“Domani si fa credito” si poteva leggere in alcuni negozi, tempo
fa. Oggi invece sui giornali leggiamo “domani comincia la crescita”
.
Sarà, ma non ho ancora capito, dopo anni di recessione, che cosa
significhi questa “crescita”.
Ad esempio, con i mitici 80 euro, se non avessi da pagare tasse e
bollette varie, potrei comperare qualcosa. Già, cosa? Basta
guardarsi intorno e trovare centri commerciali pieni di vestitini
made in China, scarpe made in Korea, pentole made in Taiwan, tablet
made in Singapore, auto, frigoriferi, lavatrici. Fino ad arrivare a
quei negozi dove trovi tutto ad un euro. Tutte cose prodotte non in
Italia, neppure in Europa.
Quindi, se spendo gli 80
euro, cosa faccio crescere? Il commercio? Eh già, peccato che il
commercio tradizionale trovi una forte concorrenza nell'e-commerce,
dove i negozi non esistono, ed esistono magazzinieri/schiavi in
attesa di essere totalmente sostituiti da robot. Quindi nei negozi si
va a provare la merce. E poi la si compera in internet.
Stabiliamo allora cosa significa “crescita”. Credo che un Paese
come l'Italia possa crescere valorizzando quello che ha di non
riproducibile: la bellezza del suo paesaggio, la sua cultura, i suoi
monumenti, le città a misura d'uomo. Tutto questo deve essere difeso
e valorizzato, investendo nella tutela del paesaggio, nei depuratori,
nel sistema museale, nella tutela delle coltivazioni e dei cibi
tipici, con una concezione del turismo che non sia quella dello
spennare il turista, ma di spingerlo a tornare nel Paese più bello
del mondo.
Ma un Paese non può vivere di solo turismo: bisogna anche produrre,
esportare ed essere competitivi. E qui arriva il punto. Le attuali
regole sui mercati mondiali mancano di un fattore fondamentale: la
certificazione della “produzione etica” di un bene.
Ovvero: se in un Paese straniero si produce una maglietta a 1 euro,
mentre in Italia (o altro Paese occidentale) il costo di produzione è
10, la ragione è che in quel Paese straniero – che oggi potrebbe
essere in Asia, domani in Africa - non vengono rispettati i diritti
sindacali, lo smaltimento dei rifiuti viene effettuato in maniera
illegale, le materie prime vengono reperite in modi di dubbia
legalità, i brevetti vengono violati.
Ma qual è la ricetta che gli “economisti” nostrani stanno
cercando di fare ingurgitare alle popolazioni europee? Per essere
competitivi – dicono – bisogna ridurre i diritti sindacali,
congelare le paghe, rendere “elastiche” le procedure per lo
smaltimento rifiuti, ecc.
E in parallelo predicano su una “spending review” - la riduzione
della spesa pubblica – che più che un progetto rivoluzionario
dovrebbe essere pratica quotidiana.
A mio avviso invece la ricetta per la “crescita” e per
combattere la concorrenza sleale è un'altra: la certificazione
internazionale dell'eticità
nella produzione del bene.
Mi spiego: tutte le merci in commercio dovrebbero avere una
“certificazione internazionale di eticità” attestante che quel
bene è prodotto rispettando l'ambiente e i diritti sindacali,
ecc.
E quindi un bene dovrebbe poter essere venduto solo se rispondente a
caratteristiche produttive “etiche”.
In tal modo la concorrenza sarebbe sulla qualità del bene, non sulle
pratiche sleali di chi schiavizza i lavoratori e smaltisce i rifiuti
nei fiumi.
Utopia? Forse. Ma in quale altro modo contrastare la mostruosa
disparità di prezzo delle merci? Diminuendo le nostre paghe, i
nostri diritti, la nostra salute? Ripeto la domanda: cosa significa
realmente, per i nostri politici e i loro consiglieri, “crescita”?