sabato 30 ottobre 2010

CARISSIMO NUCLEARE

CARISSIMO NUCLEARE
Si riparla di centrali nucleari e di un probabile referendum, sempre che il governo non caschi. È quindi il momento di «contemplare un tantino la situazione storica», per dirla col duca d'Auge dalla cima della torre nei Fiori blu dì Raymond Queneau, altrettanto sconfortato di Cosimo Piovasco di Rondò quando saliva sull'albero nel Barone rampante. Durante l'estate è cresciuto il prezzo del modello di reattore Epr venduto in quattro esemplari da Nicolas Sarkozy a Silvio Berlusconi. Mentre in Finlandia la costruzione del primo Epr tenta di battere (per durata) il record della Fabbrica del Duomo di Milano, in Francia quella del secondo procede con simili ritardi e aumenti più rapidi: il costo del solo edificio della centrale è passato da quattro a cinque miliardi in sedici mesi. Quanto alle scorie, dopo ventanni e dieci miliardi di dollari spesi in studi preliminari per aprire un deposito nei Nevada, il governo americano ci ha rinunciato, e ora una coalizione di stati e città con scorie in casa gli intenta un processo che ai contribuenti rischia di costare il doppio. Sulla rivista Nature, intanto, Doyne Far-mer pubblica un confronto tra il prezzo del chilowatt/ora di varie fonti: quello da nucleare risulta superiore a quello da gas naturale e persino da carbone, almeno dove esiste la sanità pubblica e chi di carbone s'ammala si fa curare senza finire sul lastrico. Farmer, protagonista del libro Sbancare Wall Street, un matematico del caos che giocando in Borsa-s'è procurato quanto bastava per
comprare il computer più potente dell'epoca, penso che i conti li sappia fare. Per chi non si fida di un ex capellone tuttora pacifista, in un rapporto del Massachusetts Institute of Technology economisti e tecnocrati arrivano alla stessa conclusione: anche se ai tempi degli hippies andavano all'asilo.
Sylvie Coyaud
Repubblica delel donne 2 ottobre 2010

LA DISSOLUTEZZA DELL' IMPERATORE AI TEMPI DI TIBERIO

Con la consueta grazia Corrado Augias risponde a un lettore su un tema di attualità.....


Caro Augias, forse nell' anno 4010, se un futuro medioevo oscurerà la nostra era tecnologica, qualcuno leggerà da un qualche storico sopravvissuto ai nostri giorni simili parole: «Dopo essere disceso più volte nei dintorni (di Roma) ed essere arrivato fino ai giardini presso il Tevere ritornò alla solitudine dei suoi scogli, per la vergogna dei propri delitti e delle infami dissolutezze, la cui bramosia si era in lui così indomabilmente accesa che egli, all' uso dei re, contaminava colle sue immonde carezze giovanetti liberi e di nobile nascita (..) Dei servi furono addetti a cercare le vittime e condurgliele; si riservavano doni ai compiacenti, minacce ai renitenti, e, se un parente o un padre cercava di opporsi,i servi adoperavano la violenza,i ratti, qualunque arbitrio piacesse loro, come contro i prigionieri di guerra (...) Da ultimo precipitò nei delitti e nella vergogna insieme, dopo di che, cessato ogni ritegno e ogni timore, si abbandonò unicamente ai propri istinti». Tacito, Annales VI 1, VI 51 (3).
Spartaco Sottili - Reggello (Firenze) - etruriafelix@libero. it

Risponde Corrado Augias:
Vale la pena di leggere l' intero passo degli "Annali" VI,1: «Era come una febbre che lo spingevaa usare una violenza da re barbaro su ragazzi di buona famiglia, eccitato non solo dalla bellezza dei corpi ma anche dalla loro purezza di adolescenti e dalla nobiltà dei loro antenati. Fu allora che nacquero i termini di "sellario" e "spintria" usati per indicare la natura ripugnante del rapporto e le molteplici forme di passività sessuale. Sovrintendevano degli schiavi con il compito di cercare e di scortare le vittime; c' erano doni per chi non si faceva pregare, minacce per chi rifiutava». Questo dunque è Tacito.
Svetonio il gran pettegolo, nelle sue "Vite dei Cesari" è ancora più esplicito parlando di Tiberio (XLIII): «Fece anche arredare con divani un locale apposito, quale sede delle sue libidini segrete; lì dentro dopo essersi procurato in ogni dove greggi di ragazze e di invertiti, assieme a quegli inventori di accoppiamenti mostruosi... li faceva unire in triplice catena e li costringeva a prostituirsi tra di loro in ogni modo in sua presenza, allo scopo di rianimare, con il loro spettacolo, la sua virilità in declino». Apprezzo molto le citazioni dei classici e ringrazio il signor Sottili per aver richiamato quella pagina di Tacito. Sono peraltro convinto che simili oscenità appartengano ad un periodo ormai lontano e che sia molto improbabile, se non impossibile, che possano essere ripetute ai nostri giorni da parte di chicchessia.
Repubblica — 29 ottobre 2010 pagina 36 sezione: COMMENTI

venerdì 29 ottobre 2010

Bunga bunga

La stiria di un vecchietto danaroso che ama circondarsi di belle ragazze raccontando barzellette sceme più che invidia fa pena.
Più interessante e grave è la storia della liberazione della giovinetta traviata.
In altri Paesi, e non nella repubblica del bunga bunga, il protagonista sarebbe già stato destituito e spedito in una delle sue numerose residenze.

Illuminante andarsi a vedere la stampa straniera sull'argomento..

scrive una lettrice su unblog di corriere.it:

Leggendo gli articoli di Ferrarella e Sarzanini sappiamo: 1)che in Questura furono appurate le generalità di questa ragazza e che esisteva segnalazione dal trib.Minori; 2)Che riguardo a questa ragazza arrivò telefonata da Palazzo Chigi che ne chiedeva trattamento di riguardo (il Questore Indolfi ha confermato che venne indicata come nipote di Murabak) 3)Fu chiesto rilascio a persona fidata da loro indicata; 4) la persona, subito arrivata, era Minetti Nicole che infatti la prese in consegna. Domanda: come potevano credere (se mai l'hanno creduto)in Questura che questa ragazza fosse nipote di Mubarak avendo davanti ai loro occhi le sue generalità e il suo "percorso di vita" proveniente dal trib. dei Minori? Come poteva la Minetti aver i requisiti per prendere in custodia una minorenne accusata di reato? La signorina fa parte dei servizi sociali? Della procura dei Minori? E' titolare di una casa famiglia che ospita queste ragazze? Questi sono fatti e non vanno bene, direi.

giovedì 28 ottobre 2010

le ragazze con l'asinello

«Io sono un viandante, diceva. Zarathustra al suo cuore. .Infine non si vive se non con se stessi»
Uscendo dalla stazione di Mestre per avviarmi verso il garage dove tengo la macchina, mi sono trovato di fronte a qualcosa a dir poco inconsueta. Due ragazze, in compagnia di un asinelio, camminavano tranquillamente, assolutamente incuranti di quanto le circondava. Erano di circa venti anni e se ne andavano semplicemente in giro per l'Italia, in compagnia del loro fidato amico, a piedi, per conoscere città, luoghi, persone, cose. Guardarle nei loro occhi è stato per me un nuovo respiro. C'era qualcosa di biblico in loro, nei loro occhi sorpresi del mio sorprendermi, nel loro abbigliamento di pantaloni di tela, scarponcini adatti a chi deve molto camminare, giubbotti dotati di strisce rifrangenti per essere visibili al buio. Avevano disposto due zaini sulla schiena del loro asinelio, si erano munite di bastoni utili per il loro cammino, ed erano semplicemente andate. Sono stato totalmente preso dalla bellezza della situazione. Cosa c'è, mi sono chiesto, nel cuore di due ventenni che se ne vanno in cerca di briciole di verità, a modo loro, incuranti della fitta ottusità che ci circonda, della sgangheratezza di questo mondo che ci bombarda di "valori" demenziali? Mi sono sentito commosso e pieno di gioia. Fabio Lombardo fabiano.lombardo@fastwebnet.it


Risponde Umberto Galimberti:
Tutti noi viaggiamo, ma, a differenza di quelle due ragazze, non siamo "viandanti", ma semplici "viaggiatori" diretti in un Luogo, che non sanno nulla dei paesaggi che li separano dalla meta, puri interluoghi tra una partenza e un arrivo. Camminando senza una meta all'orizzonte per non perdere le figure del paesaggio, le due ragazze spingono avanti i suoi passi, ma non con l'intenzione di trovare qualcosa: la casa, la patria, l'amore, la verità, la salvezza, ma unicamente i doni del paesaggio, che solo il viandante e in grado di percepire, perché sa che è il paesaggio stesso la meta, basta guardarlo, sentirlo, accoglierlo nell'assenza spaesante del suo senza-confine. Facendola uscire dall'abituale e quindi dalle sue abitudini, caro Fabio, le due ragazze con il loro asinelio l'hanno esposta aH"'insolito", dove è possibile scoprire, ma solo per una notte o per un giorno, come il cielo si stende su quella terra, come la notte dispiega nel cielo costellazioni ignote, come la religione aduna le speranze, come la tradizione fa popolo, la solitudine fa deserto, l'iscrizione fa storia, il fiume fa ansa, la terra fa solco, la macchina fa tecnica, in quella rapida sequenza con cui si succedono le esperienze del mondo che sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e di disporle in successione ordinata, perché, al di là di ogni progetto orientato, il nomade sa che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l'abbraccio totale è follia. Ma per noi, che a differenza del viandante, "viaggiamo", che ne è dell'intervallo tra l'inizio e la fine? Che ne è del cammino per chi vuol arrivare? Per chi vuol arrivare, per chi mira alle cose ultime, ma anche per chi mira alle mete prossime, del viaggio ne è nulla. Le terre che egli attraversa non esistono. Conta solo la meta. Egli viaggia per "arrivare", non per "conoscere". Così il viaggio muore durante il viaggio, muore in ogni tappa che lo avvicina alla meta. E con il viaggio muore l'Io stesso fissato sulla meta e cieco all'esperienza che la via dispiega al viandante che sa abitare il paesaggio e, insieme, al paesaggio sa dire addio. L'escatologia religiosa e la progettualità laica inaugurano un viaggiatore che tratta i luoghi che incontra come luoghi di transito, tappe che lo avvicinano alla meta. Per lui i luoghi diventano "interluoghi" in attesa di quel Luogo che è la meta stessa, la patria ritrovata, la vita realizzata, la stabilità raggiunta. Inutilmente la via ha istituito viandanti, le nostre orecchie sono sorde alle loro voci e a quelle dei luoghi, le sirene della "meta" e del "ritorno" hanno cancellato ogni stupore, ogni meravìglia, ogni dolore. L'attesa del Regno ha ridotto la via a "interregno", terra di nessuno prima delle cose ultime, anche se in quella terra di nessuno trascorre poi la nostra vita, che non è una corsa verso la meta, ma uno spazio concesso all'umano come sua terra che non è patria, ma semplice via, che si muove tra le macerie dei templi crollati e nel silenzio degli oracoli e delle profezie.

