mercoledì 26 novembre 2014

La sfortuna di vincere al Lotto

La sfortuna di vincere al Lotto

di Ermanno Cavazzoni 
Il super-enalotto, l'ex totocalcio, le lotterie di Stato eccetera danno a chi gioca la speranza di vincere e di passare grazie alla vincita a uno stato di maggiore felicità.
La prima questione da considerare è quanto si vince.
Se si vince poco, qualche migliaia di euro (considerando che il vincitore sia un impiegato o un artigiano di medio reddito) c'è una breve felicità, ad esempio quel tale cambia macchina, ma tutto resta come prima, con qualche patema in più per i vandali che possono sfregiare o ammaccare la macchina nuova. Se vince qualche centinaia di migliaia di euro compra ad esempio un appartamento, cioè non paga l'affitto, quindi gli avanza qualcosa di più per il cibo, bistecche migliori, con un filo di grasso, ristorante ogni tanto, vacanze tutto compreso con trattamento abbondante, ma la vita più o meno è la stessa, forse un leggero ingrassamento in cintura e un doppio mento leggero, qualche problema alla cistifellea e il colesterolo più alto. Se vince qualche milione, anche in questo caso la vita più o meno sarà la stessa, stessa moglie, tutt'al più divorzia perché l'amante pretende di uscire alla luce del sole, lui ha i soldi per pagare gli alimenti dopo il divorzio, poi tutto si placa e vive con l'amante come viveva prima con l'ex moglie. È più felice? Beh, ha avuto più traversie, con qualche momento di felicità, sommando i più e i meno direi che il tenore medio è lo stesso; poi ci pensa la banca a consigliargli cattivi investimenti, di modo che in poco tempo la vincita si riduce a quasi niente. Può comprare uno o due immobili, può affittarli, e proverà le amarezze del proprietario di immobili, l'ex amante ora moglie gli darà un figlio, e tutto sarà come prima, litigi con la moglie, incomprensioni col figlio, in più litigi con la ex moglie, incomprensioni con gli altri figli, tutto come prima, ma appena un po' peggio e un po' più complicato, di poco.
I problemi veri sorgono se vince cinquanta o cento milioni o di più, perché in qualche modo con quella somma deve farci qualcosa; se la da in banca, la banca a poco a poco la mangia, le banche sono in grado di dissolvere somme immense promettendo straordinari guadagni; intanto il fortunato vincitore ha lasciato l'amante e ne ha presa una più costosa, di fronte alla quale si vergogna di fare il manovale o l'impiegato; cosa fa? mette su un'aziendina, la mette su assieme a un socio, il quale è più esperto ma non ha soldi, e così in poco tempo i soldi che non ha mangiato la banca se li mangia il socio e l'aziendina fallisce; se il socio non ha fretta, se quindi è trascorso più tempo e intanto l'aziendina è diventata un'azienda, il fallimento sarà maggiore. Un muratore che negli anni 60 aveva vinto una somma enorme, aveva avviato un'impresa edile; quando è fallita, com'era inevitabile, e si è trovato solo con dei debiti e con processi pendenti, si è buttato sotto il treno. Ed è stato il risultato della grande vincita. La quale fa sì che le preoccupazioni aumentino, ed essendo il cambiamento improvviso, è probabile che il fortunato non sia all'altezza di amministrare l'impresa; se non fallisce vive in ogni caso nell'ansia, nella diffidenza, nel timore di sbagliare o farsi ingannare; l'amante divenuta moglie spera che quello muoia, e che lei e suo figlio ereditino; la nuova amante spera che muoia la moglie per subentrarle, e aspettare che di lì a poco anche lui muoia dopo averle intestato immobili e conto corrente; come si vede ci sono gravi problemi su tutti i fronti; è probabile ci sia qualche attimo di felicità, un'ora o due al mese, magari al mattino presto, quando tra il sonno e il risveglio il neo bilionario crede di essere ancora uno squattrinato che può prendere il mondo alla leggera, che può immaginare astratte speranze e piccole felicità ottenute con poco, una bella giornata di sole, un viaggetto in macchina senza saper dove, così, per il gusto di perdere tempo. Poi si alza e deve constatare che invece è tutto un assillo e un'infelicità, con punte di pessimismo, desiderio di scomparire, ogni tanto poca voglia di vivere, e una vita che non è quella che desiderava, che non è la sua.
Quindi riassumendo il super enalotto è una falsa promessa, non cambia la vita, e se la cambia, la cambia in peggio. In altri tempi c'era la speranza di essere riconosciuti figli del re, se io fossi re, uno si diceva; beh se uno a circa quarant'anni fosse stato riconosciuto re, sarebbe per lui una tragedia, avrebbe dovuto stare attento al veleno, alle congiure di cui sarebbe stato inesperto e dunque facilmente vittima; e poi badare agli altri re che provocano incidenti al confine per mangiargli tutto, sposerebbe magari una principessa di sangue, la quale vedendo la sua inesperienza e la sua citrullaggine mirerebbe a sostituirlo con l'amante, o col figlio di primo letto, eccetera eccetera.
Al messo che arriva con il proclama per insediarlo come nuovo re, meglio rispondere che si sono sbagliati, che lui non è nessuno, che vive tranquillo così, nessun suo ascendente ha una goccia di sangue aristocratico, grazie ma potete andare, lasciatemi in pace, sentite magari dal mio vicino di casa, che è rumoroso, ogni tanto mi da fastidio, tiene il volume alto e sposta i mobili in continuazione, fategli fare a lui il re, fatelo sposare a una principessa così si toglie dal condominio e sarà inevitabilmente punito per tutti i fastidi che finora mi ha dato. Stessa cosa se qualcuno ti regala un biglietto che poi risulti vincente: mettetelo nascostamente nella buca delle lettere del vicino di casa, o di quel parente prossimo insopportabile, lui sarà stupefatto, sarà felice nell'immediato, complimentatevi con lui, capirà qualche anno dopo come i complimenti fossero ironici, quando io sarò povero e felice, e lui ricco e disperato.

