Table di Doug Aitken (2011) ma anche di oggetti sonori più anonimi e artigianali adottati da arti-star alla maniera di Nam June Paik o Bruce Neumann come il corno fine Settecento a forma di serpente e con la testa di dragone o la lira-cetra del XVI secolo.

La parola d’ordine della mostra sembra dunque essere multisensorialità. Per farlo «abbiamo dovuto trovare un taglio inedito rispetto a quello che oggi si trova in giro, non scegliendo la strada ormai abusata della personale sul grande artista o della esposizione monotematica, ma piuttosto sull’idea di una mostra multipla» (in fondo era già successo con altre esposizioni di Ca’ Corner, da When Attitudes Becomes Form del 2013 o The Small Utopia del 2012). In che senso? «Proponendo appunto opere d’arte che non siano più solo da vedere, ma anche, come stavolta, da ascoltare o da suonare come quelle di Calder e Rauschenberg. E in un futuro, speriamo prossimo, ci piacerebbe arricchire la conoscenza dell’arte anche attraverso altri sensi come il tatto, il gusto, l’odorato». Un modo, spiega ancora Germano Celant, «per obbligare un ripensamento a musei e spazi espositivi in genere, che ormai non possono più essere rigidi o eccessivamente definiti, considerato che l’arte è ormai sempre più una forma di esperienza allargata». Intanto, per l’occasione, saranno per la prima volta utilizzati il portego e le stanze laterali del secondo piano mobile, ottocento metri quadrati restaurati secondo il programma di recupero intrapreso nel 2011 dalla Fondazione.

L’allestimento, che «richiama volutamente uno spartito», è firmato dallo studio 2×4 di Michael Rock. A ribadire che ormai non ci devono essere più limiti per mostre e musei, ci sarà il dj Sanchez a mixare le sonorità dei singoli oggetti esposti, proprio come in un concerto. Il mix diventerà anche una traccia sonora eventualmente riproducibile: «Non è stato facilissimo, c’erano infiniti suoni da coordinare, alcuni prevedibili altri meno, come quelli che provocheranno i singoli visitatori, a loro piacimento. Ci sarà un enorme cervellone-consolle che sceglierà tempi e alternanze — chiarisce ancora Celant — ma abbiamo dovuto utilizzare anche un materiale fonoassorbente per ricoprire pavimenti e piedistalli nei due piani della mostra, in modo da attenuare la diffusione allargata dei suoni e consentire una buona percezione relativa delle singole opere».

Saranno dunque queste le sfide di Art or Sound, in attesa dell’inaugurazione della nuova sede milanese della Fondazione, quella di largo Isarco progettata da Rem Koolhaas: la mostra d’apertura porterà la firma di Salvatore Settis come curatore e dovrebbe segnare un’ulteriore svolta verso la classicità (il serial classic, la copia d’età romana, i Medici, il Laocoonte, i multipli contemporanei). Intanto cosa suggerisce Celant per Ca’ Corner? «Leggere il tempo e farlo suonare». Meglio ancora se al non-ritmo di John Cage.

2014_06_01 Corriere della Sera » Il Club de La Lettura »