venerdì 7 febbraio 2014

Internet senza freni mina la democrazia: serve la decrescita


L’accumulo di dati pone un problema etico La soluzione è rivedere i modelli di sviluppo

Che cosa insegnano il caso Snowden e le rivelazioni sulla raccolta di informazioni personali? È il momento di ripensare il web, così come dobbiamo ripensare l’economia

Nell’era post-Snowden le società democratiche hanno due possibilità. La più semplice è continuare a comportarsi come prima, facendo finta che l’insaziabile sete di dati della Nsa (National Security Agency) sia solo un’aberrazione che può essere corretta modificando qualche aspetto dell’apparato tecnicogiuridico esistente. Si possono rivedere alcuni protocolli infidi di elaborazione dati, usare crittografie più complesse nelle nostre reti di comunicazione e introdurre nuove leggi per controllare la Nsa. L’altra possibilità — più impegnativa e responsabile — è quella di ritenere che le rivelazioni di Snowden non portino alla luce solo qualche episodio di deviazione di un apparato amministrativo. Ci è permesso pensare che siamo di fronte a una minaccia fondamentale all’etica democratica, destinata ad aggravarsi a mano a mano che si diffonderanno i mezzi per raccogliere, registrare e analizzare masse di dati? Il motivo per cui è così difficile riconoscere questa minaccia (nonostante sia cruciale per la politica democratica) è semplice: ammetterla contrasta con la rosea visione dell’economia dell’informazione, basata sull’assunto che la crescita non abbia fine.

Google, Facebook e un migliaio di loro imitazioni nella Silicon Valley operano tutte ipotizzando che non ci sia un limite alla quantità di dati che si possono produrre, raccogliere, scambiare e condividere. Più ci sono informazioni, meglio è — proclamano costantemente queste aziende. Il confronto con altre aree dell’economia che ancora non si trovano sotto l’ampio ombrello dell’«informazione» è illuminante. Per molto tempo l’ipotesi di una crescita infinita — che aveva il Pil come unico parametro di riferimento per valutare la politica di governo — ha dominato anche qui. Le prime voci critiche degli anni Settanta sono state rapidamente soffocate dagli slogan sul libero mercato di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, ma i dubbi sulla crescita come unico obiettivo dell’attività economica sono riemersi nell’ultimo decennio, a seguito degli allarmi sul riscaldamento globale.

Questi dubbi sono stati avanzati dagli aderenti al movimento della «decrescita» — popolare in Europa, molto meno negli Stati Uniti — che non solo mette in discussione l’idea che si debba continuare a perseguire l’obiettivo di una crescita continua, visto quello che ormai sappiamo sui rischi che comporta per il pianeta, ma cerca anche di ridurre l’importanza del Pil come parametro di valutazione della politica economica. Come ha detto Yves-Marie Abraham, sociologo canadese fautore del programma di decrescita, «non si tratta di dare meno importanza al Pil, ma di decretare la fine del Pil e di tutte le altre misure quantitative utilizzate come indicatori di benessere».

Non è questa la sede per valutare i meriti dei programmi di decrescita nel campo dell’economia. È però difficile negare l’interesse delle sfide intellettuali che essi hanno lanciato all’economia tradizionale. Chi oggi vuole difendere teorie economiche che propugnino la crescita a tutti i costi deve fare i conti con i problemi del cambiamento climatico e con il fatto che tra crescita e felicità non c’è rapporto diretto. E se una maggiore crescita non ci rende più felici, perché dovremmo metterla al centro della politica? Come paradigma alternativo per organizzare l’attività produttiva, la decrescita ha quanto meno dato luogo a qualche idea provocatoria in politica e in economia.

Nell’ambito delle informazioni, invece, non c’è ancora un modello alternativo. I tentativi di trovare modi diversi di rapportarsi con la tecnologia e le informazioni finiscono col proporre soluzioni sul piano della presa di coscienza individuale, che funzionano per i singoli ma non per la collettività: veniamo incoraggiati a «disintossicarci» dal digitale e rafforzare il senso della realtà, a installare applicazioni che ci rendano più «consapevoli», a trascorrere dei periodi in ambienti in cui l’uso dei dispositivi elettronici è bandito.

