martedì 30 dicembre 2014

auguri per un felice 2015

Alle mie affezionate lettrici e lettori, tanti auguri per un 2015 di pace e felicità.

Quest'anno i post sono meno dell'anno scorso: la ragione è che per diffondere idee, documenti e proposte "corte" che spero siano interessanti per altri e non solo per me ho spesso utilizzato Facebook, che per certi versi è più veloce e permette di contattare persone nuove. Al non blog ho riservato le cose più corpose. Ovviamente FB ha anche i suoi difetti, essendo un mare magnum nel quale si rischia di navigare, nuotare per ore fino ad affogare senza avere combinato nulla. Da parte mia, ho tolto ad esempio le notifiche dei post via email e smartphone, e i post me li vado a cercare quando mi pare. Ho oscurato dalla visione automatica anche molta gente simpatica che sì ti chiede l'amicizia, e gliela dai volentieri, per poi scoprire però che posta venti cose al giorno che vanno dalla foto del cane a quella della bistecca del vicino, oppure gira post che sono bufale pazzesche o vecchie come il cucco.
E disattivo anche le funzioni "dove sono", e non posto foto mentre  sono in vacanza (un'amica l'ha fatto, e le hanno svaligiato la casa).

Insomma, grazie a chi mi segue e a chi magari mi invia anche una email di commento!
Giorgio Gregori





Curti e le sue carte. Quale futuro per il suo archivio?

Chi era Fabio Curti? Chissà! Sicuramente una istituzione, per chi a Brescia segue i numerosissimi concerti e mostre (non è vero che a Brescia non succede niente, chi lo dice si trasferisca a New York e viva là felice e contento). Lo definivo "il professore". Mi dava l'idea di quegli insegnanti in pensione, solitari, abbandonati da tutti e che magari hanno difficoltà a tirare avanti. Le prime volte che lo vidi, decenni fa, alla inaugurazione di qualche mostra, aveva l'aria dell'"imbucato", di chi è lì per mangiarsi le tartine e rimediare la cena. Prendeva i depliant, e via per un'altra inaugurazione. Ma era anche ai concerti (senza tartine). E chi riusciva a scambiare due parole con lui, scopriva una persona molto curiosa (nel senso che era piena di curiosità, chiedeva notizie degli strumenti, come suonarli, ecc.). Ce ne sono sempre meno, di quelle persone. E rimpiango di non avere mai avuto il coraggio di parlargli, di chiedergli notizie di sè. Bello l'articolo che gli dedica Massimo Minini.


Curti e le sue carte. Quale futuro per il suo archivio?

Fabio Curti era come un fantasma. Un po' quel­l'impermeabile bianco, stile tenente Colombo che già di per sé dava un'idea di understatement, qualcu­no che "seguiva un suo pensiero senza troppo curarsi delle apparenze.
Cosa pensassero gli altri di lui non é che non gliene importasse, semplicemente era troppo occupato a rincorrere gli avvenimenti di sep­pur vago sapore culturale per porsi il problema. Guardava per terra davanti a sé mentre camminava, un po' per timidezza, un po' per la schiena, un po' per il peso del bottino; non salutava per troppa concen­trazione, sembrava non vedere. Invece vedeva tutto e ultimamente mi faceva persino dei trattenuti sorri­si...
Poi il suo incedere, con quella piega in avanti, chissà', una scoliosi, una deviazione o forse solo il peso delle carte che gentilmente, con mano (anzi manina) delicata ma determinata raccoglieva ad ogni dove.
Chissà chi era Fabio Curri, dicono un ingegne­re: se é vero, un Ingegnere anomalo, uno ammalato di cultura, di curiosità, di collezionismo spinto alla manìa. Uno che, narra la leggenda, rimase sotterrato sotto un catasta di documenti raccolti puntigliosa­mente negli anni, documenti che gli si sono ribellati, sotterrandolo. L'ho conosciuto, la prima volta, con il professor Giancarlo Piovanelli, mio insegnante di Storia dell'arte, anni fa. Vennero in galleria e restaro­no a parlare, veramente parlava solo Piovanelli, cui notoriamente non manca la parola specialmente se si parla d'arte. E mentre io e il mio ex professore ri­percorrevamo le nostre vite, lui allungava sguardi pieni di un triste ma determinato interesse verso le amate «carte». E si vedeva che le avrebbe anche man­giate pur di averle. Quel giorno gli diedi tutto quello che potevo e lui usci felice col suo sacchetto di plasti­ca bianco, anonimo, quelli dei fruttivendoli che non possono permettersi la sovrastampa personalizzata.
Quel sacchetto che sempre lo accompagnava, vuoto all'inizio del periplo, gonfio del cartaceo bottino al termine del suo «voyage au bout de la nuit». Niente a che vedere con Celine, un amico mi suggerisce piut­tosto Truffaut. lo propenderei per Monsieur Hulot e Jacques Tati, non fosse che la statura non corrispon­deva.
Sabato era in prima fila in Santa Giulia alla pre­sentazione del grande libro sulla Pinacoteca. Poco dopo non c'era più. Ma come é possibile? Ma come è possibile! E il suo archivio? Lo immagino enorme, di­sordinato, impilato in disequilibrio, non credo po­polato tanto di libri quanto piuttosto da documenti. Chissà dove abitava. Aveva una famiglia? Figli? Stavo per andare a trovarlo e capire come era fatto quel te­soro, forse una collezione importante per la cultura a Brescia. Posso chiedere agli eredi di non buttare via quelle montagne di cartacce e di farcele consultare?
Massimo Minini

