Avevo visto la danza dei dervisci molti anni fa nella chiesa del Carmine a Brescia. Bellissima, anche se erano evidenti i limiti dell'esecuzione solo "spettacolare" di cui si lamenta mons. Ravasi.
I dervisci
Flautate vertigini mistiche
Alberto F. Ambrosio ci guida tra i segreti racchiusi nel semâ, la danza mistica del sufismo carica di simboli
di Gianfranco Ravasi
Flautate vertigini mistiche
Alberto F. Ambrosio ci guida tra i segreti racchiusi nel semâ, la danza mistica del sufismo carica di simboli
di Gianfranco Ravasi
«Amore nelle mie vene e nella mia pelle
scorre come il sangue. Esso mi ha svuotato e mi ha riempito dell’Amato.
L’Amato ha invaso ogni particella del mio essere. Di me non resta che il
nome: tutto il resto è Lui». Così cantava il grande maestro dei
dervisci (termine persiano, dar wish, che designa il mendicante sia
materiale sia spirituale che bussa alla porta della Verità) Rumi,
contemporaneo di Dante, autore di un immenso ed emozionante poema, il Mathnaví di
25.600 028.000 versi doppi (tradotto in italiano da Nûr-Carla Cerati
Mandel e Gabriele Mandel Khan presso Bompiani nel 2006).
Il proemio di
quell’opera è scandito dall’indimenticabile canto del flauto di canna
(ney) che accompagna, tra l’altro, il semâ, la danza mistica che ha reso
celebri i dervisci in tutto il mondo. Il flauto, che pure vive
un’esperienza esaltante come strumento di armonia musicale capace di
emozionare le creature umane, sente una lacerazione intima insanabile: è
la nostalgia del canneto nel quale era un essere vivente. E la metafora
subito si scioglie perché s’intuisce l’anelito dell’anima umana,
prigioniera nel corpo e nel tempo, verso la sua origine trascendente
nella quale la comunione con l’uno, Dio, era piena. Ecco perché
si chiede all’Amato di irrompere nelle vene e nelle fibre intime del
nostro corpo per trasfigurarlo, così da ritornare alla patria perduta
dell’intimità divina. Si comprende facilmente la ragione per cui questo
movimento, che si inseriva in quello più vasto dei sufi, la corrente
mistica dell’islam, sia stato visto con sospetto dall’ortodossia
musulmana fieramente trascendentale. È curioso notare che, nella
contaminazione linguistica presente nel Mathnaví, Rumi
definisce spesso l’amore” con la parola “cristiano”, memore della
dottrina neotestamentaria dell’agápe, l’amore celebrato da Giovanni e
Paolo.
A chi vuole avviarsi lungo i percorsi
d’altura di questa esperienza, che non di rado crea vertigini, o anche
più semplicemente desidera recarsi in visita a Konya, la città della
Turchia nota come Iconio anche negli Atti degli Apostoli
(14,1-7) per il soggiorno di san Paolo, alla ricerca dei mevlevi, i
discendenti di Mevlâna Rûmî là sepolto, e della loro danza (a
Costantinopoli li cercherà anche Edmondo De Amids), possiamo consigliare
ora una guida straordinaria. La si legge quasi come un libro
d’avventura (non solo dello spirito) lungo la quale si procede come
pellegrini stupiti, che avanzano di meraviglia in meraviglia, anche
quando si descrive solo la cucina dei monasteri dervisci, chiamati
dergâh, cioè la “porta” che introduce nell’intimità ascetica. A condurci
in questi orizzonti che hanno una loro geografia, un’architettura, una
planimetria – oltre naturalmente a una loro storia che risale ai
Selgiuchidi, procede attraverso l’era ottomana e approda al colpo di
mannaia “laico” di Atatürk che invitò i conventi a trasformarsi in
fabbriche – è un domenicano che vive a Istanbul e che è uno dei massimi
studiosi del sufismo, Alberto Fabio Ambrosio.