dal sole 24 ore del 19 ottobre 2014

aliquota fiscale unica...che funziona a metà

 Battezzata da Arthur laffer su un tovagliolo nel 1974, usata da reagan e Bush jr, incostituzionale (ma evocata in Italia da Salvini e co.)
Torna l'idea di un'aliquota fiscale unica che freni l'evasione - la flat tax dovrebbe lasciar filtrare ricchezza verso il basso alleggerendo la pressione sui redditi alti - ma funziona a metà

L'economista fa sgocciolare le tasse

La «Curva di Laffer» vive una nuova, controversa, stagione

Ristorante «Two Continents», Washington, quattro strade dalla Casa Bianca. Dopo il caffè, due politici, un professore di economia e un giornalista discutono animatamente di tasse e conti pubblici. A un certo punto l'economista stende il tovagliolo e con la stilografica traccia una specie di campana rovesciata su un fianco. «Vedete? spiega ai suoi interlocutori Non è vero che più si aumentano le imposte e più cresce il gettito fiscale. Anzi, esiste una soglia limite, un punto di svolta oltre il quale accade esattamente il contrario: più lo Stato carica il contribuente, meno incassa». Arthur Laffer ripone la penna con accademica condiscendenza guardando i due uomini seduti di fianco a lui, Donald Rumsfeld e Dick Cheney, collaboratori del presidente repubblicano Gerald Ford. Il più pronto è il quarto commensale, l'editorialista del «Wall Street Journal» Jude Wanniski, che lì per lì battezza quel grafico schizzato sulla salvietta la «Curva di Laffer».

Così almeno l'ha raccontata sul suo giornale lo stesso Wanniski. Era il 1974. Quarant'anni dopo, archiviate le bellicose carriere di Rumsfeld e Cheney, quel disegnino vive una nuova, controversa, stagione. Ora che il paradigma del rigore ha mostrato tutti i suoi limiti, il confronto tradizionale tra la famiglia dei liberisti e quella della sinistra keynesiana si sposta su basi politico-culturali diverse. Merito di alcune opere di grande ambizione, anche se a tratti di impervia lettura, tra le quali spicca il lavoro dell'economista francese Thomas Piketty (Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani), e di altri saggi di più ridotta caratura, come gli scritti e le conferenze di Alvin Rabushka. Questo politologo americano sta conducendo un'intensa campagna per la diffusione della flat tax, il prelievo unico sui redditi con una aliquota tra il 15 e il 20%.

