venerdì 28 giugno 2013

Il tempo che scorre non è certo questione di orologi


IL TEMPO CHE SCORRE
Non è certo questione di orologi
Alterare ricordi, pensare il futuro, deformare il tempo è una qualità essenziale dell'uomo. Con conseguenze etico-politiche, narrative, sentimentali. Un saggio di Claudia Hammond

di Chiara Valerio
In media pensiamo al futuro 59 volte al giorno, vale adire una volta ogni 16 minuti nelle ore di veglia. Le ricerche in questo campo hanno portato a una scoperta sconcer­tante: contemplare il futuro potrebbe es­sere la posizione di default della nostra mente.
Il mistero della percezione del tem­po di Claudia Hammond (Einaudi, 2013) è una scrittura di intenzione divulgativa, e piglio documentativo saggistico, sulla percezione del tempo. Su come, più spe­cificamente, il tempo per gli esseri uma­ni non sia faccenda di orologi ma caratte­ristica precipua della memoria e della possibilità che gli umani hanno di «ricor­dare il futuro».

Non gli animali da com­pagnia, non i delfini, non certe specie di uccelli che pure sanno che i vermi morti si conservano assai peggio delle ghiande e dunque, in carestia, è meglio stipare le seconde. Hammond, attraverso espe­rienze raccolte e analizzate nella lettera­tura medica, e considerazioni di natura psicologia, con descrizioni di esperimen­ti su gruppi di individui di età ed estrazioni sociali differenti, campioni ben congegnati, traccia le connessioni tra memoria e immaginazione, descrive persone "policrone" e persone "monocrone", spiega come il tempo si deformi sotto la felicità, l'infelicità, le vacanze, il modo di lavora­re, misura, in breve, con ipotesi e teorie scientifiche, l'esperienza comunissima della variabilità del tempo.
Anche se «non esiste un organo che percepisca i secondi, i minuti o le ore che passano», è impossibile smettere di av­vertire il tempo, ognuno a modo proprio - a meno di non essere un individuo che, per errore, sia stato privato dell'ippocam­po, come Henry che «a ventisette anni era stato sottoposto a un'operazione al cervello per scongiurare le numerose cri­si epilettiche» e che, pur senza crisi epi­lettiche, ha vissuto «due terzi della vita asserragliato in un eterno presente». Hammond, prende l'abbrivo dal partico­lare concreto di Henry, passa attraverso l'amnesia e lega la mancanza del senso, del passato all'impossibilità di immagi­nare il futuro.
La fisiologia del ricordo, così come Hammond la illustra, sembra avere tre conseguenze immediate.
Una di tipo etico-politico. Se chi non possie­de il passato, non ha accesso neppure al futuro, allora chi non conosce il passato non può costruire il futuro e dunque l'unica soluzione dialettica a disposizio­ne è l'Apocalisse che, in effetti, la fine del tempo. I tribuni, che arringano le folle coi gesti esortativi dell'animatore e che, coi toni accessi del predicatore, si vanta­no di non avere passato politico alcuno, non possono progettare politicamente nessun futuro.
Una conseguenza è, in fondo, di natura sentimentale. Se «pen­sare al futuro è associato a emozioni più forti che riflettere sul passato», allora è giusto che la giovinezza sia irresistibile. Se, pur utilizzando le medesime aree del cervello, «immaginare il domani richie­de più energia cerebrale che ricordare il passato», allora è giusto affidarsi alla gio­vinezza per concepire gli spazi a venire, qualsiasi natura essi abbiano.
L'ultima conseguenza è di tipo narrativo. Scrive Hammond, «I nostri ricordi sono flessibi­li. Non ci entrano in testa formati per poi rimanere intatti nell'archivio mentale, in attesa che li richiamiamo. Decenni di prove dimostrano che alteriamo i ricordi mentre li depositiamo, che li rialteriamo se vengono alla luce nuove informazioni e che poi, se ci torna utile per dare un segno agli eventi, li ri-rialteriamo quando li richiamiamo».
Gli esseri umani dun­que romanzano. Sempre, continuamen­te, vivono di proliferazioni narrative, di versioni di fatti che sono, a loro volta, già versioni. I fatti sono versioni concentri­che o eccentriche, girano intorno all'ine­vitabilità della specie umana di deforma­re il tempo.
È per questo motivo, fisiolo­gico, costruttivo - «viaggiare nel tempo ci rende umani» - che la letteratura è ca­talogo affidabile e quaderno a cancelli per adattare il tempo ai nostri bisogni.
Lo fa anche Hammond nell'ultima se­zione del testo «Cambiare il proprio rap­porto con il tempo», ma è un vero e pro­prio eserciziario.
In «Giochi di specchi e fuochi fatui» (Il tempo grande scultore, Ei­naudi, 1993), Yourcenar osserva «Dire che memoria e immaginazione si nutro­no l'una dell'altra, significa restare nei dati generali del problema. Se ricordo vi è stato, se queste informazioni si trovano in un documento di archivio, bisognereb­be sapere perché mi si sono immediata­mente imposte come nozioni (...) se vi è stata affabulazione, bisognerebbe spie­gare perché ho costruito questi miraggi e proprio questi. È strano serbare nella me­moria o nell'immaginazione, l'equivalen­te del calco di una realtà che forse non è mai avvenuta».
Scrivere significa alterare il tempo, e vi­ceversa, cambiare la collocazione del tempo nello spazio, e a ritroso. «Non ab­biamo un rapporto lineare col tempo». Le alterazioni del tempo sono al centro dell'opera di Virginia Woolf, il tempo dei suol personaggi non ha cronologia, mu­ta sostanza, grana e battito secondo le as­senze future dell'attesa e le assenze pas­sate del corpo. Il tempo nei romanzi di Woolf non è continuo, non scorre - rista­gna, al contrario delle parole -, è una suc­cessione di momenti isolati e raggrumati intorno a un'idea, un desiderio o una im­magine. Le vicende de La signora Dalloway durano dodici ore e una vita intera, Orlando copre tre secoli e denuda due ge­neri - maschio e femmina - Tra un atto e l'altro c'è lo spazio di pochi giorni, il se­condo dei tre capitoli di Gita al faro, è inti­tolato «il tempo passa», ma è il presente.
In Time, Tense, Weather (Tempora, Ana­basi, 1993), Ginevra Bompiani si chiede che cosa significa che un romanzo abbia per tema il tempo, «Il tempo non si può dire. Si può dire l'ora, o il tempo atmosfe­rico (weather).
Il tempo (tense) corre nelle nostre parole. Parlare del tempo (time) si­gnifica parlare di ciò che gli appartiene: dell'oggetto perduto, nascosto dal tem­po» (G. Bompiani, Tempora, Anabasi, 1993).

Ecco, a leggere Hammond e i suoi scientifici causa-effetto che (ci) rendono diligenti e fiduciosi, pare che il tempo na­sconda, ma, in effetti, non rubi.

Claudia Hammond, II mistero della percezione del tempo, Einaudi, Torino, traduzione di Alessandra Montrucchio, pagg.324, € 18,50

da Il sole 24 ore, domenica 2 giugno 2013