Con lui sostiamo davanti al derviscio col
suo abbigliamento carico di segrete simbologie: ad esempio, il
suggestivo copricapo conico di feltro di color miele, il sikke, evoca la
pietra tombale, mentre la veste il sudario e il mantello nero la
trasmissione della benedizione e del potere spirituale. Ci inoltriamo
poi nel suo rigoroso noviziato che, con un maestro spirituale e un patto
di iniziazione, conduce l’aspirante a diventare membro della
confraternita, dopo un lungo ritiro di ben 1001 giorni. In quel momento
l’apprendista che si è inerpicato in questa ascesa/ascesi è pronto a
entrare nella cella che lo trasforma da novizio in dede, “anziano”. Ma
con impazienza attendiamo di assistere al semâ, la danza sacra che nel
2007 l’Unesco ha proclamato patrimonio dell’umanità. La musica
“microtonica” che l’accompagna (basata cioè su intervalli minori
rispetto a quelli del tono e semitono della nostra musica) – scrive
Ambrosio – «è il riflesso terreno delle sfere celesti, il ricordo della
brezza che soffia nel Paradiso eterno…, uno dei capisaldi della vita
spirituale che conduce all’estasi e all’unione con Dio che si realizza
nel profondo».
Infatti, il termine semâ deriva da una
radice araba (ed ebraica) che indica l’ascolto della Parola divina di
cui la musica è veicolo, mentre la danza che con essa s’intreccia si
ricama su un emozionante rituale la cui costellazione simbolica è
decifrata in queste pagine con una finissima ermeneutica. Il librarsi
dei dervisci, pur così febbrile e infiammato, segue infatti un canone
dai molteplici e spesso minimi ammiccamenti metaforici: basti solo
pensare alla caduta del mantello nero che lascia il corpo del danzatore
avvolto soltanto nel candore della veste e che diventa simbolo di
risurrezione, o al noto gesto delle braccia aperte col palmo destro
rivolto al cielo e il sinistro verso terra, segno estatico con cui il
mevlevi tende la mano al delo «in atteggiamento di accoglienza
dell’Amore da diffondere e distribuire a tutte le creature». Ma in
agguato c’è sempre il caleidoscopio della polisemia, perché con quel
gesto il derviscio forma due lettere dell’alfabeto arabo che reggono la
negazione lâ, primo termine del credo islamico: lâ ilâh illâ Allah, «Non
vi è dio fuori di Dio». La danza si trasforma, così, in professione di
fede. Mille altri segreti si scoprono proseguendo l’itinerario testuale
all’interno di questa guida, che ampio spazio riserva alla teologia
mistica sottesa sia al semâ sia all’esistenza del mevlevi. Dio è nel
cuore della sua danza, della sua preghiera, della sua spiritualità, in
una comunione assoluta che ha nello zikr uno dei suoi apici. Si tratta
di una ripetizione “in-finita” del nome divino, così da operare una
sorta di “trasfusione” di essenza tra divino e umano, una prassi mistica
che è nota anche alla tradizione cristiana orientale, soprattutto
russa, perché – affermava Rumi – «per gli innamorati la religione è
Dio». Si comprende, allora, quanto siano discutibili non solo
l’esecuzione “spettacolare” del semâ, ma anche certe infatuazioni
ocddentali per il sufismo legate solo ad aspetti estrinseci e fin
folclorici o esoterici, senza penetrare nelle profondità abissali della
sua esperienza mistica. Anche per questo il libro di p.Ambrosio è
prezioso, così come – a livello più immediato – per la nostra società
sarebbe utile declinare il celebre adagio sufi: «Mangiare poco, dormir
poco e parlare poco», ma non per una dieta, bensì per lasciare spazio al
mistero di Dio.
Alberto Fabio Ambrosio, Dervisci. Storia, antropologia, mistica, Carocci, Roma, pagg. 190, € 16,00da: Il Sole 24 ore del 19 febbraio 2012