lunedì 6 ottobre 2014

eticità nella produzione dei beni

“Domani si fa credito” si poteva leggere in alcuni negozi, tempo fa. Oggi invece sui giornali leggiamo “domani comincia la crescita” .
Sarà, ma non ho ancora capito, dopo anni di recessione, che cosa significhi questa “crescita”.

Ad esempio, con i mitici 80 euro, se non avessi da pagare tasse e bollette varie, potrei comperare qualcosa. Già, cosa? Basta guardarsi intorno e trovare centri commerciali pieni di vestitini made in China, scarpe made in Korea, pentole made in Taiwan, tablet made in Singapore, auto, frigoriferi, lavatrici. Fino ad arrivare a quei negozi dove trovi tutto ad un euro. Tutte cose prodotte non in Italia, neppure in Europa.
Quindi, se spendo gli 80 euro, cosa faccio crescere? Il commercio? Eh già, peccato che il commercio tradizionale trovi una forte concorrenza nell'e-commerce, dove i negozi non esistono, ed esistono magazzinieri/schiavi in attesa di essere totalmente sostituiti da robot. Quindi nei negozi si va a provare la merce. E poi la si compera in internet.
Stabiliamo allora cosa significa “crescita”. Credo che un Paese come l'Italia possa crescere valorizzando quello che ha di non riproducibile: la bellezza del suo paesaggio, la sua cultura, i suoi monumenti, le città a misura d'uomo. Tutto questo deve essere difeso e valorizzato, investendo nella tutela del paesaggio, nei depuratori, nel sistema museale, nella tutela delle coltivazioni e dei cibi tipici, con una concezione del turismo che non sia quella dello spennare il turista, ma di spingerlo a tornare nel Paese più bello del mondo.
Ma un Paese non può vivere di solo turismo: bisogna anche produrre, esportare ed essere competitivi. E qui arriva il punto. Le attuali regole sui mercati mondiali mancano di un fattore fondamentale: la certificazione della “produzione etica” di un bene.
Ovvero: se in un Paese straniero si produce una maglietta a 1 euro, mentre in Italia (o altro Paese occidentale) il costo di produzione è 10, la ragione è che in quel Paese straniero – che oggi potrebbe essere in Asia, domani in Africa - non vengono rispettati i diritti sindacali, lo smaltimento dei rifiuti viene effettuato in maniera illegale, le materie prime vengono reperite in modi di dubbia legalità, i brevetti vengono violati.
Ma qual è la ricetta che gli “economisti” nostrani stanno cercando di fare ingurgitare alle popolazioni europee? Per essere competitivi – dicono – bisogna ridurre i diritti sindacali, congelare le paghe, rendere “elastiche” le procedure per lo smaltimento rifiuti, ecc.
E in parallelo predicano su una “spending review” - la riduzione della spesa pubblica – che più che un progetto rivoluzionario dovrebbe essere pratica quotidiana.
A mio avviso invece la ricetta per la “crescita” e per combattere la concorrenza sleale è un'altra: la certificazione internazionale dell'eticità nella produzione del bene.
Mi spiego: tutte le merci in commercio dovrebbero avere una “certificazione internazionale di eticità” attestante che quel bene è prodotto rispettando l'ambiente e i diritti sindacali, ecc.
E quindi un bene dovrebbe poter essere venduto solo se rispondente a caratteristiche produttive “etiche”.
In tal modo la concorrenza sarebbe sulla qualità del bene, non sulle pratiche sleali di chi schiavizza i lavoratori e smaltisce i rifiuti nei fiumi.
Utopia? Forse. Ma in quale altro modo contrastare la mostruosa disparità di prezzo delle merci? Diminuendo le nostre paghe, i nostri diritti, la nostra salute? Ripeto la domanda: cosa significa realmente, per i nostri politici e i loro consiglieri, “crescita”?