martedì 31 agosto 2010

lester brown - piano b 4.0

«Se esistono alternative al greggio, per il cibo non ce ne sono».
È la sicurezza alimentare del pianeta il cardine del pensiero di Lester Brown (1934), ambientalista statunitense che nel suo ultimo volume («Piano B 4.0. Mobilitarsi per salvare la civiltà»; Edizioni Ambiente, pagg. 374, € 20,00) lancia un allarme: sfamare tutti è la nostra unica possibilità di salvezza. Pioniere della sostenibilità (nel 1974 fondò il Worldwatch Institute, la prima istituzione al mondo capace di fornire un'analisi integrata dell'interrelazione esistente tra sistemi naturali e sistemi socioeconomici), Brown parla di energia, acqua, crescita demografica e partecipazione; fa il punto, e propone una soluzione.

Il Piano B da lui suggerito (via d'uscita alternativa rispetto all'ottica Bau, Business as usual, oggi "drammaticamente praticata") parte dalla considerazione di alcuni fattori, ognuno dei quali contribuisce alla progressiva riduzione del cibo a nostra disposizione. Uno, la crescita demografica. «La popolazione mondiale cresce di 80 milioni di persone all'anno: ciò significa che ogni giorno gli agricoltori di tutto il mondo devono nutrire 216mila persone in più del giorno precedente». Due, l'aumento del consumo di cibo fondato su base cerealicola (carne e uova), e la tendenza a utilizzare parte dei raccolti di cereali per produrre combustibile («Nel 2009, dei 415 milioni di tonnellate di cereali raccolti negli Usa, 116 milioni sono stati convertiti in etanolo»). Tre, la riduzione delle risorse idriche, che passa attraverso l'utilizzo di acque fossili, ossia non rinnovabili; ci illudiamo che acqua ce ne sarà sempre; non è vero.
«Tra gli indicatori sociali ed economici da monitorare costantemente per capire l'avvicinarsi dei conflitti – avverte Brown – ci sono l'aumento del prezzo dei generi alimentari (quello del frumento è triplicato tra 2007 e 2008, prima di tornare a livelli più contenuti) e del numero di persone che soffrono la fame, che nel 2008 erano più di un miliardo. Il punto cruciale del piano B è che questo sistema non è più praticabile».

Futuro apocalittico? No, perché la soluzione esiste. «Il piano B si basa su quattro elementi».
Il primo consiste nella riduzione dell'80% delle emissioni di CO2 entro il 2020: «Stabilizzare il clima è fondamentale. Alcuni scienziati, per fare un esempio, sostengono che se i ghiacci della Groenlandia continueranno a sciogliersi al ritmo attuale, entro la fine di questo secolo il livello del mare aumenterà di due metri, inondando ben 19 zone di produzione di riso in Asia. Non è impressionante pensare che lo scioglimento dei ghiacci nel nord possa inondare Paesi così lontani?».

Il secondo fattore consiste nel limitare la popolazione mondiale a 8 miliardi di persone, obiettivo raggiungibile contenendo la fertilità e «promuovendo il ruolo sociale della donna attraverso l'istruzione».

Terzo punto, ridurre la povertà non solo perché «piaga moralmente inaccettabile», ma anche perché «un mondo povero resta insensibile alle sfide ambientali».

Quarto e ultimo, «la salvaguardia dei nostri sistemi di sostegno naturale: i pascoli, le foreste, il suolo, il mare. La storia ci insegna che le civiltà che hanno distrutto i propri sistemi di sostegno naturale si sono avventurate in un pericoloso declino che le ha portate al tramonto. Un'eccessiva pressione sui sistemi naturali è letale».