Corriere della Sera, 24 dicembre 2014

mercoledì 24 dicembre 2014

Natale - La recente invenzione dei regali

E...buone feste e felice anno nuovo a tutti quelli che seguono questo non-blog!
Giorgio Gregori

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La  recente invenzione dei regali
Gianfranco Ravasi

sole 24 ore 21 dicembre 2014

So che, scrivendo questa recensione, sto compiendo un atto autolesionistico. Ma devo essere sincero, ricevendo i regali di Natale, l'unica preoccupazione che ho è quella di non smarrire o confondere i cartoncini d'auguri col nome del donatore per la corretta calibratura del ringraziamento. Il dono natalizio è, comunque, un cerimoniale che permane anche in un'epoca così secolarizzata. Sulla sua ritualità si sono sprecate le più esilaranti ironie, a partire dal riciclaggio mal riuscito (il biglietto del primo donatore dimenticato nell'involucro) e dalla reiterazione (un anno a Natale mi furono regalate otto copie dello stesso libro d'arte). Ebbene, in tempi di iperspecializzazione, c'è anche chi, come la socio-etnologa francese Martyne Perrot, si è consacrata al fenomeno "natalizio" in tutte le sue caratteristiche di antropologia culturale, escludendo però la matrice originaria autentica, quella neotestamentaria, che è pur sempre la radice di questa tradizione.
Così, ha scritto un'indagine sull'Etnologia del Natale, tradotta in italiano da Elèuthera nel 2012, si è dedicata alle Idées reçues sur Noël (2002), ha scavato Sous les images, Noël (2002), si è interrogata se mai Faut-il croire au Père Noël? (2010) e ora si consacra alla storia dell'invenzione ottocentesca del Regalo di Natale. Devo riconoscere che quest'ultimo mini-saggio è gustoso. Dall'alto delle tesi sul dono di Marcel Mauss o dalla sempre emozionante Christmas Carol di Dickens ci fa insensibilmente scivolare fino ai cataloghi pubblicitari e alle ultime leggi dello shopping natalizio da celebrare nei nuovi templi della domenica che sono i centri commerciali. Là, tra l'altro, si ha la conferma sperimentale di quanto scriveva Eric Fromm già nel 1956 nella sua indimenticata Arte di amare: «La felicità dell'uomo moderno: guardare le vetrine e comprare tutto quello che è possibile in contanti o a rate».
Proprio per questo la Perrot ha un capitolo dedicato anche al "Natale in vetrina", i cui primi modelli – con tanto di neve artificiale, stelline baluginanti, bambini vezzosi e le renne di Santa Claus – appaiono negli Stati Uniti attorno al 1880 e dilagano poi in Francia e nel resto d'Europa. A proposito di Santa Claus, che ha anch'essa il suo bel capitolo, è necessario ribadire ciò che è noto ai più. La denominazione è una deformazione derivata dall'area anglosassone del "Sankt Niklaus", il san Nicola tanto caro ai baresi e, prima di loro, ai cristiani orientali (anche Andy Warhol, memore delle sue radici bizantine, ci ha lasciato una "Santa Claus", ormai trasformata nelle vesti del popolare Babbo Natale). Al santo, infatti, la leggenda ha assegnato un gesto che persino Dante rievoca quando parla della «larghezza che fece Niccolao a le pulcelle, per condurre ad onor la giovinezza» (Purgatorio XX,31-33). A tre giovani donne, che un padre in miseria stava per votare alla prostituzione per ragioni di sopravvivenza, il santo originario di Myra in Turchia era venuto in soccorso introducendo di notte nella loro stamberga tre borse colme di monete d'oro.