da la repubblica delle donne 25 settembre 2010

piste-ciclabili.com

Dalla bella rivista computer idea (che costa solo 1,80 e li vale tutti) questa segnalazione di sito, molto carino e utile!

www.piste-ciclabili.com
Per fare un'escursione, immergersi nella natura o tenersi in forma non c'è niente di meglio che inforcare la bici! Il nostro Paese però non è certo come l'Olanda, la Francia o la Svezia che offrono molteplici percorsi riservati espressamente alle due ruote. Grazie però a questo mash-up di Google Maps, uno dei pochi con l'interfaccia in italiano, tutti gli appassionati di gite in bicicletta possono trovare informazioni sulle piste ciclabili disponibili nel territorio italiano. I percorsi sono suddivisi per regione e per provincia, e, per ogni tracciato,
vengono fornite numerose informazioni: la pendenza delle salite, il dislivello, la lunghezza del percorso, l'indicazione del tipo di fondo (se è in ghiaia, terra o in asfalto) e il livello di difficoltà dell'itinerario. Selezionando il link che identifica ciascuna pista, viene fornita anche una descrizione sintetica del tracciato e vengono illustrati i punti di interesse che si incontrano durante il percorso. È possibile anche eseguire il download della guida stradale (chiamata Roadbook) di ciascun tracciato. Si tratta di un file disponibile nei principali formati (GPX, KML, PLT
eTRK) che permettono di scambiare dati georeferenziati (mappe, punti di interesse e coordinate geografiche) tra i navigatori e tra il GPS e il PC. Ciascuno di questi documenti scaricabili comprende la cartina e il resto delle informazioni supplementari fornite on-line da Piste-ciclabili. Per ogni pista non mancano inoltre indicazioni e commenti lasciati dagli utenti che partecipano all'attivissima comunità del sito e foto e video tramite i quali si hanno ulteriori indicazioni sulle caratteristiche dei percorsi e dei punti di interesse osservabili durante le escursioni. Piste-ciclabili ha anche una versione per cellulari (raggiungibile al link http://m.piste-ciclabili.com o http://mobile.piste-ciclabili.com), una soluzione efficace per consultare il servizio del sito anche quando si è già in sella alla bici e non si ha disposizione il portatile né il netbook ma soltanto il proprio telefonino. Il sito segnala più di 1.000 piste italiane oltre ad alcuni itinerari esteri dislocati in Slovenia, Croazia, Austria, Spagna, Svizzera e Germania.
Su Piste-ciclabili trovate indicazioni su tutti i percorsi dedicati alle biciclette disponibili sul territorio italiano

mercoledì 27 ottobre 2010

severgnini e il cavaliere

Cosa pensa la maggioranza degli italiani? «è uno di noi». E chi non lo pensa, lo teme

Il Cavaliere spiegato ai posteri
Dieci motivi per 20 anni di «regno»

Il segreto della longevità politica del premier e la pancia del Paese. La presentazione del libro in diretta video lunedì 15 novembre alle 21 su Corriere.it

Cosa pensa la maggioranza degli italiani? «è uno di noi». E chi non lo pensa, lo teme
Il Cavaliere spiegato ai posteri
Dieci motivi per 20 anni di «regno»
Il segreto della longevità politica del premier e la pancia del Paese. La presentazione del libro in diretta video lunedì 15 novembre alle 21 su Corriere.it
«Berlusconi, perché?». Racconta Beppe Severgnini che nel suo girovagare per il mondo infinite volte si è sentito rivolgere quella domanda da colleghi giornalisti, amici, scrittori di diverso orientamento politico, animati da curiosità più che da preconcetti. E così, cercando una risposta per loro, ha cominciato a elencare i fattori del successo del Cavaliere. Umanità, astuzia, camaleontica capacità di immedesimarsi negli interlocutori. Virtù (o vizi?) di Berlusconi, ma anche del Paese che ha deciso di farsi rappresentare da lui. Disse una volta Giorgio Gaber: «Non ho paura di Berlusconi in sé. Ho paura di Berlusconi in me». Quella frase fa da epigrafe a «La pancia degli italiani. Berlusconi spiegato ai posteri», il libro di Beppe Severgnini in vendita da oggi, del quale pubblichiamo l'introduzione



Spiegare Silvio Berlusconi agli italiani è una perdita di tempo. Ciascuno di noi ha un'idea, raffinata in anni di indulgenza o idiosincrasia, e non la cambierà. Ogni italiano si ritiene depositario dell'interpretazione autentica: discuterla è inutile. Utile è invece provare a spiegare il personaggio ai posteri e, perché no?, agli stranieri. I primi non ci sono ancora, ma si chiederanno cos'è successo in Italia. I secondi non capiscono, e vorrebbero. Qualcosa del genere, infatti, potrebbe accadere anche a loro. Com'è possibile che Berlusconi - d'ora in poi, per brevità, B. - sia stato votato (1994), rivotato (2001), votato ancora (2008) e rischi di vincere anche le prossime elezioni? Qual è il segreto della sua longevità politica? Perché la maggioranza degli italiani lo ha appoggiato e/o sopportato per tanti anni? Non ne vede gli appetiti, i limiti e i metodi? Risposta: li vede eccome. Se B. ha dominato la vita pubblica italiana per quasi vent'anni, c'è un motivo. Anzi, ce ne sono dieci.
1) Fattore umano
Cosa pensa la maggioranza degli italiani? «Ci somiglia, è uno di noi». E chi non lo pensa, lo teme. B. vuole bene ai figli, parla della mamma, capisce di calcio, sa fare i soldi, ama le case nuove, detesta le regole, racconta le barzellette, dice le parolacce, adora le donne, le feste e la buona compagnia. È un uomo dalla memoria lunga capace di amnesie tattiche. È arrivato lontano alternando autostrade e scorciatoie. È un anticonformista consapevole dell'importanza del conformismo. Loda la Chiesa al mattino, i valori della famiglia al pomeriggio e la sera si porta a casa le ragazze. L'uomo è spettacolare, e riesce a farsi perdonare molto. Tanti italiani non si curano dei conflitti d'interesse (chi non ne ha?), dei guai giudiziari (meglio gli imputati dei magistrati), delle battute inopportune (è così spontaneo!). Promesse mancate, mezze verità, confusione tra ruolo pubblico e faccende private? C'è chi s'arrabbia e chi fa finta di niente. I secondi, apparentemente, sono più dei primi.
2) Fattore divino
B. ha capito che molti italiani applaudono la Chiesa per sentirsi meno colpevoli quando non vanno in chiesa, ignorano regolarmente sette comandamenti su dieci. La coerenza tra dichiarazioni e comportamenti non è una qualità che pretendiamo dai nostri leader. L'indignazione privata davanti all'incoerenza pubblica è il movente del voto in molte democrazie. Non in Italia. B. ha capito con chi ha a che fare: una nazione che, per evitare delusioni, non si fa illusioni. In Vaticano - non nelle parrocchie - si accontentano di una legislazione favorevole, e non si preoccupano dei cattivi esempi. Movimenti di ispirazione religiosa come Comunione e Liberazione preferiscono concentrarsi sui fini - futuri, quindi mutevoli e opinabili - invece che sui metodi utilizzati da amici e alleati. Per B. quest'impostazione escatologica è musica. Significa spostare il discorso dai comportamenti alle intenzioni.
3) Fattore Robinson
Ogni italiano si sente solo contro il mondo. Be', se non proprio contro il mondo, contro i vicini di casa. La sopravvivenza - personale, familiare, sociale, economica - è motivo di orgoglio e prova d'ingegno. Molto è stato scritto sull'individualismo nazionale, le sue risorse, i suoi limiti e le sue conseguenze. B. è partito da qui: prima ha costruito la sua fortuna, accreditandosi come un uomo che s'è fatto da sé; poi ha costruito sulla sfiducia verso ciò che è condiviso, sull'insofferenza verso le regole, sulla soddisfazione intima nel trovare una soluzione privata a un problema pubblico. In Italia non si chiede - insieme e con forza - un nuovo sistema fiscale, più giusto e più equo. Si aggira quello esistente. Ognuno di noi si sente un Robinson Crusoe, naufrago in una penisola affollata.
4) Fattore Truman
Quanti quotidiani si vendono ogni giorno in Italia, se escludiamo quelli sportivi? Cinque milioni. Quanti italiani entrano regolarmente in libreria? Cinque milioni. Quanti sono i visitatori dei siti d'informazione? Cinque milioni. Quanti seguono Sky Tg24 e Tg La7? Cinque milioni. Quanti guardano i programmi televisivi d'approfondimento in seconda serata? Cinque milioni, di ogni opinione politica. Il sospetto è che siano sempre gli stessi. Chiamiamolo Five Million Club. È importante? Certo, ma non decide le elezioni. La televisione - tutta, non solo i notiziari - resta fondamentale per i personaggi che crea, per i messaggi che lancia, per le suggestioni che lascia, per le cose che dice e soprattutto per quelle che tace. E chi possiede la Tv privata e controlla la Tv pubblica, in Italia? Come nel Truman Show, il capolavoro di Peter Weir, qualcuno ci ha aiutato a pensare.
5) Fattore Hoover
La Hoover, fondata nel 1908 a New Berlin, oggi Canton, Ohio (Usa), è la marca d'aspirapolveri per antonomasia, al punto da essere diventata un nome comune: in inglese, «passare l'aspirapolvere» si dice to hoover. I suoi rappresentanti (door-to-door salesmen) erano leggendari: tenaci, esperti, abili psicologi, collocatori implacabili della propria merce. B. possiede una capacità di seduzione commerciale che ha ereditato dalle precedenti professioni - edilizia, pubblicità, televisione - e ha applicato alla politica. La consapevolezza che il messaggio dev'essere semplice, gradevole e rassicurante. La convinzione che la ripetitività paga. La certezza che l'aspetto esteriore, in un Paese ossessionato dall'estetica, resta fondamentale (tra una bella figura e un buon comportamento, in Italia non c'è partita).
6) Fattore Zelig
Immedesimarsi negli interlocutori: una qualità necessaria a ogni politico. La capacità di trasformarsi in loro è più rara. Il desiderio di essere gradito ha insegnato a B. tecniche degne di Zelig, camaleontico protagonista del film di Woody Allen. Padre di famiglia coi figli (e le due mogli, finché è durata). Donnaiolo con le donne. Giovane tra i giovani. Saggio con gli anziani. Nottambulo tra i nottambuli. Lavoratore tra gli operai. Imprenditore tra gli imprenditori. Tifoso tra i tifosi. Milanista tra i milanisti. Milanese con i milanesi. Lombardo tra i lombardi. Italiano tra i meridionali. Napoletano tra i napoletani (con musica). Andasse a una partita di basket, potrebbe uscirne più alto.
7) Fattore harem
L'ossessione femminile, ben nota in azienda e poi nel mondo politico romano, è diventata di pubblico dominio nel 2009, dopo l'apparizione al compleanno della diciottenne Noemi Letizia e le testimonianze sulle feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli. B. dapprima ha negato, poi ha abbozzato («Sono fedele? Frequentemente»), alla fine ha accettato la reputazione («Non sono un santo»). Le rivelazioni non l'hanno danneggiato: ha perso la moglie, ma non i voti. Molti italiani preferiscono l'autoindulgenza all'autodisciplina; e non negano che lui, in fondo, fa ciò che loro sognano. Non c'è solo l'aspetto erotico: la gioventù è contagiosa, lo sapevano anche nell'antica Grecia (dove veline e velini, però, ne approfittavano per imparare). Un collaboratore sessantenne, fedele della prima ora, descrive l'insofferenza di B. durante le lunghe riunioni: «È chiaro: teme che gli attacchiamo la vecchiaia».
8) Fattore Medici
La Signoria - insieme al Comune - è l'unica creazione politica originale degli italiani. Tutte le altre - dal feudalesimo alla monarchia, dal totalitarismo al federalismo fino alla democrazia parlamentare - sono importate (dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Germania, dalla Spagna o dagli Stati Uniti). In Italia mostrano sempre qualcosa di artificiale: dalla goffaggine del fascismo alla rassegnazione del Parlamento attuale. La Signoria risveglia, invece, automatismi antichi. L'atteggiamento di tanti italiani di oggi verso B. ricorda quello degli italiani di ieri verso il Signore: sappiamo che pensa alla sua gloria, alla sua famiglia e ai suoi interessi; speriamo pensi un po' anche a noi. «Dall'essere costretti a condurre vita tanto difficile», scriveva Giuseppe Prezzolini, «i Signori impararono a essere profondi osservatori degli uomini». Si dice che Cosimo de' Medici, fondatore della dinastia fiorentina, fosse circospetto e riuscisse a leggere il carattere di uno sconosciuto con uno sguardo. Anche B. è considerato un formidabile studioso degli uomini. Ai quali chiede di ammirarlo e non criticarlo; adularlo e non tradirlo; amarlo e non giudicarlo.
9) Fattore T.I.N.A.
T.I.N.A., There Is No Alternative. L'acronimo, coniato da Margaret Thatcher, spiega la condizione di molti elettori. L'alternativa di centrosinistra s'è rivelata poco appetitosa: coalizioni rissose, proposte vaghe, comportamenti ipocriti. L'ascendenza comunista del Partito democratico è indiscutibile, e B. non manca di farla presente. Il doppio, sospetto e simmetrico fallimento di Romano Prodi - eletto nel 1996 e 2006, silurato nel 1998 e 2008 - ha un suo garbo estetico, ma si è rivelato un'eredità pesante. Gli italiani sono realisti. Prima di scegliere ciò che ritengono giusto, prendono quello che sembra utile. Alcune iniziative di B. piacciono (o almeno dispiacciono meno dell'alternativa): abolizione dell'Ici sulla prima casa, contrasto all'immigrazione clandestina, lotta alla criminalità organizzata, riforma del codice della strada. Se queste iniziative si dimostrano un successo, molti media provvedono a ricordarlo. Se si rivelano un fallimento, c'è chi s'incarica di farlo dimenticare. Non solo: il centrodestra unito rassicura, almeno quanto il centrosinistra diviso irrita. Se l'unico modo per tenere insieme un'alleanza politica è possederla, B. ne ha presto calcolato il costo (economico, politico, nervoso). Senza conoscerlo, ha seguito il consiglio del presidente Lyndon B. Johnson il quale, parlando del direttore dell'Fbi J. Edgar Hoover, sbottò: «It's probably better to have him inside the tent pissing out, than outside the tent pissing in», probabilmente è meglio averlo dentro la tenda che piscia fuori, piuttosto di averlo fuori che piscia dentro. Così si spiega l'espulsione e il disprezzo verso Gianfranco Fini, cofondatore del Popolo della libertà. Nel 2010, dopo sedici anni, l'alleato ha osato uscire dalla tenda: e non è ben chiaro quali intenzioni abbia.
10) Fattore Palio
Conoscete il Palio di Siena? Vincerlo, per una contrada, è una gioia immensa. Ma esiste una gioia altrettanto grande: assistere alla sconfitta della contrada rivale. Funzionano così molte cose, in Italia: dalla geografia all'industria, dalla cultura all'amministrazione, dalle professioni allo sport (i tifosi della Lazio felici di perdere con l'Inter pur di evitare lo scudetto alla Roma). La politica non poteva fare eccezione: il tribalismo non è una tattica, è un istinto. Pur di tener fuori la sinistra, giudicata inaffidabile, molti italiani avrebbero votato il demonio. E B. sa essere diabolico. Ma il diavolo, diciamolo, ha un altro stile.
Beppe Severgnini
27 ottobre 2010
corriere.it