L'idea di un'imposta secca risale al 1956 e fu avanzata da Milton Friedman, il massimo teorico del neoliberismo, che la sistematizzò nel suo fondamentale Capitalismo e libertà (1962, ultima edizione in Italia, Ibl Libri, 2010). Nel nostro Paese la flat tax è comparsa su diverse sponde. Nel 1994 la voleva Silvio Berlusconi e nel 2005 il radicale Marco Pannella. Oggi la rilancia Matteo Salvini, segretario della Lega Nord. In Italia, però, la semplificazione fiscale, il passaggio dai cinque scaglioni attuali a uno solo, presuppone la riscrittura dell'articolo 53 della Costituzione, che prevede la progressività della tassazione. Inoltre resta la grande incognita dell'impatto sulle entrate tributarie e dunque sull'equilibrio del bilancio pubblico.  Il ragionamento torna a quel tovagliolo del «Two Continents», alla «Curva di Laffer», con due teoremi da verificare. Il primo lo abbiamo già visto: la mini-imposta unica incoraggia anche gli evasori a onorare i pagamenti. Il secondo si può enunciare così: bisogna sgravare i contribuenti più ricchi, perché potranno mettere più risorse al servizio dello sviluppo. Il sistema, liberato dai balzelli, sarà in grado di riequilibrare la distribuzione del reddito.
Cambia il meccanismo: anziché la progressività, introdotta all'inizio del Novecento, entra in funzione il cosiddetto trickle down, letteralmente «sgocciolamento». Laffer e i suoi ammiratori confidano in un aggiustamento automatico, quasi naturale, prendendo a prestito l'immagine utilizzata dal sociologo Georg Simmel nel 1904 per descrivere la catena di diffusione della moda: le scelte d'abbigliamento delle classi più agiate «sgocciolano», appunto, dall'alto verso il basso. Ma esistono dati empirici che confermino queste ipotesi? In Italia prova a rispondere lo storico e politologo Marco Revelli, con un breve saggio dal titolo militante: La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi, Vero! (Latenza, pagine 96, € 9). Nelle ultime elezioni europee Revelli è stato il garante della lista della sinistra radicale «L'Altra Europa con Tsipras». Nel libro, però, prevale lo studioso e, soprattutto, pesano i numeri, le statistiche. Oggi la flat tax è applicata in una trentina di Paesi, con una certa densità nell'Europa dell'Est. Ma è evidente che il caso più interessante e più significativo sia proprio quello degli Stati Uniti, la patria di Friedman e di Laffer. Revelli richiama i risultati ottenuti dal doppio mandato delle amministrazioni repubblicane di Ronald Reagan (1981-1989) e di George W. Bush (2001-2009). Entrambi tagliarono le tasse sui redditi più alti. Il consuntivo di Reagan è alterno. La manovra «lafferiana» sulle imposte, peraltro concordata con il Partito democratico, riattivò l'economia, sollevando la crescita del Pil fino al 4,1% (1988) e creando 16 milioni di posti di lavoro. Le entrate fiscali, però, calarono del 1% del Pil e di conseguenza il debito pubblico si triplicò fino ad arrivare a 2 mila miliardi di dollari. George W. Bush ereditò da Bill Clinton un budget federale in attivo di 236 miliardi di dollari; dopo il taglio delle tasse e in soli tre anni si ritrovo con un passivo di 375 miliardi. Le famiglie e lo Stato centrale cominciarono a indebitarsi, ponendo le premesse della bolla finanziaria esplosa nel 2007-2008. Oggi il debito degli Stati Uniti è pari a 15 mila miliardi di dollari ed è la mina vagante dell'equilibrio mondiale.
Resta da capire se, almeno, si sia prodotto l'effetto «sgocciolamento», se cioè la distanza tra le fasce di reddito sia diminuita. Su questo punto le risposte di Piketty e di Revelli coincidono: no. Negli ultimi trent'anni la disuguaglianza è aumentata a livello mondiale e praticamente in tutti gli Stati, come dimostra la dinamica dell'indice di Gini coefficiente che misura il grado di distribuzione delle ricchezze). Nell'ultimo vertice di Davos, nel gennaio 2014, l'associazione Oxfam ha presentato un rapporto titolato Working for the Few, «Lavorare per i pochi». Una tabella mostra come dal 1980 al 2012 negli Stati Uniti, «lafferiani» per 16 anni, la quota di reddito posseduta dall'i% più benestante della popolazione sia aumentata del 150%. Anche in altri Paesi l'élite economica si è arricchita in modo esponenziale: del 90% in Australia; tra il 5o e 1'8o% in Irlanda, Norvegia e Svezia. Dí fatto nelle 29 nazioni considerate (Italia compresa) non sì è visto alcuno «sgocciolamento», se mai una pioggia abbondante. Ma in un'altra direzione.