Nessuna di queste soluzioni offre una coerente alternativa intellettuale all’attuale convinzione che sia sempre preferibile avere più informazione. La ragione è semplice: i teorici della decrescita possono ricorrere allo spauracchio, utile ma reale, del riscaldamento globale per riorientare il nostro modo di pensare. C’è modo migliore di convincere la gente a muoversi del ricordargli che sta lentamente distruggendo la civiltà?

La prospettiva di uno scenario catastrofico del genere non è però entrata nel dibattito sulle informazioni. Tutto quello che riusciamo a vedere sono i possibili problemi per la salute, una maggiore difficoltà a concentrarsi, una maggiore distrazione; questioni che riguardano gli individui, non la collettività. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che si cerchino soluzioni private, come le app che ci rendono più attenti. Eppure non ci vuole un genio per capire quale sia in questo caso l’equivalente del riscaldamento globale: è la graduale scomparsa dello spirito democratico dal nostro sistema politico. Questo accade perché credere ingenuamente nei Big Data preclude gli spazi che erano prima aperti al dibattito pubblico.

Che bisogno c’è di dar luogo a discussioni disordinate su soluzioni alternative quando si hanno le informazioni necessarie per selezionare i migliori mezzi possibili? E si producono cittadini che, presi dagli infiniti chiacchiericci dei moderni sistemi tecnologici, delegano le decisioni politiche ai tecnocrati, che sono sempre contenti di agire a micro-livelli, ma raramente interessati a lavorare a cambiamenti sistemici di largo respiro. Invece di contestare Silicon Valley su questioni di principio, perché non riconoscere che i vantaggi che offre sono effettivi, ma che, come un Suv o un impianto di aria condizionata sempre in funzione, potrebbero non valere quel che costano? Certo, la personalizzazione della ricerca ci può dare risultati favolosi, indicandoci la pizzeria più vicina in 2 secondi anziché in 5. Ma questi tre secondi che risparmiamo comportano una memorizzazione di dati sui server di Google e, dopo Snowden, nessuno sa veramente che fine facciano quei dati. Silicon Valley offre un ottimo e utile prodotto? Ma se questo ottimo prodotto finirà per soffocare il sistema democratico, dovremmo forse essere meno esigenti e accettare il fatto che tre secondi in più di ricerca — come un’auto più piccola e lenta — possono essere un prezzo ragionevole da pagare per avere un futuro dignitoso.

Le soluzioni «mercantili» al problema della privacy avanzate da alcuni critici del sistema attuale — come Jaron Lanier, che sostiene che dovrebbe essere permesso di possedere e poter cedere i diritti sui nostri dati sulla scorta di uno stretto regime di proprietà — è poco probabile che siano più efficaci delle soluzioni «mercantili» al riscaldamento globale nel contrastare questa lenta erosione della democrazia. Ricordate l’Emission Trading Scheme, una volta tanto celebrato dall’Unione Europea? È stato un gran fiasco.

Il problema da affrontare non è quello della mancanza di controllo sui dati individuali, ma piuttosto il fatto che, armati di così tanti dati, i sistemi politici moderni sono portati a credere di poter fare a meno dei cittadini. E i cittadini, contenti della grande abbondanza di contenuti, non vedono l’ora di abbandonare lo spazio politico. Creare un mercato personale di dati, perciò, significherebbe solo accelerare il già veloce declino del sistema democratico. Che si applichino le idee della decrescita, o che si abbracci qualche altro paradigma che possa sfidare la convinzione che più dati ci sono meglio è, dovrebbe essere chiaro che non affronteremo la profonda crisi rivelata da Snowden se continueremo a procedere nella direzione attuale. Il dibattito su Snowden ha bisogno del contributo di chi sappia maneggiare le leggi e il diritto quanto l’economia e la politica.

corrire della sera, la lettura 2 febbraio 2014