martedì 26 ottobre 2010

il consumo

«Nei paesi ricchi il consumo consiste in persone che spendono soldi che non hanno, per comprare beni che non vogliono, per impressionare persone che non amano». Joachim Spangenberg, vice presidente Sustainable Research Institute

Principi e cortigiani

Quando si vedono certi telegiornali o certi talk show....la passerella di cortigiani  è incredibile. 
Con l'attuale legge elettorale, non si può neppure dire che la gente li vota: vengono scelti dal Signore al quale devono fare la corte e messi nelle liste elettorali. E i risultati si vedono.
gg


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I PRINCIPI E I CORTIGIANI

Leggendo il commento di Erasmo da Rotterdam a uno degli «Adagia», «Lo scarabeo da la caccia all'aquila», ho trovato un periodo sul carattere dei principi di un'attualità sconcertante. Lo trascrivo testuale sperando che lei lo offra alla riflessione dei suoi lettori: «Ce ne sono di quelli — Dio mi è testimone — spronati alla rapacità, oltre che da un'educazione aberrante, da mille e mille pungoli: tutto uno sciame consenziente di adulatori, una nutrita schiera di funzionari depravati e di consiglieri corrotti, una folta cerchia di amici dissennati, un bel drappello di compari   . dissoluti e irresponsabili, che considerano le calamità pubbliche come un gradevole diversivo, anche quando non gliene viene niente in tasca. Non è finita: bisogna tener conto della magnificenza
ostentata, dei godimenti raffinati, dello sfarzo e dei giochi, al cui finanziamento non c'è ruberia che basti. Per soprammercato, bisogna tener conto dell'inettitudine e dell'ignoranza, che non sono mai così pervicaci come quando si accoppiano con la prosperità. Sono circostanze che potrebbero traviare anche l'indole più felice e ben disposta; quale sarà il risultato se esse si assommano a un'indole ingorda e maligna? Sarà come gettare olio sul fuoco!». Lorenzo Milanesi, Milano

Caro Milanesi,
Devo ricordare ai lettori anzitutto che gli «Adagi», come vengono abitualmente chiamati in italiano, sono un piccolo capolavoro dell'umanesimo europeo e l'opera che dette al suo autore, Erasmo da Rotterdam una straordinaria notorietà. E una
raccolta di proverbi, massime, aforismi, un patrimonio di saggezza, perspicacia e buon senso che Erasmo riunì e commentò con grande eleganza e sapienza. La prima edizione risale al 1500 e la seconda, ampliata, fu pubblicata dal grande editore veneziano Aldo Manuzio nel 1508 sotto il titolo per l'appunto di «Adagia». La più recente in Italia è quella dell'editore Salerno, a cura di Davide Canfora, pubblicata nel 2002.   .
Il passo da lei scelto, caro Milanesi, è uno dei più efficaci ed è, purtroppo, straordinariamente attuale. Posso soltanto ricambiare il regalo offrendo a lei e ai lettori un testo complementare, scritto quasi tre secoli dopo, in cui Paul H. D. d'Holbach (illuminista, amico di Diderot e di Alessandro Verri, collaboratore dell'Encyclopédie, morto a Parigi nel 1789, un mese prima della presa della Bastiglia) descrive i cortigiani del principe. Ecco un passaggio tratto da un volumetto dell'editore Melangolo di Genova intitolato «Saggio sull'arte di strisciare ad uso dei cortigiani». La bella traduzione è di Emanuela Scoiano di Pepe.
«L'uomo di Corte è senz'ombra di dubbio il prodotto più bizzarro di cui dispone la specie umana. (...) sembrerebbe lecito classificarlo grossomodo nella categoria degli esseri umani, fermo restando che gli uomini ordinari hanno soltanto un'anima, mentre l'uomo di Corte pare ne abbia diverse. (...) L'arte di strisciare è senz'altro la più difficile da praticare. Tale sublime disciplina è forse la più grande conquista fatta dall'essere umano. La natura ha posto nel cuore degli uomini un amor proprio, un orgoglio, una fierezza che sono le inclinazioni più penose da sconfiggere. L'anima si ribella contro tutto ciò che tende a deprimerla; reagisce vigorosamente ogni qualvolta viene colpita nel suo punto debole; e a meno di acquisire fin da subito l'abitudine a combattere, frenare e reprimere questo potente impulso, risulterà impossibile dominarlo in seguito, il cortigiano si dedica fin dall'infanzia a tale esercizio: uno studio utile forse quanto altri più enfaticamente decantati, e che denota in coloro che hanno acquisito la facoltà di soggiogare la natura, una forza di cui solo pochi sono dotati. È attraverso questi eroici sforzi, queste lotte, queste vittorie che si distingue un cortigiano esperto, oggetto dell'invidia dei suoi simili e della pubblica ammirazione».

Sergio Romano, corriere della sera, 30 maggio 2010

lunedì 25 ottobre 2010

emergenza rifiuti a napoli

Di seguito l'articolo sull'emergenza rifiuti a napoli, scritto da Guido Viale (del quale consiglio gli ottimi libri).
Comunque, di tutta questa vicenda non ho ancora capito quali sono le richieste degli abitanti: probabilmente, e comprensibilmente, la maggioranza dice "metteteli da un'altra parte ma non qua".
Berlusconi ha detto che risolverà velocemente il problema della puzza. Mi dà l'idea che la soluzione berlusconiana al problema sia: portiamo camion di terra (scavata dove? su terreni di proprietà di chi? la camorra è sempre in agguato...) e copriamo le discariche esistenti, così non si sente la puzza.
Nota: se si fa un buco scavando terra o sabbia, poi è facile riempirlo e trasformarlo in discarica abusiva, così la camorra ci guadagna due volte...
Visto che la spazzatura si accumula, cosa di meglio che portarlo al nord negli inceneritori, così da togliere la spazzatura dalle strade e fare guadagnare le aziende smaltitrici dall'altra?
Nel frattempo noi di Brescia facciamo la parte dei più stupidi della compagnia: siamo bravissimi nel ridurre i rifiuti e riciclare, lasciando così spazio ai rifiuti di altri "per solidarietà", visto che il nostro inceneritore previsto per 266.000 tonnellate si è trasformato, tramite le delibere della giunta formigoniana in lombardia, in uno che ne può bruciare 700.000.
Ah già, la lega ha detto che non arriveranno a brescia rifiuti da napoli....; ma se berlusconi chiede, in cambio del federalismo si possono ingoiare pure quelli ( o meglio , fare ingoiare i rifiuti alla popolazione bresciana, 'chè quelli della lega che contano ormai sono migrati a roma a godersi la pajata e il ponentino).

