venerdì 26 settembre 2008

rock veli e inviti alla tolleranza

Rock, veli e inviti alla tolleranza
II libro di Sumaya Abdel Qader, milanese di origini palestinesi ci introduce al mondo degli immigrati di seconda generazione
di Paolo Branca
Ci ostiniamo a chiamarli «immigrati diseconda ge-nerazione», ma immigrati non sono affatto poiché nati qui, o arrivati in Italia a soli pochi mesi di vita. Se il colore della pelle o un determinato abbigliamento ce li fanno percepire come stranieri, conoscendoli più da vicino potremmo restare sbalorditi: qualcuno ha assunto persino in-
flessioni dialettali tipiche della zona in cui vive. La cittadinanza, tuttavia, per la gran parte di loro resta un miraggio. La patria a cui appartengono, e che rimpiangono con nostalgia durante le vacanze passate nei paesi d'origine, si rivela spesso una madre distratta e pasticciona, com'è del resto anche verso tanti suoi figli doc. Poco importa che abbiano ormai quasi 30 anni, si siano già sposati e abbiano dei figli, che magari fre-
quentano la scuola delle suore.
Molti di loro, musulmani, non , hanno neppur chiesto l'esonero ] dall'ora di religione e hanno frequentato gli oratori, per fare i compiti o giocare a pallone. Hanno compagni e amici di tutte le fedi, anche laici, persino gay...
Rompono il digiuno di Ramadan con la pizza e si siedono al tavolo della trattoria per la "cena di classe" senza badare che vi sia una bottiglia di birra o che l'amica del cuore porti la minigonna, il piercing all'ombelico o sia tatuata come un galeotto.
Osservare precetti e usanze della religione d'origine comporta per loro un continuo esame d'ammissione, devono dare spiegazioni, darsi il coraggio e la pazienza per rispondere sempre alle stesse domande, farsene una ragione. Un percorso di continue mediazioni e negoziazioni, sia coi genitori sia con tutti gli altri, che li fa maturare anzitempo. Hanno le carte in regola per dare a questo Paese, che è il loro, uno straordinario contributo, anzitutto svecchiando e dinamizzando le leadership inadeguate che controllano le comunità a cui appartengono da prima che loro nascessero, ghettizzate o almeno vittimiste, poco inclini a un'integrazione che vedono ancora con sospetto, mentre per molti giovani è già un fatto compiuto. A loro i media riservano assai poca attenzione, attardandosi spesso su vecchi tromboni che ripetono sempre le stesse note.
L'autrice di queste pagine appartiene a un centro islamico milanese che ha, rispetto ad altri, una composizione e una direzione molto più variegata, che non ha caso ha visto anche formarsi nel tempo un gruppo giovanile promiscuo vivace e dinamico, che collabora con la parrocchia e le istituzioni del quartiere. Ha partecipato personalmente (lei, di origine palestinese) lo scorso anno alla cerimonia che, in stazione Centrale, commemora la partenza dei treni per Auschwitz portando la sua solidarietà alla comunità ebraica milanese (l'anno precedente era stato suo marito, di origini siriane). Probabilmente non sarà questa comunità ad avere la precedenza nell'ottenere uh luogo di culto riconosciuto. Un Paese nel quale troppo spesso finiscono per avere maggior visibilità, e gli immeritati vantaggi che ne conseguono, i più furbi o comunque non certo i migliori ha ben poco da sperare nel proprio futuro. Eppure, da queste pagine emerge un affetto sincero, messo a dura prova ma indomabile, per qualcosa a cui appartieni comunque, come la famiglia che ti ha cresciuto, dove non mancheranno di sicuro parenti anche antipatici, ma che è quella che ti è toccata in sorte e a cui sei indissolubilmente legato.
O Sumaya Abdel Qader, «Porto il velo, adoro i Queen. Nuove italiane crescono», Sonzogno, Milano, pagg. 180, € 14,00.