Spinoza, filosofo stramaledetto
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Spinoza, filosofo
stramaledetto
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Steven Nadler racconta come nacque il «Trattato teologico-politico», un capolavoro aspramente condannato da tutte le religioni
Steven Nadler racconta come nacque il «Trattato teologico-politico», un capolavoro aspramente condannato da tutte le religioni
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di Massimo Bucciantini
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Steven Nadler fa parte di quella esigua pattuglia di
storici che scrive in modo mirabile. Per questo ogni volta che esce
un suo libro sei sicuro che ogni pagina che leggerai sarà musica per
le tue orecchie e piacere per la tua mente. E Un
libro forgiato all’inferno non fa eccezione. Ti viene
subito voglia di condividerlo con gli amici che hanno ancora viva la
passione per la storia. Anzi, direi di più: di regalarlo a coloro
che non sanno neppure chi è Spinoza, tanto da scambiarlo per il nome
di un ortaggio nuovo, «tipo broccoli o melanzane», come con ironia
esclama Alice Munroe in Chi ti credi di essere? Perché
Nadler è si uno dei maggiori studiosi-specialisti di Spinoza, ma al
tempo stesso è anche un gran divulgatore, e lo è non tanto perché
è un semplificatore (vizio molto italiano quello di identificare la
divulgazione con la semplificazione), quanto perché possiede il dono
raro di saper raccontare a tutti, con il massimo del rigore e della
precisione, la trama di una vicenda complicata come questa: la storia
della nascita di uno dei libri più maledetti che siano mai stati
scritti.
Il Trattato
teologico-politico è una delle prime grandi opere in favore
della libertà di pensiero e di culto nello stato moderno, e quindi è
un libro sul Potere. «Spinoza smonta profezie e miracoli, denuncia
le credenze superstiziose che puntellano le religioni, sostiene che
liturgie e cerimonie nulla hanno a che vedere con l’autentica
pietà, sostenendo perfino – forse con la più audace delle sue
tesi -che la Bibbia, vale a dire lo strumento più potente brandito
dalle gerarchie religiose per esercitare il controllo sulle loro
greggi, non è altro che un frutto dell’arte letteraria umana,
composto nel corso dei secoli da più autori, spesso in
contraddizione tra loro». Mentre l’Etica è scritta
soprattutto per i filosofi, il Trattato, benché in latino,
si rivolge a un pubblico più vasto. Ai teologi di ogni razza e ai
filosofi di ogni scuola, certo, ma anche alle élites patrizie e
liberali che governavano le città delle varie province d’Olanda,
ai figli di facoltose famiglie di mercanti e imprenditori che spesso
avevano manifestato insofferenza per l’ingerenza della Chiesa negli
affari pubblici, alle piccole ma combattive comunità di chrétiens
sans Église che Spinoza aveva conosciuto ad Amsterdam e che, da
persone profondamente devote quali erano, in più occasioni avevano
contestato le gerarchie della Chiesa riformata olandese.
È un’opera appassionata, a tratti rabbiosa, dice
Nadler, in cui fin dalle prime pagine sulla religione come
superstizione istituzionalizzatasi percepisce quanto in Spinoza
bruciasse ancora, come fuoco vivo impresso sulla pelle, l’espulsione
dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam. «Che egli sia
maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia
e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando
rientra |…]. Nessuno comunichi con lui, neppure per iscritto, né
gli accordi alcun favore, né stia con lui sotto lo stesso tetto, né
si avvicini a lui più di quattro cubiti; né legga alcun
trattato composto o scritto da lui». Era il 27 luglio 1656,
quando queste parole furono solennemente pronunciate in ebraico
nella sinagoga dell’Houtgracht di fronte a una folla di fedeli. Non
sappiamo quali «opinioni o azioni malvagie» fossero attribuite al
ventitreenne Spinoza, visto che ancora non aveva pubblicato nulla.
Non è escluso però, questa almeno la tesi di Nadler, che già
allora alcune sue idee come «Dio esiste solo in un senso
filosofico», «la legge di Mosè non è vera», «l’anima non è
immortale», le andasse discutendo all’interno della comunità
ebraica. È certo comunque che si trattò di uno dei provvedimenti di
espulsione più severi pronunciati in quel periodo, che peraltro non
fu mai revocato. Il castigo di Dio doveva pesare perennemente sulla
testa del giovane Baruch. Ed è davvero difficile immaginare, come
sostiene Jean-Maximilien Lucas, il primo biografo del filosofo, che
quella scomunica venne da lui accolta senza battere
ciglio.