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I MIRACOLI DELL' EMERGENZA
Guido Viale

I principi di una corretta gestione dei rifiuti sono stati fissati dall' Ocse e da una direttiva dell' allora Comunità europea quasi cinquant' anni fa: primo, ridurre (soprattutto imballaggi e articoli usa e getta); secondo, riciclare, cioè recuperare in nuovi cicli produttivi i materiali di cui sono composti i rifiuti. TERZO, recuperare energia da ciò che non si può riciclare: bruciando le frazioni combustibili residue, in impianti che possono anche non essere inceneritori; e gassificando la frazione organica); quarto, portare in discarica solo ciò che avanza. Questi principi erano quindi già da tempo in vigore nel 1994, quando in Campania è stato istituito il Commissario straordinario alla gestione dei rifiuti; che, anche se a volte il ruolo è stato attribuito al Presidente della Regione, è sempre una figura che risponde del suo operato non al Consiglio regionale e alla popolazione locale, ma al Governo nazionale.
Sono pertanto i governi di destra e di sinistra che si sono succeduti da allora a dover rispondere del disastro che hanno combinato. Perché in questi sedici anni, di quello che prescrivono quei principi, in Campania non è stato fatto né tentato nulla; anche se per non fare niente sono stati spesi (fonte Garante degli appalti), 3 miliardi e 548 milioni di euro con 25 ordinanze emergenziali; quindi è ingiusto, oggi come ieri, darne la colpa a una popolazione vessata da sedici anni di gestione straordinaria dei rifiuti, dove tutto era permesso ai commissari e niente era controllato o controllabile; e dopo anni, per di più, di precedenti gestioni straordinarie, prima per il colera (dal 1973) e poi per il terremoto (dal 1980): un esempio da manuale di quella shock economy (lo sfruttamento a fini di lucro dei disastri, naturali o artificiali) raccontata da Naomi Klein. Limitandoci agli ultimi tre anni, le politiche di riduzione non sono state nemmeno prese in considerazione; eppure l' emergenza imponeva soprattutto quelle, che sono a costo zero. La raccolta differenziata era stata da tempo affidata a consorzi obbligatori di Comuni, riempiti di personale - ex LSU (lavoratori socialmente utili) e altro - e in molti casi infiltrati dalla camorra, senza mai dotarli di mezzi e attrezzature per operare e di un' organizzazione del lavoro degna di questo nome.
Si stima che tra gestioni private, pubbliche e miste, gli addetti ai rifiuti urbani in Campania siano oltre 25mila, mentre un rapporto ragionevole con la popolazione non dovrebbe far loro superare i 6-8mila. Oggi questi consorzi, con il loro personale, i loro debiti, i loro crediti inesigibili, i loro gestori, sono stati riunificati e lasciati in eredità alle Province, che dovrebbero provvedere, senza altri mezzi, alla gestione di tutto il ciclo dei rifiuti urbani, abbandonato in stato comatoso da Bertolaso. Il problema principaleè questo, ed è un problema sociale. Senza una soluzione per i lavoratori in esubero, riorganizzare il ciclo dei rifiuti è impossibile. Peggio ancora è andata per la separazione meccanica. La Campania, grazie a fondi UE, è la regione d' Italia, e forse d' Europa, più dotata di impianti di trattamento meccanico biologico: cioè Stir (già Cdr). Ce ne sono sette, con una capacità che eccede l' intera produzione regionale di rifiuti; con poche modifiche potrebbero permettere anche il riciclo- senza bisogno di successivo incenerimento, che è un processo molto costoso, oltre che nocivo - di quasi tutto quello che vi entra. Ma quegli impianti erano stati mandati in malora dal gruppo Impregilo (cui, fino al 2006, era stata affidata la gestione di tutto il ciclo dei rifiuti campani), che i rifiuti li voleva solo impacchettare, senza perdere tempo nel separarli, per accumularli in vista degli incentivi che avrebbe incassato bruciandoli nell' inceneritore di Acerra: di qui i sei milioni di ecoballe accumulati nelle campagne di Napoli e Caserta. Berlusconi (con la legge 123/08) aveva deciso di chiudere questi impianti e venderli ai privati come rottame, perché voleva anche lui bruciare tutto senza separare il "secco" dall' "umido". La stessa legge prescriveva infatti la costruzione di quattro inceneritori (poi diventati cinque), con una capacità che eccedeva anch' essa l' intera produzione regionale di rifiuti; e ciò nonostante che, sempre per la stessa legge, entro il 2010 si dovesse raggiungere il 50 per cento di raccolta differenziata (esempio da manuale di leggi fatte senza crederci). Ma siccome di inceneritori ce ne è - e ce ne sarà per molto tempo - uno solo, quello di Acerra, inaugurato in pompa magna l' anno scorso, ma che funziona poco e male, Bertolaso era corso ai ripari: aveva cambiato il nome agli impianti (da Cdr a Stir), utilizzandoli come frullini per tritare rifiuti indifferenziati e poi mandarli a bruciare nell' inceneritore o a putrefare nelle discariche. Di qui i miasmi che appestano la popolazione che ci abita accanto, oltre al percolato che dilava nelle falde e al metano che ne esala, moltiplicando il contributo italiano all' effetto serra.
Di impianti di compostaggio, poi, neanche a parlarne: quelli che già c' erano sono stati usati come depositi di ecoballe e in Campania i Comuni che fanno la raccolta differenziata dell' organico devono spedirlo in Veneto o in Sicilia a costi proibitivi. Dunque, per far "sparire" (dalla vista) i rifiuti non restavano che le discariche. La legge 123/2008 ne impone undici (poi diventate dodici). Sono quasi tutte in aree naturalistiche protette, in cui la legge italiana e la normativa europea vieta di insediarle (esempio da manuale di una legge che ne contraddice un' altra senza abrogarla). Prima di lasciare, Bertolaso, usando l' esercito - come già aveva fatto prima di lui De Gennaro con Prodi - per raccogliere i rifiuti per strada, ma soprattutto per difendere discariche e inceneritore dallo sguardo indiscreto di sindaci e popolazione, aveva già quasi riempite tutte le discariche esistenti al momento del suo insediamento; ne aveva fatta costruire una nuova (quella, contestatissima, di Chiaiano), per poi lasciare la patata bollente delle due di Terzigno, nel parco del Vesuvio, oggi epicentro della rivolta, a chi sarebbe venuto dopo di lui: senza soldi, senza poteri, senza progetti. Dunque, Berlusconi in Campania ha fatto un miracolo: la discarica. E i risultati - prevedibili, e previsti da chi non voleva chiudere gli occhi - si vedono.


Repubblica — 24 ottobre 2010


sabato 23 ottobre 2010

mostre a milano: dali - triennale

Due belle mostre a Milano :
la prima di Dalì, "il sogno si avvicina" a Palazzo Reale fino al 30 gennaio 2011 http://www.mostradali.it/home.php; abbiamo avuto la fortuna di entrare alla mostra insieme ad una scolaresca di bambini di 4a elementare, e ci siamo detti: "vediamo come spiegano Dalì ai Bambini". La guida era molto preparata e coinvolgente, ed anche la classe molto preparata. bella esperienza. Poi ovviamente abbiamo visto la mostra per conto nostro; tra le cose importanti l'installazione di Mae West, con l'invisot a sedersi sul divano a labbra e fare magarila foto di gruppo. raro anche il grande trittico con la giraffa, che si collega poi al video realizzato prendendo spunto dai disegni di dalì in collaborazione con Walt Disney (i disegni preparatori sono ovviamente esposti alla mostra).

Altra mostra alla Triennale, "Immagini inquietanti" fino al 9 gennaio 2011 (apre alle 10,30 del mattino...)
La mostra è vietata ai minori di 14 anni, effettivamente un pò di materiale crudo c'è: le foto delle stragi in Ruanda, ad esempio, o quelle sadomaso di Mattelthorpe.
In particolare mi sono piaciutele immagini di:
Robert Mattlethorpe: i soggetti sono quelli che sono, ma era un grande maestro del bianco e nero e non solo)
Paolo Pellegrin sulla guerra in Iraq http://cpn.canon-europe.com/content/ambassadors/paolo_pellegrin.do
Elena Dorfman: i suoi still lovers http://elenadorfman.com/art/still-lovers/index.html sono bambole gonfiabili da compagnia anti solitudine (non solo sessuale): forse la cosa più inquietante della mostra.
Spephanie Sinclair: le sue self immolation, donne che si danno fuoco pur di sfuggire dai mariti http://www.stephaniesinclair.com/selfimmolation/ e il reportage sulle ragazzine circoncise in indonesia sono molto intense.
Donna Ferrato mi ha lasciato perplesso: fotografa molto brava, documenta violenze domestiche che però mi sembrano un pò costruite ad uso della fotocamera: mah.... http://www.google.it/images?q=donna+ferrato&oe=utf-8&rls=org.mozilla:it:official&client=firefox-a&um=1&ie=UTF-8&source=univ&ei=VaTCTJ_CFJHsOfDw1MoL&sa=X&oi=image_result_group&ct=title&resnum=1&ved=0CCwQsAQwAA&biw=1270&bih=820

un articolo sulla mostra di dalì uscito sul sole 24 ore di domenica 19 settembre:
Paesaggi da sogno alla Dalí
di Ada Masoero