Dovrebbe essere questo il senso genuino del dono natalizio, tenendo conto del vero festeggiato, Gesù Cristo, la cui nascita è segnata dalla povertà, è accompagnata dall'incubo di una strage di bambini e sfocia in una migrazione da profugo, un po' come si ripete ai nostri giorni nei viaggi dei disperati lungo le rotte del Mediterraneo. A questo Bambino il s. Nicola vero (e non tanto il mitico Babbo Natale o la fantasiosa Santa Claus) cederebbe il passo volentieri. In questa linea mi sembra suggestivo evocare un paragrafo di un articolo di Alberto Moravia. È una sorta di breve omelia natalizia "laica" che invita a spogliare il Natale dalla carta lustra dei pacchi dono.
Scriveva, infatti, l'autore della Noia: «Il Natale mi fa pensare a quelle anfore romane che ogni tanto i pescatori tirano fuori dal mare con le loro reti, tutte ricoperte di conchiglie e di incrostazioni marine che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale. Per ritrovarne il significato autentico bisognerebbe liberarlo da tutte le incrostazioni consumistiche, festaiole, abitudinarie, cerimoniose, eccetera, eccetera». Con veemenza maggiore e una carica oratoria quasi secentesca, nel 1954 Curzio Malaparte condannava la "suprema ipocrisia" di un simile Natale da strenna: «Vorrei che la notte di Natale in tutte le chiese del mondo un povero prete si levasse gridando: Via da questa culla, ipocriti, bugiardi, andate a casa vostra… Vorrei che il giorno di Natale il panettone diventasse carne dolente sotto il nostro coltello e il vino diventasse sangue e avessimo tutti per un istante l'orrore del mondo in bocca!».
Detto questo, è però necessario non cadere in un radicalismo ascetico moralistico e in un'austerità savonaroliana: dopo tutto Cristo ha anche amato stare a tavola, al punto tale che il rigorismo farisaico l'aveva bollato come «un mangione e un beone» (Matteo 11,19). Proprio per questo il libro della Perrot può far riscoprire il fascino che si cela anche nei riti collettivi, la freschezza dei sentimenti, la tenerezza dei ricordi dell'infanzia, l'allegria della festa, l'intimità familiare e persino la verità dell'unico detto di Gesù non citato nei Vangeli ma riferito da san Paolo: «C'è più gioia nel dare che nel ricevere» (Atti 20,35). Sarebbe, questo, anche un modo per infrangere la logica rigida ed esigente dell'utilitarismo con un tocco di libertà e di gratuità.
Adorno nei Minima moralia aveva ragione quando affermava che «uno regala quello che gli piacerebbe per sé, ma certamente di qualità inferiore», facendo così riaffiorare l'egoismo come prima regola del nostro agire. Martyne Perrot nelle sue pagine cita le sei "regole invisibili" coniate dal sociologo americano Theodore Caplow (leggetele nelle pagine 130-132), applicate da chi sta sfogliando i cataloghi commerciali o approda in un negozio di articoli-regalo per Natale. C'è molta malizia ma anche molta verità in quelle norme non dichiarate ma praticate. Eppure se non ricevessimo nessun dono, se nessun Babbo Natale si affacciasse alla nostra porta, nessun postino o Dhl ci recapitasse un pacco-dono, resteremmo proprio del tutto indifferenti?

Martyne Perrot, Il regalo di Natale. Storia di un'invenzione, traduzione di Romeo Fabbri, Dehoniane, Bologna, pagg. 160, € 13,50

lunedì 15 dicembre 2014

Umberto Eco - Prove dell'eternità del mondo

Grande ammirazione per le capacità logico filosofiche di Umberto Eco. Ma ho la vaga impressione che alla fine, anche lui goda nel descrivere questo delirio sul nulla....

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Umberto Eco - Prove dell'eternità del mondo