L'incidente sulla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, che ha spinto una marea nera sulle coste della Louisiana? «Un motivo ulteriore per ripensare l'uso dei combustibili fossili. Questa catastrofe ha danneggiato gli ecosistemi marini e costieri con effetti imprevedibili sul lungo termine».
A proposito di energie alternative al petrolio; Lester Brown dedica nel suo libro ampio spazio alla promozione delle fonti rinnovabili, e propone dati a supporto della propria tesi. «In Texas, il primo produttore di petrolio degli Stati Uniti, saranno a breve disponibili 50mila megawatt di elettricità prodotti con centrali eoliche: l'equivalente dell'energia fornita da 50 centrali elettriche alimentate a carbone. La Cina sta progettando di realizzare sette centrali eoliche con una capacità di 130mila megawatt. In Algeria si ragiona su un sistema per sfruttare l'energia solare. Poi c'è l'energia geotermica».
Ma è possibile ridurre l'utilizzo di combustibili fossili? Brown dice di sì: «Il Piano B prevede, tra le altre cose, di realizzare entro il 2010 un milione e mezzo di turbine eoliche, in grado di produrre 2 megawatt ciascuna: un risultato che ci permetterebbe di chiudere tutte le centrali elettriche alimentate a carbone del pianeta». Ma come fare, e cosa fare come individui? «Mobilitarsi. Negli Stati Uniti migliaia di persone hanno deciso di opporsi alla costruzione di ulteriori centrali a carbone. Ce l'hanno fatta. È inutile riciclare la carta o usare le lampadine a risparmio energetico se non si mettono in atto azioni politiche e civili di ampio respiro. Il presidente Obama sta operando bene in questa direzione. E James Cameron (il regista di Avatar, ndr), mi ha detto di essere stato colpito dal mio libro: un segnale di attenzione che lascia ben sperare. Ma non abbiamo più molto tempo: bisogna agire».

Il sole 24 ore, 3 giugno 2010

lunedì 30 agosto 2010

coldiretti e ogm

Prandini (Coldiretti) «Rischiamo di diventare le vittime delle multinazionali»

BRESCIA È necessario ribaltare il punto di partenza: non dobbiamo dire che gli ogm non sono nocivi fino a prova contraria; dobbiamo piuttosto dire che non esistono università o ricerche scientifiche che abbiano dimostrato che le modifiche genetiche di prodotti agricoli non creano problemi di salute ai consumatori. È molto netta la posizione di Ettore Prandini, presidente di Coldiretti Brescia, sul tema ogm: poiché non sono indispensabili, e poiché c'è il rischio (almeno potenziale) di danni alla salute, meglio lasciar perdere.

Ragioni di salute, ma anche economiche
Non solo. Secondo Prandini, seminare ogm non è conveniente neppure sotto il profilo economico. «Anche i Paesi che, in passato, hanno scommesso con decisione sugli organismi geneticamente modificati -spiega il presidente della Coldiretti provinciale - stanno facendo marcia indietro». Se non ci sono evidenze scientifiche a proposito dei danni alla salute, «esistono - dice Prandini - dati economici certi: dove sono stati utilizzati, gli organismi geneticamente modificati hanno abbassato il reddito delle imprese agricole, senza benefici per il consumatore finale».
Secondo la Coldiretti, inoltre, non è vero che la coltivazione di ogm aiuterebbe i Paesi in via di sviluppo, soccorrendoli nella lotta contro la fame. «Per sfamare milioni di poveri - aggiunge Prandini - è necessario trovare nuove modalità per trasferire ricchezza ai Paesi del terzo mondo: gli ogm non rappresentano certo una soluzione a questo grave problema». E c'è anche un altro luogo comune che Prandini vuole sfatare: «I sostenitori degli organismi geneticamente modificati dicono che le colture ogm resistono ai parassiti e non necessitano di particolari trattamenti: ma questo è falso, altrimenti la diabrotica non avrebbe colpito i campi di mais ogm negli Usa».
Da sempre, inoltre, l'organizzazione agricola presieduta a livello nazionale da Sergio Marini sta dalla parte dei consumatori. «Credo che sia importante - dice il presidente bresciano - tenere in considerazione anche le opinioni dei cittadini: e più del 90% degli italiani, secondo recenti interviste, non sarebbe favorevole al consumo di prodotti ogm».