Pensiamo a Dalì: le immagini che ci appariranno saranno oggetti solidi che si liquefanno, animali chimerici e mutanti, icone della classicità sottoposte a traumatiche (e ironiche) dissezioni. Del tutto improbabile che si pensi al paesaggio. Eppure per lui il paesaggio rappresentò sempre un'ossessione. E non un paesaggio qualunque, né un paesaggio immaginario, ma quel paesaggio: l'Alto Ampurdán, la regione rocciosa e aspra dove nacque (a Figueres, nel 1904), che si allunga sulle sponde del Mediterraneo appena oltre il confine con la Francia, fino a Girona.
La mostra suggestiva curata da Vincenzo Trione esplora per la prima volta questo aspetto così centrale della sua arte, allineando un nucleo di opere che, come sempre in Dalì, si rivelano dense di simboli, intessute di metafore e di allegorie. E tutte bagnate dalla prodigiosa luce d'oro e di cristallo che solo le sponde del Mediterraneo sanno regalare.
Non a caso Dalì affermava che il paesaggio «esiste solo sulle rive del Mediterraneo». Qui, diceva, «il reale e il sublime quasi si toccano. Il mio paradiso mistico inizia nella piana dell'Ampurdán, è circondato dalle colline degli Alberes e trova il suo culmine nella baia di Cadaqués. Questo paese è la mia ispirazione permanente».
Il percorso della mostra, allestita da Oscar Tusquets Blanca che gli è stato lungamente amico, ci accompagna attraverso questa avventura dell'occhio e della mente aprendosi con spazi immersi in un buio fosco, che acutizza ulteriormente il nitore delle sue immagini. Qui, dopo la celebre Venere a cassetti (i cassetti dell'inconscio, che solo la psicoanalisi sa aprire: e dire che Freud lo liquidava con «Dalì, quel fanatico!»), appaiono le opere in cui saccheggia l'arte del passato, con un approccio che anticipa il post-moderno. Come nella magnifica Pietà in cui rilegge il capolavoro vaticano di Michelangelo traforando il corpo della Vergine e del Cristo per lasciarvi apparire il mare e gli scogli di Port Lligat. Insieme, ecco gli omaggi al venerato Velázquez, a Claude Lorrain, all'Angelus di Millet (oggetto anche di un suo affascinante scritto teorico) e a de Chirico, che invece lo aborriva, considerandolo un volgare plagiario.
Poi irrompe la guerra: prima la guerra civile spagnola, che gli detta lo sconvolgente Volto della guerra, con quel cranio mummificato, fra serpi banchettanti, dai cui orifizi si affacciano sempre nuovi crani in una mise en abîme vertiginosa; poi l'olocausto nucleare, a cui dedica Idillio atomico, con l'aereo che scarica le bombe come fossero tossiche uova d'insetto. Le stanze successive ci guidano nel più noto immaginario surrealista, con le dislocazioni di senso, le scintille scatenate dagli accostamenti incongrui e, dovunque, ancora quel suo paesaggio allucinatorio che emerge, con i suoi fantasmi, dal profondo. È qui la ricostruzione, filologicamente minuziosa, della Stanza di Mae West, un'installazione percorribile realizzata da Dalì e Tusquets nel 1975, ora allestita per la prima volta non come la si vede a Figueres ma proprio come Dalì l'avrebbe voluta, se la tecnologia del tempo lo avesse consentito: con le telecamere che riprendono e proiettano l'immagine dei visitatori adagiati sulle labbra divenute un morbido sofà, incorniciate dalle cortine di capelli, sullo sfondo del naso-caminetto e dei quadri-occhi. Da ultimo, prima della sala finale, con i dipinti ideati per Walt Disney e il film (realizzato solo di recente), vanno in scena gli enigmatici paesaggi dell'assenza e del silenzio, fino al Ratto d'Europa, dove lui, che pure detestava l'astrazione (ne fece le spese anche Piet Mondrian, a cui dedicò un feroce calembour), evocando le zolle tettoniche europee raggiunge un'astrazione ancora una volta talmente profetica da anticipare Shibboleth, 2007, la "crepa" aperta da Doris Salcedo nella Turbine Hall della Tate Modern.

giovedì 21 ottobre 2010

dalì e disney

magnifico, vero genio lui e bravissimi gli animatori di oggi.


http://www.nannimagazine.it/articolo/5651/Salvador-Dali-in-Italia-Destino-il-corto-realizzato-con-Disney

un miliardo di non credenti

Phil Zuckerman Atheism and Secularitydi Gilberto Corbellini in “Il Sole 24 Ore” del 26 settembre 2010.
L' ateismo e le sue articolazioni storico-concettuali sono temi caratterizzabili non solo a livello filosofico-speculativo, ma anche sociologico-demografico.
E per capire le dimensioni demografiche e socio-antropologiche dell' ateismo e della secolarizzazione a livello internazionale è imprescindibile la lettura dei saggi di Phil Zuckerman, sociologo al Pitzer College. Che ha anche curato per i tipi di Praeger due volumi intitolati Atheism and Secularity, di cui è al momento disponibile solo il primo.
I saggi di Zuckermann sono zeppi di dati quantitativi, da cui egli deriva anche interessanti e p sico-socio-biologicamente plausibili conclusioni.
Intanto, quanti sono gli atei nel mondo? Ebbene i non credenti, cioè le persone che non credono in un dio personale né in entità ultraterrene, sono tra i 500 e i 750 milioni, e se a questi si aggiungono le persone che sono religiose ma non si sentono parte «di nessuna chiesa», o persone che semplicemente si dichiarano non religiose ma «credono in qualcosa», il numero potrebbe quasi raddoppiare.

Un bel risultato considerando che nel 1900 gli atei erano stimati allo 0,2% della popolazione mondiale.
Fatto sta che oggi gli atei si collocano, per numerosità, dopo i cristiani, gli islamici e gli induisti. A livello geografico, i paesi Europei (soprattutto Nord Europa), Giappone, Corea del Sud e Israele hanno le più alte proporzioni di atei e persone non religiose. Per esempio in Svezia parliamo di oltre l'80% della popolazione che non crede in un dio personale (gli atei sono il 23%), mentre in Israele quasi il 40% si dichiara ateo o agnostico, e se si contano i non religiosi si arriva al 73 per cento. Sono i paesi islamici quelli con la più bassa proporzione di atei e non religiosi.
Contrariamente a quello che si sente spesso dire, nel mondo gli atei sono in aumento e anche il processo di secolarizzazione è in espansione: si calcola che 8,5 milioni di persone diventano atei o non religiosi ogni anno. I paesi dove gli atei sono proporzionalmente più numerosi sono quelli economicamente più sviluppati e con i più alti livelli di scolarità e qualità della vita. Non si tratta dunque solo dei pur numerosi paesi che hanno avuto governi la cui azione politica includeva la propaganda contro la religione.

I maschi tendono a essere meno religiosi delle femmine, a essere giovani e ad avere un livello elevato di istruzione. Le ricerche di Zuckermann e altri sociologi mostrano che ateismo e secolarizzazione presentano numerosi tratti positivi, come livelli significativamente più bassi di pregiudizio, di etnocentrismo, di razzismo e di omofobia. Ma anche un supporto maggiore all'eguaglianza femminile. Gli atei allevano i loro figli promuovendo in loro la maturazione di un pensiero indipendente e senza ricorrere a punizioni corporali.
A livello sociale, salvo che per i suicidi, gli Stati e le nazioni con un'elevata proporzione di popolazione secolarizzata presentano indici di qualità della vita superiori rispetto a una proporzione più elevata di persone religiose. Va precisato che Zuckermann non ignora gli studi che sembrano dire cose diverse, ma dimostra che o sono metodologicamente mal impostati, o che mettono l'accento su aspetti diversi.
È vero per esempio, che le persone religiose sono meno a rischio per certi disturbi del comportamento, o consumo di alcolici e droghe, nonché infrangono meno le leggi. Ma per quanto riguarda comportamenti più violenti e gli omicidi, gli atei non sono più a rischio dei religiosi di incorrervi. Un altro luogo comune che gli studi demografici e sociologici sfatano è quello che gli atei non abbiano valori. Ne hanno di molto forti. Sono carenti in quei "valori" che prevalgono tra le persone molto religiose, come il nazionalismo, i pregiudizi socio-sessuali, l'autoritarismo, l'antisemitismo, la chiusura mentale e il dogmatismo. Come ha scritto anche il noto psicologo israeliano Benjamin Beit-Hallahmi, «la tesi che gli atei siano in qualche modo più portati a essere immorali è stata seppellita da tonnellate di studi».

Zuckermann sostiene anche, giustamente, che chiedere alle religioni di aprirsi ai valori secolari è come pretendere che si autocontraddicano. Peraltro la storia delle religioni dimostra che quelle che hanno più successo, nei contesti in cui vi sono le condizioni per proliferare, sono le più integraliste. Per quanto riguarda il rapporto tra ateismo e cultura scientifica, i dati storici parlano da soli. Agli inizi del XX secolo, James Leuba produsse dati statistici da cui risultava che gli scienziati tendono a non essere religiosi, e che la tendenza appariva in crescita. Tra il primo sondaggio, che effettuò nel 1914 tra i più affermati scienziati statunitensi, e quello che fece nel 1933, la proporzione di chi credeva in un dio personale fu rispettivamente del 32% e del 15 per cento.

Alla fine del Novecento la proporzione di scienziati affiliati alla National Academy of Science che credono in un dio personale era il 10% in generale, e i15% tra i biologi. Anche le inchieste che cercano di distinguere tra teisti, cioè scienziati credenti in un dio personale, e deisti, che credono in una divinità impersonale, non cambiano sostanzialmente il dato. Comunque, gli atei, non stranamente, continuano a essere la vera ossessione degli integralisti.
Diverse indagini condotte negli Stati Uniti convergono nel mostrare che in diversi Stati, soprattutto quelli della cosiddetta Bible Belt, essere atei rappresenta un marchio negativo ed è fonte di discriminazione più che essere mussulmani. Quando si dice che le religioni stanno tornando, in realtà si confonde la religiosità con il fenomeno socioculturale che le vede trasformarsi in strumento di lotta politica.
Quello che purtroppo si augura anche papa Benedetto XVI, come ha ribadito durante la sua visita in Gran Bretagna. Uno fenomeno che riguarda quelle aree dove c'è o torna la povertà economica, e dove c'è o torna l'ignoranza. La religiosità vissuta come fatto privato, stigmatizzata da Benedetto XVI, è un fenomeno culturale molto diverso. Che non solo è compatibile con la laicità, ma a certe condizioni può arricchirla. Phil Zuckerman (a cura di), «Atheism and Secularity. Vol. 1, Issues, Concepts and Definitions», Praeger, Santa Barbara (California), pagg. 276.

Ma che razza di gente stiamo diventando?

Questa è una lettera a Furio Colombo, pubblicata su "il fatto" di mercoledi 21 ottobre.
Ma che razza di gente stiamo diventando? E io la incrocio anche al delitto in puglia: ma cosa ha nella testa la gente che va in pellegrinaggio a vedere la casa del delitto?
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Caro Colombo,
mi chiedo, giorno dopo giorno,
dove è finita la dignità. Vorrei
chiederti: ma cosa sarebbe successo
se a Roma, nell’episodio di violenza
della metro, a colpire con un pugno
fosse stato un ragazzo RUMENO
contro una ragazza Italiana? Si
sarebbero accesi tutti i riflettori,
tutti avrebbero detto “ecco il
b a s t a rd o ”, basta rumeni, tutti cattivi
e sarebbe senza dubbio in carcere.
Ora invece, è successo l’opposto, il
ragazzo italiano ha ucciso una donna,
una mamma, che come colpa è
rumena. I riflettori non si accendono,
anzi, gli amici e parenti del ragazzo
dicono “è un bravo ragazzo,
lasciamolo stare”. Lasciamolo stare?
Ma come mai uno che ammazza con
un pugno, che è già fra l’altro stato
denunciato poche settimane prima
per lesioni, è sempre beato a casa,
riceve gli amici, e continua la sua vita
tranquillo? Come mai l’opinione
pubblica non si indigna per lui e si
sarebbe indignata se fosse stato lui il
rumeno? La giustizia è uguale per
tutti? Ma che razza di gente stiamo
d i ve n t a n d o ?
Anne
CI SONO DUEdomande
importanti in questa lettera. Cercherò di
rispondere non senza avere notato che
nessuna televisione, nessun giornale, nessun
collega si è posto il problema. Può essere visto
in due modi: se era rumeno il ragazzo. Se era
italiana la vittima. Inutile fingere. Il “ra g a z zo
italiano” (quello della terribile storia vera) non
ha una cattiva stampa, niente di
proporzionato al pugno vile e potente che ha
buttato a terra una persona già priva (a
causa del pugno) di conoscenza. Le
telecamere ci danno non un presunto
colpevole ma l’esecutore materiale di un
delitto. Un ufficiale di Marina presente per
caso e rapido nel capire, ha fermato “il
ra g a z zo ” che se ne stava andando
tranquillamente. A giudicare dalla solidarietà
e dalle ovazioni dei coetanei amici, “il
ra g a z zo ” appare essere del tutto consapevole
della forza del suo pugno, apprezzato e
approvato da persone come lui, “ra g a z z i ”
italiani dediti alla violenza. Se non fosse stato
italiano, il nostro “e ro e ” sarebbe un mostro,
foto e tatuaggi pubblicati dovunque e
promesse di espulsione immediate dall’Italia
di tutto il suo gruppo o etnia. Quanto alla
vittima, se italiana, la celebrazione, i fiori, le
immagini, le dichiarazioni di ministri e di
vescovi ci avrebbero tenuti occupati per giorni.
Ma la cosa più importante è questa.
L’assassino di una donna italiana, persino se
italiano, per i media sarebbe stato subito “un
b a l o rd o ” e ci saremmo tutti interrogati sul
vuoto nella vita dei nostri giovani. E, vi
assicuro, nessuno avrebbe osato inscenare il
teatrino della solidarietà all’assassino. Devo
ripetere, con lo stesso stupore, la seconda
domanda di Anne: ma che razza di gente
stiamo diventando?

