martedì 21 aprile 2009

Morire per gli altri

Perché non sottraiamo alla morte il suo tratto di solitudine, che è forse il suo aspetto più terrificante?
Vorrei porre l'accento su un aspetto molto trascurato nel dibattito pubblico che ha per oggetto l'accanimento terapeutico. Si parla sempre - e a ragione - del diritto delle persone che versano In una condizione di coma irreversibile a interrompere le cure e l'alimentazione forzata qualora abbiano dato precise indicazioni al riguardo durante la loro vita cosciente. Ciò di cui invece si tace sono i diritti del congiunti, di quei genitori, fratelli, figli, mogli e mariti che, a un punto fatale della loro vita, si trovano precipitati in una condizione innaturale per la quale la nostra psiche non è attrezzata, quella di affrontare un lutto quasi totale ma non definitivo.
È probabile che non se ne parli per paura di suscitare il fantasma che l'interruzione delle cure possa avvenire nell'Interesse dei sani a sbarazzarsi del malati. Credo però che occorra una buona dose di crudeltà per non concedere a questi familiari disperati di provare un'ambivalenza di sentimenti e desideri, la speranza di scoprire dei miglioramenti nella salute del proprio caro e, in assenza, quella di vederlo morire. Nel normali contesti della vita quotidiana è frequente che le persone di buon senso, credenti e non, sussurrino al capezzale dei moribondi l'augurio che la loro agonia finisca al più presto, e solitamente le loro parole vengano interpretate come espressione di umana pietà, quella compassione che è disdicevole mostrare in pubblico e che probabilmente spinge la
maggioranza degli Italiani a stare dalla parte del papà di Eluana En-glaro.
Per qualche strano motivo non si ritiene però che quella pietà debba essere estesa anche ai familiari, ovvero - per usare termini più laici -non si ritiene che essi abbiano un preciso diritto alla salute psichica. Alla sospensione tra la vita e la morte della persona In coma irreversibile corrisponde - nei vivi - una condizione di stallo esistenziale che può durare decenni. Propongo allora di guardare alle volontà espresse nel testamento biologico da questa angolazione: coloro che rifiutano l'accanimento terapeutico forse testimoniano il loro amore verso chi lasciano, forse rinunciano alla perversione di desiderare che la vita degli altri ruoti intorno al proprio capezzale, forse vogliono liberare le energie del loro cari in modo che possano dedicarsi a ricostruire affetti senza sentirsi in colpa, forse sono semplicemente delle persone sane, sagge e capaci di altruismo. Anna Addazi addazi.anna@llbero.lt

Risponde Umberto Galimberti:
Mi fa piacere che la sua lettera non prenda parte all'infuocato conflitto di pareri che hanno accompagnato gli ultimi anni di vita di Eluana Englaro e, prendendo una certa distanza dal suo capezzale, intorno a cui si erano radunate posizioni scientifiche, religiose, politiche e giuridiche, capovolga il problema, non tanto per salvaguardare la qualità della vita di quanti si trovano ad assistere per anni un organismo tenuto in vita dalle macchine, quanto, radica-lizzando il senso della sua domanda, per chiedersi: perché la morte fatica a entrare nel circuito dell'amicizia, dell'amore e acquistare cosi un volto sereno? Perché bisogna morire solo per cause organiche sotto l'unica giurisdizione della tecnica medica? La morte è un evento che riguarda solo il mio organismo, oppure riguarda la mia vita che non è fatta solo di organi fisici, ma soprattutto di vissuti, di amicizie, di amori, di stili, di rispetto per sé e per gli altri?
Dico questo perché fare un testamento biologico significa anche rispetto per la vita degli altri, significa non morire da soli, ma condividere anche la propria morte con chi si è condiviso la vita, significa inserire la morte in uno scambio d'amore che la sottrae a quello scenario angosciante, caratterizzato dall'estraneità che sempre accompagna la morte quando a cadenzarla è l'irreversibile dissolvimento dell'organismo. In fondo perché temiamo così tanto la morte? Essa è terribile come tutto ciò che è estraneo, anzi come il massimamente estraneo. E in questa estraneità, che inesorabilmente ci raggiunge, si nasconde il suo volto terrificante. Mi pare che la sua lettera non voglia spezzare lance a favore dell'eutanasia, ma semplicemente sottrarre alla morte quel tratto di estraneità che inevitabilmente possiede quando è affidata alle sorti biologiche dell'organismo e possa così diventare qualcosa di familiare con la vita, qualcosa che non chiude come un evento estraneo amori e amicizie, ma si faccia accompagnare e al limite si faccia carico degli amori e della amicizie per cui e con cui si è vissuto.
Questa è la morte "umana" che va assolutamente distinta dalla morte "biologica" che, per i suoi tratti di estraneità, al limite non ci riguarda.

Repubblica delle donne D186
18 APRILE 2009