lunedì 9 settembre 2013
Italiani sull'orlo di una guerra civile
La pacificazione, le larghe intese....cose già viste e già dimenticate. Un ripasso è opportuno....
GG
Italiani sull'orlo di una guerra civile
Il 5 agosto 1922 il Governo Facta lanciava un appello alla pacificazione e alla coesione. Ma la scongiurata conflittualità sociale, lungi dall'essere arginata, aprì la strada al fascismo
di Emilio Gentile
Era il 5 agosto 1922, quando il Governo presieduto da Luigi Facta rivolse agli italiani un appello per la pacificazione, sperando di porre fine a una violentissima lotta politica, degenerata in guerra civile, che stava minando l'esistenza dello Stato liberale. Il governo si diceva fiducioso che l'appello sarebbe stata accolto dagli italiani per amor di patria, ritenendo impossibile che essi «non sentano lo strazio che ad essa viene dalle condizioni così turbate della vita pubblica e che vi rimangano indifferenti».
Novantuno anni dopo, nell'estate del 2013, si è udito nuovamente in Italia l'appello alla pacificazione rivolto agli italiani dal Governo e del capo dello Stato, mentre la democrazia repubblicana è investita da una crisi istituzionale senza precedenti, dopo un ventennio di aspri scontri politici, che hanno visto opposti schieramenti di italiani combattersi come nemici inconciliabili. Nello stesso tempo, è risuonata anche la minaccia di una guerra civile, che avverrà se non sarà garantita la cosiddetta "agibilità politica" al capo di un partito, che ha dominato la politica italiana negli ultimi due decenni, e che ora, in seguito a una condanna definitiva per frode fiscale, secondo le leggi vigenti dovrebbe decadere da senatore ed essere interdetto dai pubblici uffici. L'appello alla pacificazione nell'estate del 2013 conferma la gravità della crisi che travaglia lo Stato italiano, e lo conferma soprattutto la minaccia della guerra civile. Tale minaccia può suonare come un inconsulto espediente retorico, ma è opportuno ricordare che nei nove decenni trascorsi fra l'appello alla pacificazione nell'estate del 1922 e l'analogo appello nell'estate del 2013, la guerra civile in Italia non è stata soltanto un espediente retorico. In alcuni momenti della storia italiana, alla violenza della retorica è seguita la violenza delle armi.
"Guerra civile ideologica" è stata definita dagli storici la virulenta contrapposizione fra comunisti e anticomunisti in Italia negli anni della guerra fredda. Momenti di guerra civile armata sono stati gli atti di terrorismo che hanno scandito il decennio fra il 1970 e il 1980, la "notte della repubblica". Linguaggio di guerra civile usano coloro che vogliono di-sfare lo Stato nazionale e la repubblica unitaria. La stessa nascita della repubblica è avvenuta dopo la spietata guerra civile fra fascisti e antifascisti, esplosa nell'autunno dei 1943, quando, frantumata l'unità nazionale, due Stati italiani si combatterono a morte come nemici fino al 25 aprile 1945.
La guerra civile esplosa nel 1943 era iniziata venti anni prima. Quando, nell'estate del 1922, il governo fece appello alla pacificazione, l'Italia viveva da quasi quattro anni in
una situazione di guerra civile fra i fautori di una rivoluzione comunista e i fautori di una rivoluzione nazionalista, accomunati dall'avversione per lo Stato liberale. Il quale,per parte sua, si era dimostrato impotente di fronte al dilagare della violenza politica. Nel momento il cui il Governo invocò la pacificazione, nell'agosto 1922, i fautori della rivoluzione nazionalista, militarmente organizzati nel partito fascista, avevano ormai conseguito la vittoria, dopo avere sconfitto con la violenza armata dello squadrismo i partiti avversari, combattendoli come nemici della nazione, in una guerra civile che i fascisti stessi avevano dichiarato nel 1920.