mercoledì 20 ottobre 2010

le storie, rai3, di Corrado Augias

Quando si è in pensione, una delle opportunità è quella di guardare la TV mentre ci si prepara il pranzo (addio pappa fatta della mensa!).
E' bellissima la trasmissione di Corrado Augias
Le Storie - diario italiano
In onda su RAI3 dal lunedì al venerdì alle 12.40

Oggi era ospite il prof. Andrea Segré, autore del libro "Lezioni di ecostile".
Si è parlato tra le altre cose dello spreco degli alimentari e del fatto che molti possono essere consumati anche un poco dopo la scadenza. Il 28 ottobre prossimo sarà la giornata contro lo spreco.
Le storie possono essere viste anche su web, anche le vecchie puntate, andando su www.lestorie.rai.it

Nota ecologica: una sovraimpressione annuncia che le luci dello studio sono volutamente tenute basse per risparmio energetico.
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Otto anni di programmazione, più di milleduecento puntate.

Dalle 12,45 alle 13,10, giorno dopo giorno, Corrado Augias ripropone "Le Storie - diario italiano", appuntamento con la stretta attualità, la politica, la cultura e le storie che cambiano il nostro Paese. In particolare, in questa edizione, sarà centrale il ragionamento attorno ad alcune questioni: che uomo è diventato l'italiano medio? E come è cambiato il Paese in cui vive?

Il popolare giornalista e scrittore affronterà, di volta in volta, diverse tematiche con il contributo di grandi ospiti, in un viaggio quotidiano alla scoperta degli italiani.

"Le Storie - diario italiano" è una "piccola trasmissione", due poltrone e pochi ospiti in studio, ma d'altra parte l'impegno dichiarato sin dall'inizio è stato quello di fare e indurre a fare "qualche ragionamento".

Su quelle due poltrone, di anno in anno, è capitato di sentire ragionare di letteratura, storia e filosofia con: Luis Sepulveda, Andrea Camilleri, Giulio Giorello, Umberto Eco, Luciano Canfora, Miriam Mafai, Eva Cantarella, Claudio Magris, Dacia Maraini, Antonio Scurati; di spettacolo con: Giorgio Albertazzi, Gigi Proietti, Dario Fo e Franca Rame, Francesco de Gregori, Mario Monicelli; di scienza con: Umberto Veronesi, Carlo Flamini, Edoardo Boncinelli, Danilo Mainardi e, per la politica, Le Storie si pregia, tra gli altri, di aver avuto ospite il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Clicando su "I nostri libri" troverai alcuni suggerimenti bibliografici per approfondire i temi trattati in trasmissione e che ti hanno maggiormente colpito.

centrali nucleari - Monguzzi: Sono sicure ma non convengono più

le centrali nucleari sono un affare solo per quelli che le propongono (e i lori amici...)
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Monguzzi: Sono sicure ma non convengono più


CARLO Monguzzi, ambientalista del Pd ex verde, perché ancora tanta avversione per le centrali nucleari?È la paura di incidenti?
«No, anche se il rischio zero non esiste le centrali di nuova generazione hanno circuiti di raffreddamento più efficaci. Sono i conti a non tornare».
Vale a dire?
«Non è vero che con il nucleare si risparmia. Anzi, costa più di altre fonti di energia. Questo governo lo sa così bene che ha imposto al Gestore della Rete di trasmissione nazionale, che compra l' energia elettrica dai produttori, di privilegiare a suo tempo quella prodotta con il nucleare, che per il prezzo non sarà competitiva».
Perché?
«Secondo Citigroup, il gigante bancario americano, un megawattore prodotto con il nucleare costa 70 euro. Uno prodotto con il gas, 50. Il fotovoltaico negli Usa oggi costa come il nucleare, dal prossimo anno costerà meno per l' esplosione del mercato».
Il confronto con i prezzi francesi è favorevole al nucleare.
«Edf ci fa pagare 34 euro per un megawattora prodotto con il nucleare perché sono prezzi protetti dal governo francese. Ma l' azienda ha già annunciato che, con la liberalizzazione, dovrà salire ad almeno 60 euro per restare sul mercato».
Il nucleare dà lavoro.
«Secondo le associazioni dei costruttori e delle imprese elettrotecniche ed elettroniche, il nucleare dà lavoro a 6mila addetti a centrale per la costruzione, a 300 per la gestione. Con l' efficienza energetica (doppi vetri, cappottature di edifici, caldaie a condensazione, motori elettrici nell' industria) Confindustria stima 1,6 milioni di posti in Italia. In proporzione alla popolazione, almeno 250mila in Lombardia. Nel 2008, nella sola provincia di Milano, i piccoli impianti di microcogenerazione che producono energia elettrica dal calore hanno generato mille megawatt. Insistendo su questa strada, aggiungendo il risparmio energetico e l' uso dell' energia solare, si possono abbondantemente superare i 1.600 megawatt di potenza della centrale che vogliono Romani e Formigoni». - (ste. ro.)