Il reddito delle imprese al centro
La vera priorità di Coldiretti è però il reddito delle imprese agricole. «Le nostre aziende - aggiunge Ettore Prandini - possono salvarsi nel mondo globalizzato solo se si riesce a distinguere e promuovere la qualità e l'eccellenza italiana: la diffusione di ogm venduti da tre gruppi multinazionali può uniformare l'agricoltura, con il rischio di perdere le tipicità, vale a dire la i nostra ricchezza». E la soia ogm importata per alimentare i nostri animali? «Solo una minima parte della soia importata è ogm - spiega il presidente di Coldiretti - e poi purtroppo oggi gli allevatori non possono più scegliere come alimentare il proprio bestiame».
A proposito di libertà di scelta, secondo Prandini questa non può essere garantita nel caso degli organismi geneticamente modificati. «È troppo pericoloso -afferma - perché il mercato è nelle mani di tre multinazionali che mirano a controllare completamente l'agricoltura. Infatti - conclude il presidente di Coldiretti Brescia - se si lascia la libertà di scelta, le multinazionali attireranno gli agricoltori proponendo i semi ogm a prezzi molto bassi; tuttavia, essendo padrone del mercato, in un secondo momento le stesse multinazionali faranno salire i prezzi, mettendo gli agricoltori in grande difficoltà. A quel punto, però, non sarà più possibile tornare indietro: insomma, dobbiamo fare di tutto per evitare che i nostri imprenditori agricoli diventino vittime di aziende prive di scrupoli».

giornale di Brescia, 28 agosto 2010

Addio a Panikkar teologo del dialogo

C'è Gheddafi che viene a Roma accolto in pompa magna per fare prediche e convertire all'islam (ma poi, come la mette il berlusca col papa? vabbé, un pò di ulteriori offerte alle scuole cattoliche e tutto si aggiusta...?).
Sarah Palin e compagnia che si mettono a ululare sul fatto che dio è con loro (e rischiamo diventino il prossimo presidente degli USA, pronti a fare guerre sante).
Forse aveva ragionne John Lennon quando in "Imagine" scriveva:

E nel frattempo, viene a mancare il grande teologo Panikkar, che almeno una buona parola cercava di mettercela....
GG
---




Addio a Panikkar teologo del dialogo
di Vito Mancuso


Cosmoteandria. In questa difficile parola è racchiuso il nucleo del pensiero di Raimon Panikkar (morto ieri a 92 anni nella sua casa in Catalogna), uno dei più grandi teologi della nostra epoca, destinato a diventare sempre più una permanente sorgente di luce per tutti i cercatori sinceri della verità. Cosmoteandria è il termine coniato da Panikkar per esprimere la sua intuizione filosofico-teologica fondamentale, cioè che l’Assoluto (teo) è attingibile solo in unione con il mondo (cosmo) e in unione con l’uomo (andria) e, simmetricamente, che l’uomo viene a capo della sua essenza solo in armonia con il mondo naturale e con il divino.
Si tratta di una prospettiva che in lui non nacque come un colpo di genio estemporaneo, per quanto parlando di Panikkar è doveroso parlare di “genio” già solo a partire dalla ventina di lingue tra antiche e moderne perfettamente possedute e dagli innumerevoli riconoscimenti internazionali e lauree honoris causa (tra cui quella conferitagli nel 2004 dalla Facoltà di Teologia dell’Università di Tubinga, cioè una sorta di Nobel della ricerca teologica). L’intuizione della cosmoteandria è piuttosto il distillato della sua vita. 

Nato nel 1918 a Barcellona da madre catalana e padre indiano (un aristocratico con passaporto britannico), si laureò in chimica, lettere, filosofia e teologia nelle migliori università europee, quasi a scandire con i suoi studi una progressiva ascesa dai fondamenti della materia alle altezze dello spirito. Ordinato sacerdote si dedicò solo per poco alla vita pastorale, mentre prese presto a insegnare e tenere conferenze nelle migliori università di tutti i continenti. 
Al riguardo ricordo in particolare il ventennio 1966-1987, quando per un semestre viveva in America insegnando a Harvard, in California e a New York, e per un semestre in India studiando e soprattutto vivendo l’induismo e il buddhismo. Ed eccoci giunti al punto che più risalta del genio di Panikkar, il dialogo interreligioso, che per lui fu ricerca esistenziale in prima persona. Ne sono una significativa testimonianza queste sue celebri parole: ” Sono partito cristiano, mi sono scoperto indù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano”. Laddove spiriti miopi e insicuri vedono il pericolo dell’eresia e del sincretismo, Panikkar consegna in realtà l’indicazione luminosa verso l’unico sentiero che il nostro mondo globalizzato oggi può percorrere se vuole la pace e l’incontro tra civiltà, e non il contrario. In questa prospettiva è significativo sapere che Panikkar ha voluto che il dialogo interreligioso da lui praticato per tutta la vita lo accompagnasse fino alla fine: in queste ore il suo corpo verrà cremato e metà delle ceneri saranno depositate nella tomba di famiglia, metà portate sul Gange e adagiate su una foglia secondo un’antica tradizione indù.
L’Italia ha l’onore di essere il paese nel quale vede la luce in prima mondiale l’opera omnia di Panikkar grazie alla Jaka Book di Milano, al suo presidente Sante Bagnoli e soprattutto alla curatrice Milena Carrara Pavan. Si tratta di dodici volumi, di cui quatro già pubblicati e un quinto che sta per uscire dal titolo Religione e religioni, probabilmente il cuore del pensiero del gran teologo. 