L'idea di una eternità del mondo era considerata una pericolosa eresia: infatti, se il mondo fosse eterno allora non ci sarebbe più bisogno di un Dio creatore, e la Bibbia avrebbe mentito quando diceva «In principio Dio creò il cielo e la terra».
Tommaso non può asserire che il mondo sia eterno, ma nel suo tentativo di conciliare fede ragione compie nel De aeternitate mundi una operazione quasi spericolata: ragionando secondo onestà e secondo logica, senza farsi influenzare dalla sua fede, arriva a una conclusione sconvolgente. Egli crede a un mondo creato perché glielo dice la rivelazione, ma filosoficamente non può dimostrare che il mondo non sia eterno. E siccome presumere che il mondo esista da sempre, senza che debba la sua esistenza a qualcosa che possiede l'essere in massimo grado è – sostiene Tommaso – errore abominevole anche per un filosofo, egli tenta una sua soluzione. Infatti sostiene che una cosa è dire che il mondo dura da sempre nel tempo e una cosa dire che dura da sempre per natura.
Tutte le cose di questo mondo, per esempio un fiore, nascono perché nella materia preesistente esse sono in potenza, poi sopraggiunge la forma-fiore e sboccia il fiore come sostanza. Se dunque Dio avesse dovuto imporre le varie forme su una materia preesistente questo significherebbe che il mondo, come materia informe, ovvero pura possibilità, esisteva prima del suo atto creatore, il che è impossibile. Tuttavia Dio ha creato gli angeli senza che ci fosse materia preesistente (infatti l'angelo non ha materia ed è pura forma), quindi non è necessario che Dio crei da una materia preesistente. Dio, allora, può avere creato qualcosa che era stato da sempre? Si dovrebbe sostenere che ciò non è possibile. Se prima il mondo non c'era e poi Dio l'ha creato, allora il mondo è nato dopo il gesto creatore di Dio.
Ma questo è vero secondo il modo di pensare di noi uomini, abituati a vedere la sequenza delle cause e degli effetti che si dispiegano nel tempo: prima c'è il calcio e dopo la pietra rotola per la pianura. Ma ci sono cause che non precedono il loro effetto in termini di durata nel tempo: per esempio la luce, che è sì effetto del sole, ma nel preciso momento in cui appare il sole, c'è la luce. Parimenti il fuoco è certamente causa del calore, ma il calore appare nel preciso istante in cui appare il fuoco. Oppure si immagini un piede che dall'eternità abbia impresso la sua orma nella sabbia, nel senso che non prima ci fosse il piede e poi qualcuno lo abbia posato sulla sabbia, ma che il piede sin dall'eternità sia nato come piede-sulla-sabbia. La sua orma sarebbe effetto del piede, ma non sorgerebbe dopo che il piede si è impresso sulla sabbia, bensì apparirebbe nel momento stesso in cui apparisse il piede.
In questi casi il rapporto tra causa ed effetto, movente e mosso, necessario e contingente, e così via, non dovrebbe essere visto come durata nel tempo, come il prima e dopo di una clessidra. Il tempo è un incidente del mondo, ma non ha nulla a che fare con Dio, che è eterno.
È vero che, se Dio ha deciso che il mondo esista, ciò è dipeso da un moto della sua volontà. Ma non è necessario che un atto della volontà preceda il suo effetto nel tempo. Immaginiamo che Dio a un certo momento abbia ritenuto opportuno creare il mondo. Se si ammette che il mondo sia una perfezione, Dio come essere perfetto sarebbe restato per una eternità privato da questa perfezione e si sarebbe deciso solo dopo a crearla? È impossibile.
Dunque Dio potrebbe aver voluto il mondo sin dall'eternità. Questo sembra cozzare contro l'obiezione che Dio ha creato il mondo ex nihilo, dal niente. Ma dire che lo ha creato dal niente non significa che prima ci fosse niente e poi ci sia stato il mondo. Se fosse stato così, questo niente sarebbe stato eterno, e in qualche modo si sarebbe dovuto decidere se veniva prima o dopo Dio. Creare dal niente non significa che prima c'era il Niente e dopo qualcosa, come se il Niente fosse qualcosa che viene prima di qualcosa d'altro. Creare dal niente significa che ogni cosa creata riceve il suo essere da altro, senza cui non sarebbe niente, non esisterebbe. Dio ha creato le cose ex nihilo certamente, ma non post nihil, (ossia «dopo un niente preesistente»). E così il mondo riceve il suo essere da Dio, sua causa necessaria, ma coeterna, senza che si debba pensare che prima del mondo ci fosse qualcosa di eterno che si chiamava il nulla. Non è che l'aria sia luminosa perché prima del sole non era nulla. È che senza il sole l'aria non sarebbe niente, non esisterebbe neppure.
Né tiene l'obiezione che se il mondo esistesse da sempre ci sarebbe una infinita quantità di anime, in paradiso o all'inferno. Il mondo può essere esistito dall'eternità senza gli uomini.
Pertanto dal punto di vista filosofico non si può negare l'eternità del mondo. Si crede che il mondo non fosse eterno solo per ragioni di fede.

Domenica del sole 24 ore 30 novembre 2014