Repubblica — 19 ottobre 2010 pagina 7 sezione: MILANO

domenica 17 ottobre 2010

La neolingua del cavaliere

di Gustavo Zagrebelsky
( estratto dell’intervento al Seminario di Firenze di Libertà e Giustizia del 16-17-18 Ottobre)
Le considerazioni che seguono sono sotto il segno di un celebre motto di Friedrich Schiller: «La lingua poeta e pensa per te». Nella lingua del nostro tempo, si nota la presenza sovrabbondante di un lessico che non sarà certo quello di Schiller ma è forse piuttosto quello di Berlusconi, dei suoi e dei loro mezzi di comunicazione che si esprimono come lui. E noi abbiamo cominciato a parlare come loro. Ciò può essere interpretato come un´intrusione nel nostro modo d´essere e di comunicare, oppure come un´emersione, che non crea nulla, ma solo dà voce. In questo secondo caso, la radice sarebbe più profonda, la malattia più pervasiva. In ogni caso, l´uniformità della lingua, l´assenza di parole nuove, l´ossessiva concentrazione su parole vecchie e la continua ripetizione, sintomi di decadenza senile, è tale certo da produrre noia, distacco, ironia e pena ma ñ molto più grave ñ è il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio kitsch, forse proprio per questo largamente diffuso e bene accolto.
«Scendere» (in politica) Qual è la via che conduce alla politica? O dal basso o dall´alto. Dal basso, vuol dire dall´interno di un´esperienza politica che, mano a mano si arricchisce e porta all´assunzione di sempre più vaste responsabilità e di più estesi poteri. Ciò equivale a una carriera politica e corrisponde all´idea della politica come professione, nel senso classico di Max Weber. La legittimità dell´aspirazione al potere politico è interna alla politica stessa, alle sue esperienze, alle sue procedure e ai suoi rituali. Oppure la via può essere la discesa, quando si fanno valere storie, competenze e virtù maturate in altre e più alte sfere. La politica non è, allora, una professione, ma una missione. La legittimità dell´aspirazione politica è esterna alla politica come professione, anzi sta proprio nel suo essere estranea, aliena. (….) Trasferita dalla salvezza delle anime alla salvezza delle società, è la sempiterna figura della missione redentrice che un «salvatore» assume su di sé, lasciando la vita beata in cui stava prima lassù, scendendo a sacrificarsi per gli infelici che stanno quaggiù. Teologia politica allo stato puro, cioè trasposizione di schemi mentali e suggestioni dalla teologia alla politica.
C´è poco da ridere o anche solo da sorridere. È cosa seria. È una forma mentale perenne e universale, ricorrente nella storia delle irruzioni in politica di tutti i salvatori che si accollano compiti provvidenziali. I «re nascosti», gli «unti del Signore» che gli uomini comuni devono riconoscere, fanno la loro apparizione nella storia dei popoli in ogni momento di difficoltà; gli «uomini della provvidenza», comunque li si denominino e quale che sia la forza provvidenziale che li manda e dalla quale sono «chiamati» (un Dio, la Storia, il Partito, la «Idea», la Libertà, il Sangue e la Terra, in generale il Bene dell´umanità) sono appena alle nostre spalle, anzi sono tra noi. La secolarizzazione del potere, premessa della democrazia, non li ha affatto scacciati. (….)
Quest´idea è pervasiva e va al di là degli schieramenti politici. L´invocazione di un «papa straniero», salvatore della Patria anch´esso, sia pure di segno provvidenziale opposto a quell´altro, è la dimostrazione che questa mentalità è penetrata profondamente ed estensivamente nel modo comune di considerare la politica e la salvezza politica. Certo, questa formula ha qualcosa d´ironico. Ma c´è da scommettere che, se un tale personaggio, dal mondo della finanza, dell´industria o dell´accademia, farà la sua apparizione, questa sarà circondata dagli stessi caratteri: anche lui «scenderà» in politica e il suo non sarà un «ingresso» ma una «discesa». Si renda o non si renda conto del significato di questo linguaggio che, ormai entrato nell´uso, gli sembrerà del tutto naturale, ovvio.
La parola-chiave è dunque «scendere». Scendere da dove? Da una vita superiore. Scendere dove? In una vita inferiore. Per quale ragione? Per rispondere a un dovere, al quale sacrificarsi. Quale dovere? Salvare un popolo avviato alla perdizione. Con quali mezzi? Mezzi politici. Dunque: «scendere in politica». Non con i mezzi corrotti del passato però, ma con mezzi inediti e con compagni d´avventura nuovi di zecca. Tutto dev´essere reso «nuovo», generato a un´altra vita. Ciò che è vecchio sa di corruzione. Per questo, si deve scendere dall´alto, dove c´è virtù, purezza, capacità di buone opere, e non dare l´impressione di salire dal basso, da dove nascono solo creature che si alimentano e vegetano nella putredine.
«Contratto» Da dove si scende, è ben detto fin dall´inizio, in quel volumetto del 2001, intitolato Una storia italiana, dove la vita del protagonista, prima della «discesa», è rappresentata come un idillio familiare, intriso di buoni sentimenti, di felicità nel suo rapporto con la natura, come una sequela di successi professionali, come una dedizione, già allora, al bene di tutti coloro che hanno a che fare con lui. Ma ora, c´è un popolo intero che ha bisogno di soccorso. Non rispondere alla chiamata, sarebbe un atto d´egoismo. Noi miscredenti pensiamo che la politica sia il luogo del potere, necessario ma pericoloso. No: è il mezzo per portare soccorso, da agevolare dunque. Resistere alla chiamata o opporsi al chiamato significa volere il male del bisognoso (…).
Questi concetti, ripetuti poi infinite volte, dovrebbero essere analizzati uno per uno. Non sono detti a caso. Ci deve essere una mente: la condizione beata di partenza, il sacrificio personale consacrato al paese infelice e bisognoso d´aiuto, il soccorso, la chiamata, l´altruismo, le armi. C´è già in nuce tutto quanto seguirà. Compreso il rito elettorale, inteso non come laico confronto tra persone e programmi, ma come una sorta di giudizio di Dio affidato al popolo (vox populi, vox dei). Il programma elettorale diventa qualcosa di diverso da una proposta di governo. Diventa rivelazione della propria missione salvifica, «buona novella» che deve essere annunciata tramite «apostoli della libertà». L´investitura elettorale è la risposta all´annuncio. Il «contratto con gli Italiani» è cosa assai meno ingenua di quel che appare. È la sanzione dell´avvenuto riconoscimento del salvatore da parte dei salvati, da parte del suo popolo. La funzione mistica attribuita a questo «contratto», presentato come tavola fondativa d´un patto indistruttibile e sacro, è completamente al di fuori della logica della democrazia rappresentativa. Si spiega nella logica del disvelamento e del riconoscimento, della discesa dall´alto che incontra un bisogno e un´invocazione dal basso.
«Amore» Nel discorso con il quale fu dato l´annuncio (il Kérygma) della «discesa» in politica (26 gennaio 1994), un passaggio-chiave, una frasetta che sembra buttata lì, fu «L´Italia è il Paese che io amo». Così anche l´amore faceva la sua discesa nel linguaggio della politica, non senza conseguenze pervasive. Il neonato Partito Democratico, a sua volta, ritenne di non dovere essere da meno e rispose per le rime nel «Manifesto» fondativo del 2007, che inizia così: «Noi, i democratici, amiamo l´Italia». Questo è un esempio delle conseguenze perverse dell´imitazione nel campo della comunicazione politica. Le due dichiarazioni d´amore si equivalgono? No, non si equivalgono. La prima («L´Italia è il Paese che io amo») è una dichiarazione sovrana che proviene da uno che ha già detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita felice in sé e per sé, oppure avrebbe potuto prescegliere un altro luogo per vivere o per discendere sulla terra dei comuni mortali. L´Italia, così, è la prediletta che, in virtù di questa predilezione, dovrà ricambiare l´amore che tanto gratuitamente le è stato donato. La seconda dichiarazione è tutt´altra cosa. Non è un atto sovrano. È un atto obbligato. Potrebbe un partito politico che, ovviamente, è dentro, non sopra il Paese al quale chiede consensi, dire: «Tu non mi piaci affatto». Questa dichiarazione, come dichiarazione d´amore, suona falsa perché è obbligata e l´amore obbligato che cosa è? Può essere un´adulazione interessata. Anche la prima, naturalmente, lo è, ma si presenta in tutt´altro modo, come un dono d´amore, una dedizione gratuita, un atto commovente. Chi potrebbe resistere a cotanto amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe, a sua volta, non riamarlo?
E se non riama? Se l´amore non è corrisposto? Se non c´è corrispondenza a un amore così grande che è quasi un sacrificio, è perché qualcuno odia. Solo apparentemente, le parole d´amore, spostate dal campo che è loro proprio, cioè quello delle relazioni interpersonali concrete, e riversate nella campo della politica, cioè dei rapporti impersonali astratti, sono parole benevolenti. In realtà sono parole violente, destinate a provocare divisioni radicali, contrapposizioni e incomunicabilità, tra «noi che amiamo» e «voi che odiate». Valga, tra le tante possibili, questa citazione: «Noi non abbiamo in mente un´Italia come la loro, che sa solo proibire ed odiare. Noi abbiamo in mente un´altra Italia, onesta, orgogliosa, tenace, giusta, serena, prospera, un´Italia che sa anche e soprattutto amare» (L´Italia che ho in mente, Milano, Mondadori, 2000, p. 280). Se guardiamo all´Italia di oggi, possiamo tristemente riconoscere che la spaccatura è avvenuta e non sappiamo come si potrà sanarla.
«Assolutamente» Un avverbio e un aggettivo apparentemente innocenti, da qualche tempo, condiscono i nostri discorsi e in modo così pervasivo che non ce ne accorgiamo «assolutamente» più: per l´appunto, assolutamente e assoluto. Tutto è assolutamente, tutto è assoluto. Facciamoci caso. È perfino superfluo esemplificare: tutto ciò che si fa e si dice è sotto il segno dell´assoluto. Neppure più il «sì» e il «no» si sottraggono alla dittatura dell´assoluto: «assolutamente sì», «assolutamente no». (…) Il predecessore dell´assoluto è il «categorico» d´un tempo, quando non c´era posto per le sfumature ma solo per le convinzioni granitiche, per gli «imperativi categorici» presi dalla filosofia morale e gettati nell´agone politico. Ciò che l´assoluto esclude è «il relativo». Il relativo è ciò che costringe al confronto e induce a pensare. L´assoluto, invece, comanda e pretende obbedienza, assolutamente. Il relativo è proprio dei deboli, perché è insidiato dal dubbio; l´assoluto è forte perché, insieme ai dubbi, esclude la possibilità di venire incontro, di cercare accordi e stabilire compromessi con chi non condivide i nostri «assoluti». Tra assoluto e fanatico c´è parentela stretta in uno stesso mondo spirituale. (….)
«Fare-lavorare-decidere» La «discesa» dalla quale abbiamo iniziato a che cosa mira? La rigenerazione ch´essa promette in che cosa consiste? Non nella salvezza delle anime, né nell´elevazione civile della società e nemmeno nella potenza della Nazione o dello Stato, come fu per diverse «discese salvifiche» in altri tempi e luoghi. Lo dice ancora una volta il linguaggio del nostro tempo, così impregnato di aziendalismo e produttivismo. L´idea che la vita politica si basi su un legame sociale che ñ certamente ñ implica ma non si esaurisce in benessere materiale, consumi, sviluppo economico, è totalmente estranea al modo di pensare attuale e alla lingua che l´esprime. L´Italia è «l´azienda Italia» e tutti devono «fare sistema», «fare squadra» perché possa funzionare. Basterebbe pensare alla politica delle «tre I», slogan lanciato a suo tempo per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana: inglese, Internet, impresa. Dalla scuola si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura. La scuola, davvero, si orientava verso il «saper fare», cioè verso la produzione di «risorse umane» finalizzate allo «sviluppo» dell´azienda e da utilizzare intensivamente fino al limite oltre il quale ci sono gli «esuberi».
La politica, a sua volta, è venuta configurandosi come il logico prolungamento di questa concezione del bene sociale. Così, il governo diventa il «governo del fare» il cui titolo di merito «assoluto» è di avere posto fine al «teatrino della politica» e di andar facendo. «Fatto» diceva un non dimenticato spot pubblicitario governativo costruito su un timbro sonoramente impresso su qualche foglio di carta. Per «fare», però, occorre «lavorare» e, così, quello che lavora, non quello che chiacchiera, è il governo buono. Bisogna «lasciarlo lavorare». Chi si mette di traverso, cioè «rema contro» la squadra di canottieri che fa andare la barca non è un oppositore ma un potenziale sabotatore, uno che non ama l´Italia. (…..) Ora, l´ideologia aziendalista del fare e del lavorare mette in evidenza, esaltandolo, il momento esecutivo e ignora, anzi nasconde il momento deliberativo. Chi decide, in che modo decide e che cosa decide? Tutto questo è «assolutamente» fondamentale in democrazia perché rappresenta il momento formativo e partecipativo delle scelte politiche. La logica aziendalista, trasportata in politica, fa dell´efficienza l´esigenza principale: efficienza per l´efficienza. Il fare per il fare: attivismo. Tante leggi, tante riforme: è la quantità a essere messa in mostra. Viene meno il rapporto tra il fare e il «che cosa fare», un rapporto che presuppone una divisione tra il realizzare e il determinare l´oggetto da realizzare. Viene meno il fine dell´agire. (….)
Alla medesima logica appartiene il «decidere», per esempio nell´espressione «democrazia decidente», che ha preso piede anche nel lessico di parte di forze politiche d´opposizione (…) Anche qui ciò che viene passato sotto silenzio è ciò che dovrebbe garantire che non si operi male. Forza delle parole: il mezzo, cioè l´efficienza (fare, lavorare, decidere), da mezzo quale è, diventa il fine.
«Politicamente corretto» (….) Negli anni appena trascorsi è stata condotta vittoriosamente una battaglia semantica contro la dittatura del «politicamente corretto», accusato di conservatorismo, ipocrisia e perbenismo. I tabù linguistici sono caduti tutti. Perfino la bestemmia è stata «sdoganata» perché qualunque parola deve essere «contestualizzata». I contesti sono infiniti. Così ogni parola è infinitamente giustificabile. Il degrado è pervasivo, e ha contagiato anche chi non l´ha inaugurato e anzi, all´inizio, l´ha deplorato. Così, ci si è assuefatti. Ma il risultato non è stato una liberazione, ma un nuovo conformismo, alla rovescia. Oggi è politicamente corretto il dileggio, l´aggressione verbale, la volgarità, la scurrilità. È politicamente corretta la semplificazione, fino alla banalizzazione, dei problemi comuni. Sono politicamente corretti la rassicurazione a ogni costo, l´occultamento delle difficoltà, le promesse dell´impossibile, la blandizia dei vizi pubblici e privati proposti come virtù. Tutti atteggiamenti che sembrano d´amicizia, essendo invece insulti e offensioni. I cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe. Cosicché le posizioni sono ormai rovesciate. Proprio il linguaggio plebeo è diventato quel «politicamente corretto» dal quale dobbiamo liberarci, ritrovando l´orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente.
Questa anticipazione è stata pubblicata da Repubblica, il 14 ottobre 2010

venerdì 15 ottobre 2010

l'olio di palma e il film "Green"

Da dove viene l’olio di palma che rende
morbidi e gradevoli biscotti, merendine
e cibi pronti d’ogni tipo? Qual è l’origine
dell’olio di palma che fa marciare le automobili
in Nord Europa? La risposta è in un documentario
spettacolare e tragico, Green.
In 45 minuti di immagini bellissime e dure, il film mostra l’intero
percorso dei nostri consumi a base di olio di
palma. Dalla foresta allo scaffale del supermercato.
Passando per una sorta di bombardamento
atomico. La foresta come Hiroshima.
Il racconto è snocciolato dagli occhi di Green,
la femmina di orango indonesiana che dà il titolo
al film. Moribonda, ricorda tutto quanto ha
visto e vissuto in prima persona. La meraviglia
delle cime altissime e verdi, la vita quotidiana
nel paradiso, la fitta fauna che sguazza in acque
fresche e pulite.
Poi Green ricorda l’arrivo delle
seghe che tagliano gli alberi. La devastazione.
Tolti i tronchi, che diventano mobili etnici e
parquet, la terra viene incendiata per trasformare
la sterile torba in una poltiglia più adatta
alla nuova destinazione. Infine, arrivano le palme.
Prima piantine, poi ciuffi enormi, con i loro
grappoli oleosi.
È un film che stringe il cuore. E che fa riflettere
sugli eccessi del consumo a occhi chiusi. Girato
dal regista francese Patrick Rouxell, il documentario
è privo di dialoghi. Né servono. Si
ascoltano soltanto i suoni. Quelli della foresta e
degli animali che la vivono. E quelli stridenti
delle seghe e dei macchinari che trasformano
le bacche in un liquido rossastro. Il primo
aspetto di quel grasso vegetale che dopo l’ennesimo
trattamento diventa giallo.
Giustamente premiato in diversi festival internazionali
del cinema “impegnato”, il film si
può vedere in rete gratis all’indirizzo
www.greenthefilm.com e si può anche scaricare.

