IL
TEMPO CHE SCORRE
Non
è
certo questione di orologi
Alterare
ricordi, pensare il futuro, deformare il tempo è
una qualità essenziale dell'uomo. Con conseguenze etico-politiche,
narrative, sentimentali. Un saggio di Claudia Hammond
di
Chiara
Valerio
■
In
media pensiamo al futuro 59 volte al giorno, vale adire una volta
ogni 16 minuti nelle ore di veglia. Le ricerche in questo campo hanno
portato a una scoperta sconcertante: contemplare il futuro
potrebbe essere la posizione di default della nostra mente.
Il
mistero
della percezione del tempo di
Claudia Hammond (Einaudi, 2013) è una scrittura di intenzione
divulgativa, e piglio documentativo saggistico, sulla percezione del
tempo. Su come, più specificamente, il tempo per gli esseri
umani non sia faccenda di orologi ma caratteristica
precipua della memoria e della possibilità
che gli umani hanno di «ricordare il futuro».
Non
gli animali da compagnia, non i delfini, non certe specie di
uccelli che pure sanno che i vermi morti si conservano assai peggio
delle ghiande e dunque, in carestia, è meglio stipare le seconde.
Hammond, attraverso esperienze raccolte e analizzate nella
letteratura medica, e considerazioni di natura psicologia, con
descrizioni di esperimenti su gruppi di individui di età ed
estrazioni
sociali differenti, campioni ben congegnati,
traccia le connessioni tra memoria e immaginazione, descrive persone
"policrone" e persone "monocrone", spiega come il
tempo si deformi sotto la felicità,
l'infelicità, le vacanze, il modo di lavorare, misura, in
breve, con ipotesi e teorie scientifiche, l'esperienza comunissima
della variabilità del tempo.
Anche
se «non
esiste un organo che percepisca i secondi, i minuti o le ore che
passano», è impossibile smettere di avvertire il tempo, ognuno
a modo proprio - a meno di non essere un individuo che, per errore,
sia stato privato dell'ippocampo, come Henry che «a ventisette
anni era stato sottoposto a un'operazione al cervello per scongiurare
le numerose crisi epilettiche» e che, pur senza crisi
epilettiche, ha vissuto «due terzi della vita asserragliato in
un eterno presente». Hammond, prende l'abbrivo dal particolare
concreto di Henry, passa attraverso l'amnesia e lega la mancanza del
senso, del passato all'impossibilità di immaginare il futuro.
La
fisiologia del ricordo, così come Hammond la illustra, sembra avere
tre conseguenze immediate.
Una
di
tipo etico-politico.
Se chi non possiede il passato, non ha accesso neppure al
futuro, allora chi non conosce il passato non può costruire il
futuro e dunque l'unica soluzione dialettica a disposizione è
l'Apocalisse che, in effetti, la fine del tempo. I
tribuni,
che arringano le folle coi gesti esortativi dell'animatore e che, coi
toni accessi del predicatore, si vantano di non avere passato
politico alcuno, non
possono progettare politicamente nessun futuro.
Una
conseguenza è,
in fondo, di natura
sentimentale.
Se «pensare al futuro è associato a emozioni più forti che
riflettere sul passato», allora è giusto che la giovinezza sia
irresistibile. Se, pur utilizzando le medesime aree del cervello,
«immaginare il domani richiede più energia cerebrale che
ricordare il passato», allora è giusto affidarsi alla giovinezza
per concepire gli spazi a venire, qualsiasi natura essi abbiano.
L'ultima
conseguenza
è di tipo narrativo.
Scrive Hammond, «I
nostri
ricordi sono flessibili. Non ci entrano in testa formati per poi
rimanere intatti nell'archivio mentale, in attesa che li richiamiamo.
Decenni di prove dimostrano che alteriamo i ricordi mentre li
depositiamo, che li rialteriamo se vengono alla luce nuove
informazioni e che poi, se ci torna utile per dare un segno
agli eventi, li ri-rialteriamo quando li richiamiamo».
Gli
esseri umani dunque romanzano. Sempre, continuamente,
vivono di proliferazioni narrative, di versioni di fatti che sono, a
loro volta, già versioni. I
fatti
sono versioni concentriche o eccentriche, girano intorno
all'inevitabilità della specie umana di deformare il
tempo.
È
per questo motivo, fisiologico, costruttivo - «viaggiare nel
tempo ci rende umani» - che la letteratura è catalogo
affidabile e quaderno a cancelli per adattare il tempo ai nostri
bisogni.
Lo
fa anche Hammond nell'ultima sezione del testo «Cambiare
il proprio rapporto con il tempo», ma è un vero e proprio
eserciziario.
In
«Giochi di specchi e fuochi fatui» (Il
tempo grande scultore, Einaudi,
1993), Yourcenar osserva «Dire che memoria e immaginazione si
nutrono l'una dell'altra, significa restare nei dati
generali del problema. Se ricordo vi è
stato, se queste informazioni si trovano in un documento di archivio,
bisognerebbe sapere perché mi si sono immediatamente
imposte come nozioni (...) se vi è stata affabulazione, bisognerebbe
spiegare perché ho costruito questi miraggi e proprio questi. È
strano serbare nella memoria o nell'immaginazione,
l'equivalente del calco di una realtà che forse non è mai
avvenuta».
Scrivere
significa alterare il tempo, e viceversa, cambiare la
collocazione del tempo nello spazio, e a ritroso. «Non
abbiamo un rapporto lineare col tempo». Le alterazioni del
tempo sono al centro dell'opera di Virginia Woolf, il tempo dei suol
personaggi non ha cronologia, muta sostanza, grana e battito
secondo le assenze future dell'attesa e le assenze passate
del corpo. Il tempo nei romanzi di Woolf non è continuo, non scorre
- ristagna, al contrario delle parole -, è una successione
di momenti isolati e raggrumati intorno a un'idea, un desiderio o una
immagine. Le vicende de La
signora Dalloway durano
dodici ore e una vita intera, Orlando
copre
tre secoli e denuda due generi - maschio e femmina - Tra
un atto e l'altro c'è
lo spazio di pochi giorni, il secondo dei tre capitoli di Gita
al faro, è
intitolato «il tempo passa», ma è il presente.
In
Time,
Tense,
Weather (Tempora,
Anabasi, 1993), Ginevra Bompiani si chiede che cosa significa
che un romanzo abbia per tema il tempo, «Il
tempo non si può dire. Si può dire l'ora, o
il tempo atmosferico (weather).
Il
tempo (tense)
corre
nelle nostre parole. Parlare del tempo (time)
significa parlare di ciò che gli appartiene: dell'oggetto
perduto, nascosto dal tempo» (G. Bompiani, Tempora, Anabasi,
1993).
Ecco,
a leggere Hammond e i suoi scientifici causa-effetto che (ci) rendono
diligenti e fiduciosi, pare che il tempo nasconda, ma, in
effetti, non rubi.
Claudia
Hammond, II
mistero
della percezione del tempo, Einaudi, Torino, traduzione di Alessandra
Montrucchio, pagg.324, € 18,50
da Il sole 24 ore, domenica 2 giugno 2013