I fascisti si consideravano l'unico partito che incarnava la volontà della nazione, i soli veri rappresentanti del popolo italiano: come tali pretendevano di essere al di sopra della legge, del Governo, del Parlamento e dello Stato costituzionale. Nell'estate del 1922, il partito fascista dominava con metodi dittatoriali in molte Provincie dell'Italia settentrionale e centrale; agiva con la propria milizia armata come uno Stato nello Stato; metteva al bando i deputati avversari; imponeva le dimissioni alle amministrazioni comunali e provinciali legalmente elette; occupavate città con masse di squadristi per imporre il trasferimento di un prefetto, di un questore o di un magistrato, se cercavano di impedire la violenza fascista. L'appello alla pacificazione del 5 agosto conteneva anche un ammonimento: il Governo era deciso comunque a ristabilire l'impero della legge, essendo suo "supremo dovere di difendere lo Stato, i suoi istituti, gli interessi generali per i diritti individuali, a qualunque costo, con qualunque mezzo, inflessibilmente contro chiunque vi attenti",adottando i provvedimenti necessari per ristabilire il rispetto della legge, della vita e della proprietà Ma alle parole non seguirono i fatti. Nessun provvedimento efficace fu adottato dal Governo per impedire ai fascisti di proseguire con la violenza la marcia verso il potere, perché solo alcuni ministri, fra i quali il ministro dell'Interno Paolo Taddei e il ministro della Giustizia Giulio Alessio, erano veramente decisi a far valere nei confronti del partito fascista lo Statuto e il codice penale, che vietavano l'organizzazione di bande armate e punivano la violenza contro i cittadini e i rappresentanti dello Stato. Il 5 agosto, Alessio propose di promulgare lo stato d'assedio, che "avrebbe reso possibile lo scioglimento delle forze armate del fascismo e con esse soppresso anche lo strumento di continua ribellione, il mezzo con cui la vita dei cittadini non fascisti era abbandonata al loro delittuoso capriccio, l'arma più sicura del terrore".
Ma la maggior parte degli altri ministri, compreso il presidente del Consiglio, non accettò la proposta di Alessio, limitandosi a redigere l'appello. Essi si illudevano di convertire i fascisti al rispetto della legge, della Costituzione, del Parlamento e dello Stato liberale, promettendo loro di includerli in un Governo di coalizione nazionale, che avrebbe assicurato la stabilità e realizzato le riforme necessarie a sanare le finanze dissestate, a rinnovare l'amministrazione dello Stato, a rilanciare l'economia. Agli appelli pacificatori, il duce del fascismo replicava ricattando il Governo e agitando lo spettro della guerra civile, se il Governo avesse ostacolato la marcia fascista verso il potere, sciogliendo le sue squadre armate con l'intervento della forza legale dello Stato per restaurare l'impero della legge eguale per tutti.
Tre mesi dopo l'appello alla pacificazione, il fascismo giungeva al potere minacciando un'insurrezione armata. Per evitare una guerra civile, il re rifiutò di firmare il decreto di stato d'assedio e diede al duce l'incarico di formare il nuovo Governo. Promettendo la pacificazione, il duce formò un Governo di coalizione nazionale, che ebbe la fiducia della maggioranza parlamentare e promise di ristabilire la legalità per tutti. Ma neppure questa volta alle parole seguirono i fatti. Consenziente il duce, convinto di avere una missione nazionale che lo collocava al di sopra della legge, del Parlamento e della Costituzione dello Stato liberale, il fascismo continuò a perseguitare, imprigionare e uccidere gli antifascisti, e chiunque rifiutasse di riconoscere nel partito fascista il salvatore della patria e nel duce il capo indiscutibile della nazione. Poi, annientati tutti i partiti avversari, il duce e il partito fascista procedettero alla demolizione della democrazia parlamentare e dello Stato costituzionale. E alla fine, imposero anche la pacificazione agli italiani, sopprimendo nel conformismo totalitario la loro dignità di cittadini liberi ed eguali di fronte alla legge.
La domenica del sole24 ore, 1 settembre 2013