Nei cinema o in televisione sarebbe un
successo. Ma chi può permettersi un cast
d’eccezione come quello ingaggiato dal registra
francese? I titoli di coda citano a uno a
uno tutti quelli che hanno reso possibile il
film: ci sono i produttori di olio di palma e
quelli di legno indonesiano. Sfilano i distributori.
Poi le banche. E ancora, compaiono
i nomi delle gigantesche società dell’industria
alimentare che comprano l’olio di palma
dai fornitori messi all’indice per le loro pratiche.
E infine ci siamo noi, i consumatori. L’unica
attenuante è che non siamo sempre messi
in condizione di scegliere consapevolmente.
Ma la giustificazione è molto fragile.

da: il Salvagente/23-30 settembre 2010 


 visita il sito   http://www.terraonlus.it/

giovedì 14 ottobre 2010

le bellezze intollerabili

da certi punti di vista, splendide le foto di Chris Jordan.
Impressionanti quelle delle "bellezze intollerabili":mai lasciare che qualcosa caschi in mare o venga trasportato dai fiumi.....

sito di chris jordan

mercoledì 13 ottobre 2010

scambi di stagione

S…cambio di Stagione, promossa dal Comune di Brescia all’interno della campagna “Riduciamo i rifiuti” ed organizzata da Legambiente in collaborazione con Aprica Spa, è l’iniziativa è finalizzata ad “allungare la vita delle cose” e a ridurre quindi la produzione dei rifiuti.
L’ormai tradizionale appuntamento con il mercatino di libero e gratuito scambio di oggetti, vestiti, libri, piccoli elettrodomestici e tutto quanto non ci serve più, ma potrebbe essere utile ad altri, si terrà sabato 16 e domenica 17 ottobre 2010 presso la Cascina Maggia - via della Maggia 3/a - Brescia (a 100 mt dall’uscita autostradale di Brescia centro).

Tutto quello che sarà portato sabato 16 ottobre dalle ore 14 alle ore 18, sarà esposto e potrà essere ritirato gratuitamente domenica 17 ottobre dalle ore 10 alle ore 17.

Le cooperative Conast e Tornasole saranno presenti dalle 9 alle 12 di domenica per proporre a tutti i bambini dai 2 ai 12 anni, laboratori creativi e giochi di abilità con oggetti recuperati.

Propongo che, oltre agli oggetti abbandonati per lo scambio gratuito, venga prevista anche una bacheca per eventuale compro-vendo di cose che magari un certo valore ce l'hanno.
Inoltre darei un limite agli oggetti prelevabili, per evitare che i soliti furbacchioni ramazzatori semi professionisti arrivino la mattina della domenica, lasciando solo la quasi-spazzatura...

LA TV E IL NOSTRO MONDO

Scrive McLuhan: «Il vero messaggio di un mezzo di comunicazione
è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e ai schemi che
introduce nei rapporti umani»

Avverto un certo disagio nel guardare la tv, non mi fido e non mi sono mai fidato, ora è certo e chiaro che la tv è finzione, e non lo penso soltanto io. Il televisore è soltanto una scatola di bugie e noi, per mancanza di idee e stanchezza fisica, ne facciamo un uso smodato. Mi rendo conto che per molte persone la tv sia una compagnia, per gli anziani ad esempio che escono poco e per i giovanissimi che non rinunciano ai cartoni giustamente, però nell'insieme e con gli anni il ruolo della tv ha preso una piega sempre più imbonitrice e inculcatrice, come fosse diventata la prima e indiscutibile fonte di cultura, educazione, informazione e veicolo primario di insegnamento di vita. La tv, o meglio chi la controlla, punta alla bonifica del pensiero dell'uomo libero, tenta giorno dopo giorno e con successo di omologare la gente al linguaggio e insegnamento televisivo e quindi punta a fare accettare per vera e buona un'informazione di parte, legata sempre più ai poteri che la governano. Dario Olivastrini dario.olivastrini@alice.it

In ogni tempo, in ogni luogo, in ogni epoca storica gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la sua descrizione: mitica nel mondo antico, religiosa nel medioevo, scientifica nell'età moderna e oggi tecnica. Se non c'è un mondo al di là della sua descrizione, la televisione non è un "mezzo" che rende pubblici dei fatti,
ma la pubblicità che concede diventa il "fine" per cui i fatti accadono. L'informazione cessa di essere un "resoconto" per tradursi in una vera e propria "costruzione" dei fatti. E questo non nel senso che molti fatti del mondo non avrebbero rilevanza se i media non ce li proponessero, ma perché un enorme numero di azioni non verrebbero compiute se i mezzi di comunicazione non ne dessero notizia. Oggi il mondo accade perché lo si comunica, e il mondo comunicato è l'unico che abitiamo.
Non più un mondo di fatti e poi l'informazione, ma un mondo di fatti per l'informazione. Questo è il vero problema: la costruzione televisiva del mondo che prende il posto del mondo. Con questo non si vuol dire che la televisione mente. Non ne ha bisogno in un contesto dove nulla viene più fatto se non per essere telecomunicato. Siamo quindi noi i veri responsabili della risoluzione del mondo nella sua narrazione televisiva. Ma là dove la "realtà" del mondo non è più discernibile dal racconto del mondo, il consenso non avviene più sulle cose, ma sulla "descrizione" televisiva delle cose, che ha preso il posto della loro realtà. La conseguenza è l'abolizione dell'opinione pubblica, perché se tutti guardano la televisione, quando si sonda l'opinione pubblica, ciò che il sondaggio verifica non è la libera opinione dei cittadini, ma l'efficacia persuasiva della televisione, che prima crea l'opinione pubblica e poi
sonda la sua creazione. A questo punto l'opinione pubblica altro non è che io specchio di rifrazione del discorso televisivo in cui sì celebra la descrizione del mondo.
In ciò nulla di nuovo. Anche la vita degli antichi o quella dei medioevali era lo specchio di rifrazione su cui sì celebrava il discorso mitico o il discorso religioso. La novità è che nelle società antiche, dove si disponeva solo di piazze o di pulpiti, non era possibile raggiungere l'intero sociale, per cui restavano spaz; per idee e discorsi differenti, da cui prendeva avvio la novità storica. Oggi questo spazio è praticamente abolito, e la novità storica, se potrà esprimersi, dovrà prodursi in forme che ancora non si lasciano intravedere. E allora il problema si risolve non spegnendo la televisione, ma creando altre fonti di informazione alternative alla descrizione televisiva del mondo, come i giornali che pochi leggono, o internet da noi ancora così poco frequentato. E questo per non trovarci in quella condizione che Gùnter Anders descrive in quel Racconto per bambini, dove si narra che un re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio sul mondo; perciò gli regalò carrozza e cavalli: «Ora non hai più bisogno di andare a piedi», furono le sue parole. «Ora non ti è più consentito di farlo», era il loro significato. «Ora non puoi più farlo», fu il loro effetto.

Lettere a Umberto Galimberti", D La Repubblica.

26 GIUGNO 2010

martedì 12 ottobre 2010

wildlife photographer of the year a brescia

Molto bella la mostra al museo di scienze di via ozanam a brescia, aperta fino al 26 ottobre tutti i giorni dalle 9.00 alle 17.00.

Le foto hanno anche i dati degli scatti....per la gioia dei fotografi!

per darsi una idea:

http://www.nhm.ac.uk/visit-us/whats-on/temporary-exhibitions/wpy/

afghanistan: non bastano le bombe serve un'altra strategia

È DOVEROSO chiedersi per che cosa muoionoi nostri soldati in Afghanistan. Ed è altrettanto doveroso chiedersi se hanno tutti i mezzi per garantire la migliore sicurezza possibile. Sono verifiche politiche e militari che devono essere fatte periodicamente, con regolarità e serenità. Ma se le stesse domande vengono poste sempre e soltanto dopo la morte dei nostri uomini, se diventano retoriche perché se ne conosce la drammatica risposta e se le esigenze di maggiore sicurezza durano giusto il tempo del trasporto a spalla delle salme dei nostri soldati, allora si tratta di sciacallaggio politico. La morte dei nostri soldati in Afghanistan è una tragedia, ma non ha fatto mutare la situazione strategica e operativa. Eravamo in guerra ieri e siamo in guerra oggi. Il compito di ieri non è cambiato. Chi chiede ora il ritiro del contingente dopo aver nicchiato per anni non ha alcun parametro oggettivo per giustificarlo. La stessa cosa vale per i ragionamenti sulle bombe, sugli aerei armati con e senza pilota, sulle portaerei e sui carri armati che vengono proposti dopo ogni lutto. Ministri, Stati Maggiori e comandanti si sono fatti in quattro per dirci che i nostri soldati sono protetti al meglio, che la situazioneè sotto controllo, che nonè una guerrae che si stanno facendo grandi progressi. Se era vero ieri deve essere vero anche oggi. Perché ieri è saltato il solito ordigno che da nove anni abbiamo imparato a conoscere. Se oggi ci sono dei dubbi vuol dire che qualcuno fino a ieri ha mentito o non ha saputo fare il suo mestiere. La situazione reale dell'Afghanistan è di una linearità imbarazzante. Nessun contingente è male armato, la Nato soffre di eccesso di potenza e non di carenza di mezzi. Ci sono già troppi bombardieri e Karzai è perdente proprio perché si bombarda troppo e senza curarsi delle vittime civili. La Nato e gli Stati Uniti non sanno cosa fare e i nostri soldati "non ci capiscono più niente" perché la strategiaè inefficiente: non ci sono idee e nessuno crede più a quelle finora propagandate. In queste condizioni i nostri soldati continueranno a morire senza sapere perché e per chi. In compenso questo lo sa chi, parlando di più aerei, portaerei, carri armati e bombe, manda messaggi incoraggianti a chi su queste cose e sui morti ci specula. -

FABIO MINI Repubblica — 11 ottobre 2010