Nell’estate del 1665 Spinoza abbandonava la stesura dell’Etica e si buttava a capofitto in questa temeraria impresa (neppure l’ “empio” Hobbes sarebbe arrivato a tanto). Che però non è un progetto altro rispetto all’opera che sarà pubblicata postuma, nel 1677, pochi mesi dopo la sua morte. Dedicati entrambi alla ricerca della libertà, l’Etica e il Trattato sono tra loro complementari. Nella prima, il problema della «liberazione da ogni schiavitù, psicologica, politica o religiosa» è affrontato dal punto di vista metafisico e morale-, nel secondo da una prospettiva teologica, politica e storica. Come osserva Nadler, «l’aspirazione di Spinoza è che una politica fatta di speranza (nella ricompensa eterna) e di paura (del castigo eterno) venga sostituita da una politica della ragione, della virtù, della libertà e del comportamento etico». Questo sarà il progetto della sua vita, a cui dedicherà tutte le sue forze e di cui l’Etica e il Trattato saranno le fondamenta e gli archi portanti: parti comunicanti di un unico straordinario libro. In una lettera del settembre 1665 a Henry Oldenburg, il segretario della Royal Society che quattro anni prima si era recato espressamente in un villaggio vicino a Leida per conoscerlo, Spinoza indicava le ragioni della sua scelta: quella di lavorare a «un trattato intorno al mio modo d’intendere la Scrittura». E tra le motivazioni trovava posto anche quella di replicare a quanti, ed erano in molti, lo dipingevano come un ateo impenitente che avversava tutte le religioni. Il libro uscì ad Amsterdam in forma anonima nel gennaio del 1670. Sul frontespizio, come luogo di pubblicazione era indicato quello falso di Amburgo, e anche il nome dell’editore non risultava essere Jan Rieuwertsz, già noto alle autorità per la stampa di opere eterodosse e radicali, bensì quello di «Henricus Kunraht», in omaggio all’alchimista e rosacrociano tedesco vissuto alla fine del Cinquecento, i cui testi si continuavano ancora a leggere (e su cui Frances Amelia Yates ci ha lasciato pagine indimenticabili). Ma non ci volle molto a scoprire la vera identità dell’autore. Nel giro di poco più di un anno, tutto fu chiaro. Leibniz, che aveva acquistato una copia del libro e che lo definì «intollerabilmente licenzioso», nella primavera del 1671 già sapeva da chi era stato scritto. «Un ebreo di nome Spinoza, recentemente scomunicato a causa delle sue mostruose opinioni», lo informava Johann Georg Grevius, filosofo cartesiano e insegnante a Utrecht. Così, nell’ultimo emozionante capitolo Nadler insegue ogni traccia di questa scoperta, riportando i giudizi di teologi e filosofi, accanto alle risoluzioni di condanna emesse dalle gerarchie religiose e dalle diverse magistrature olandesi, fino a narrare gli sforzi compiuti dalle autorità prima ecclesiastiche e poi civili per mettere sotto sequestro l’opera. «Un libro osceno e blasfemo, quale, a nostra conoscenza, il mondo non ha mai conosciuto», sentenziava nel luglio del 1670 il sinodo provinciale dell’Olanda meridionale. « Forgiato all’inferno dall’ebreo apostata a quattro mani con il diavolo, e pubblicato con la consapevolezza e la connivenza di M. Jan», annotava un anonimo calvinista in un catalogo di libri appartenuti a Jan, cioè a Johan de Witt, il principale artefice della politica liberale degli Stati d’Olanda, ucciso barbaramente a due anni dall’uscita del Trattato.