Di Giuseppe Sarcina
Dal Corriere della sera, 23 novembre 2014



i grandi dei

La credenza nei custodi immortali ha consentito il passaggio epocale dalle piccole tribù a grandi comunità fondate sulla cooperazione tra estranei

Il legame sociale
è figlio degli Dei

«Chi viene sorvegliato si comporta bene». Un principio alla base delle civiltà più antiche

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Nel 1904 Max Weber attraversa in treno gli Stati Uniti. Conversando con un casuale compagno di viaggio, il sociologo finisce col parlare di religione. È allora che l’uomo, un commesso viaggiatore, pronuncia una frase divenuta celebre: «Signore, per quel che mi riguarda ognuno è libero di credere o di non credere, a suo piacimento; tuttavia, se incontrassi un agricoltore o un imprenditore che non appartiene ad alcuna Chiesa, non gli farei credito nemmeno di 50 centesimi. Perché uno che non crede in niente dovrebbe pagarmi ciò che mi deve?».
Il tema della fede è centrale nello sviluppo della società umana. Ne dipendono l’organizzazione dei gruppi, commercio e crescita, pace e guerra. In un mondo in cui siamo sempre più a contatto con chi ha una religione diversa, e con chi non ha religione alcuna, la questione del commesso viaggiatore di Weber è fondamentale. Possono convivere credenti e non credenti? Può coabitare chi ha Dei diversi? La risposta è di norma affidata ai leader politici e religiosi: a Obama, al Dalai Lama, a Papa Francesco, al califfo dello Stato islamico. Oppure ai teologi. Tuttavia, contributi profondi e originali vengono sempre più dagli antropologi, dagli studiosi di economia comportamentale, dagli psicologi.
Ara Norenzayan, professore di Psicologia sociale all’Università della British Columbia, in Canada, ha scritto un libro molto importante che esce ora in Italia: Grandi Dei (Raffaello Cortina). L’autore ha una tesi ambiziosa. Si deve alla religione la transizione avviata circa undicimila anni fa da società organizzate in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori strettamente imparentati tra loro, a società stanziali, inizialmente basate sulla domesticazione di animali e cereali, e poi ingranditesi fino alle grandi strutture sociali moderne, in cui moltitudini di anonimi cooperano su larga scala.
Perché ciò fosse possibile, si sono costruite sulla cooperazione tra estranei non sono il risultato di una religione qualsiasi. Ci sono voluti «Grandi Dei» perché nascessero «grandi gruppi»: ci sono volute le divinità delle grandi religioni monoteiste e politeiste che hanno conquistato la terra, Dei potenti, onniscienti e intenti al controllo del comportamento morale degli uomini.
Si srotola pagina dopo pagina l’argomentazione di Norenzayan. Lucida e appassionata. I Grandi Dei possono essere molto diversi tra loro, tanto quanto Shiva differisce da Gesù Cristo. Essi tuttavia hanno in comune otto principi di cui l’autore intende dimostrare la validità logica e sperimentale.
Il primo principio è il più importante: «Chi è sorvegliato si comporta bene». L’avvento dei Grandi Dei e dei grandi gruppi è cominciato qui, quando il controllo sociale esercitato dai piccoli gruppi etnico-familiari è stato sostituito dalla sorveglianza di «occhi soprannaturali». È stato allora possibile costruire legami di fiducia e scambio tra estranei, allargare l’economia, ingrandire le comunità. Sviluppando precursori naturali inscritti nella mente attraverso l’apprendimento culturale, i Grandi Dei hanno creato legami efficaci di timore e di fiducia. Sono i principi numero due, tre e quattro: «La religione è più nel contesto che nelle singole persone»; «L’inferno è più potente del paradiso», «Fidati di coloro che si fidano di Dio».
Crescendo, le grandi religioni hanno dovuto combattere il rischio della falsa fede, dell’imbroglio, dell’ipocrisia dei profittatori. Hanno così selezionato leader credibili e divinità degne di venerazione, per cui valeva la pena di compiere riti «bizzarri» e «costosi». Ecco i principi numero cinque e sei: «Nella religione le azioni contano più delle parole»; « Gli Dei che non sono oggetto di adorazione sono Dei impotenti». Si sono imposti così, recita il principio numero sette, «Grandi Dei per Grandi Gruppi», ovvero gruppi religiosi che, come recita l’ultimo principio, «cooperano per competere».
Emigrato in Canada dal Libano a causa della guerra, Ara Norenzayan giunge con il suo ultimo principio al nodo della violenza religiosa. Constata che nei Grandi Dei vi sono parti che «possono generare e intensificare i conflitti», ma anche «impulsi che possono essere convogliati per attenuare e superare i conflitti». È piena di energia questa sfida a guardare al divino dal punto di vista dell’interazione tra mente e società, tra evoluzione biologica e culturale. L’attenzione sulla sorveglianza dall’alto pone questioni scomode. L’autore suggerisce che dopo il passaggio dalle piccole società alle società sotto «i grandi occhi del cielo», si profila ora il passaggio a società complesse in cui l’empatia e la compassione per il genere umano e la solidarietà sociale, unite a istituzioni laiche efficaci e non corrotte, con giudici indipendenti e Stato di diritto, si candidano a sostituire gli «osservatori soprannaturali».
È il passaggio che sembra intravvedersi nelle società scandinave, cui è dedicato l’ultimo capitolo del libro, e in generale laddove i credenti, a differenza del commesso viaggiatore di Weber, riescono ad aver fiducia persino negli atei. Nella sua bella introduzione al volume, Telmo Pievani invita a non ridurre il pensiero di Norenzayan, com’è invece avvenuto negli Stati Uniti, alla divisione del mondo in svedesi laici, ricchi e tolleranti, e arabi religiosi, poveri e fondamentalisti. Il passaggio «dagli Dei vigili ai governi vigili» è certo cruciale. Ma la forza dell’autore sta altrove. Egli si sforza di adottare il punto di vista dell’occhio di Horus, raffigurato nei bassorilievi dell’antico Egitto, e degli occhi di Buddha, ritratti negli stupa del Nepal. Come fanno gli Dei, Ara Norenzayan guarda in fondo alla nostra mente.
Marco Ventura

lunedì 10 novembre 2014

Ma in quelle megalopoli non c'è nulla da esplorare

A seguito di un articolo di Repubblica, che parlava del turismo del futuro dove l'Asia scalzerà l'Europa, il grande Paolo Rumiz esprime bene anche  i miei dubbi sul turismo contemporaneo.
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di PAOLO RUMIZ
PERDEREMO il primato? Pazienza. Io mi tengo la mia Europa. Se l'industria pesante del turismo preferisce buttarsi in Cina all'assalto di shopping, aeroporti, megalopoli e aria condizionata, si accomodi. Lo dice uno che ha sempre amato e sognato l'Oriente. Oggi la terra del sol levante è un'altra cosa. Ha perso molto del suo mistero. La Transiberiana è sempre più un'avventura per ricchi, non ha più profumo di samovar e carovane. L'Afghanistan è uno spazio off limits, il Pakistan gli fa concorrenza. Il Kazakistan si è trasformato in una sequenza di pozzi petroliferi. Le strade russe sono governate dalle mafie e percorrerle da soli si rischia la vita, per saperlo basta parlare con un camionista. Buona metà del Caucaso fermenta di rivolte e bande armate. Il Tibet e lo Xinkiang sono schiacciate da un'indecente repressione.