Nell’estate del 1665 Spinoza abbandonava la stesura dell’Etica e si buttava a capofitto in questa temeraria impresa (neppure l’ “empio” Hobbes sarebbe arrivato a tanto). Che però non è un progetto altro rispetto all’opera che sarà pubblicata postuma, nel 1677, pochi mesi dopo la sua morte. Dedicati entrambi alla ricerca della libertà, l’Etica e il Trattato sono tra loro complementari. Nella prima, il problema della «liberazione da ogni schiavitù, psicologica, politica o religiosa» è affrontato dal punto di vista metafisico e morale-, nel secondo da una prospettiva teologica, politica e storica. Come osserva Nadler, «l’aspirazione di Spinoza è che una politica fatta di speranza (nella ricompensa eterna) e di paura (del castigo eterno) venga sostituita da una politica della ragione, della virtù, della libertà e del comportamento etico». Questo sarà il progetto della sua vita, a cui dedicherà tutte le sue forze e di cui l’Etica e il Trattato saranno le fondamenta e gli archi portanti: parti comunicanti di un unico straordinario libro. In una lettera del settembre 1665 a Henry Oldenburg, il segretario della Royal Society che quattro anni prima si era recato espressamente in un villaggio vicino a Leida per conoscerlo, Spinoza indicava le ragioni della sua scelta: quella di lavorare a «un trattato intorno al mio modo d’intendere la Scrittura». E tra le motivazioni trovava posto anche quella di replicare a quanti, ed erano in molti, lo dipingevano come un ateo impenitente che avversava tutte le religioni. Il libro uscì ad Amsterdam in forma anonima nel gennaio del 1670. Sul frontespizio, come luogo di pubblicazione era indicato quello falso di Amburgo, e anche il nome dell’editore non risultava essere Jan Rieuwertsz, già noto alle autorità per la stampa di opere eterodosse e radicali, bensì quello di «Henricus Kunraht», in omaggio all’alchimista e rosacrociano tedesco vissuto alla fine del Cinquecento, i cui testi si continuavano ancora a leggere (e su cui Frances Amelia Yates ci ha lasciato pagine indimenticabili). Ma non ci volle molto a scoprire la vera identità dell’autore. Nel giro di poco più di un anno, tutto fu chiaro. Leibniz, che aveva acquistato una copia del libro e che lo definì «intollerabilmente licenzioso», nella primavera del 1671 già sapeva da chi era stato scritto. «Un ebreo di nome Spinoza, recentemente scomunicato a causa delle sue mostruose opinioni», lo informava Johann Georg Grevius, filosofo cartesiano e insegnante a Utrecht. Così, nell’ultimo emozionante capitolo Nadler insegue ogni traccia di questa scoperta, riportando i giudizi di teologi e filosofi, accanto alle risoluzioni di condanna emesse dalle gerarchie religiose e dalle diverse magistrature olandesi, fino a narrare gli sforzi compiuti dalle autorità prima ecclesiastiche e poi civili per mettere sotto sequestro l’opera. «Un libro osceno e blasfemo, quale, a nostra conoscenza, il mondo non ha mai conosciuto», sentenziava nel luglio del 1670 il sinodo provinciale dell’Olanda meridionale. « Forgiato all’inferno dall’ebreo apostata a quattro mani con il diavolo, e pubblicato con la consapevolezza e la connivenza di M. Jan», annotava un anonimo calvinista in un catalogo di libri appartenuti a Jan, cioè a Johan de Witt, il principale artefice della politica liberale degli Stati d’Olanda, ucciso barbaramente a due anni dall’uscita del Trattato.
Quel libro “infernale” praticamente non fu mai
messo in vendita, né circolò liberamente. Neppure negli anni prima
del luglio 1674, quando fu bandito per decreto dall’intero
territorio della Repubblica delle Sette Province Unite. Cinque anni
più tardi sarà la volta della Chiesa cattolica a riconoscerne la
pericolosità inserendolo, in un sol colpo insieme all’Etica
e alle Lettere, nell’Indice dei libri proibiti. Su
Spinoza, nessun distinguo, nessuna controversia: cattolici,
anglicani, calvinisti, luterani, ebrei riscoprivano così di essere
un’unica e armoniosa famiglia. A tutti, con la consueta serenità,
lui rispondeva così: «Forse che si spoglia di ogni religione colui
che afferma doversi riconoscere in Dio il sommo bene e doversi come
tale amare con libero animo? E che in questo solo consiste la somma
della nostra felicità e della nostra libertà?».
Steven Nadler, Un
libro forgiato all’inferno.
Lo scandaloso «Trattato» di Spinoza e la nascita della
secolarizzazione, traduzione di Luigi Giacone, Einaudi, Torino, pagg.
XVIII, 266, € 30,00
Il Sole 24 Ore –
Domenica 2 giugno 2013