Così egli stesso presenta i suoi libri : ” I miei libri coprono un lasso di circa settant’anni, in cui mi sono dedicato ad approfondire il senso di una vita umana più giusta e più piena. Non ho vissuto per scrivere ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono soltanto dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte superiore che si può chiamare Spirito”.” E ancora: ” Mi sono aperto alla vita che mi sta attorno nella sua concretezza e ho scoperto che non era profana ma sacra”. Ed eccoci tornati alla cosmoteandria: è l’apertura alla vita reale e concreta lo spazio per una nuova e più integrale intuizione del sacro.
Ma ciò che a me viene in mente ora, a poca distanza dalla sua morte, del Raimon Panikkar che ho conosciuto è soprattutto il sorriso e la passione per il cioccolato. Un sorriso dolcissimo che rivelava gioia di vivere, immancabile senso dell’umorismo, reale attenzione per gli altri, amore tenero e forte per ogni frammento di essere. E la passione per il cioccolato che custodiva in lui fino all’ultimo la semplicità del bambino.
La Repubblica, 28 agosto 2010

lunedì 23 agosto 2010

io sto dalla parte del toro

La corrida è uno spettacolo crudele, propinato a turisti che spesso escono disgustati.
Io sto dalla parte del toro: ha tutta la mia solidarietà il toro che è saltato sugli spalti:



e mi sono simpatici anche i suoi parenti   che hanno incornato toreri e banderilleros negli ultimi giorni.
Mitica questa immagine, da incorniciare!


domenica 22 agosto 2010

i "punti acqua" nella Provincia di Brescia

Sabato 21 agosto il Giornale di Brescia ha dedicato l’intera pagina 7 ai “punti acqua” nella provincia di Brescia.
A mio parere ogni cittadino dovrebbe avere il diritto di aprire il rubinetto di casa propria e prelevare acqua buona. Oggi, chi acquista l’acqua minerale in bottiglia, la paga anche 2000 euro al metro cubo. In Italia siamo di fronte ad un giro di affari spaventoso sulle acque minerali, 12,5 miliardi di litri imbottigliati nel 2008 di cui la metà circa di naturale (non gassata); le aziende imbottigliatrici o non pagano canone o è bassissimo (la Regione Lombardia mi risulta chieda 0,516 euro al metro cubo, dato tratto dal volume di Luca Martinelli “Imbrocchiamola!”, Altreconomia Edizioni marzo 2010).
Sarebbe anche ora che i cittadini pretendano chiarezza al ristorante.
In Francia, dove l’italica voce del “coperto” non esiste, in tutti ristoranti si può chiedere gratuitamente la “carafe” di acqua di rubinetto fresca. Se si ordina l’acqua minerale imbottigliata, ha un prezzo esorbitante.
In Italia invece si è praticamente costretti ad ordinare una bottiglia da 750cc di minerale pagandola - se ti va bene - 2 euro, cioè 2600 euro al metro cubo. La cosa diventa al limite della truffa quando il gestore porta in tavola allo stesso prezzo della minerale una bottiglia di acqua di rubinetto “trattata” da filtri sulla cui manutenzione ho serissimi dubbi.
Visto che tra coperto ed acqua si risparmierebbero circa 4 euro a testa, non sarebbe più onesto, più produttivo, più stimolante dal punto di vista culturale, avere come in Francia il diritto di atrovare gratuitamente in tavola acqua fresca e con quanto risparmiato concedersi il piacere di un buon bicchiere di vino, o una bottiglia da poter ritappare e portarsi a casa? L’acqua fa solo fare affari, il vino è il prodotto di un grande lavoro!
Tra parentesi: non ho interessi nel settore enologico e bevo vino solo raramente, poco e buono.
Ritornando al tema dei “punti acqua”: vero è che chi abitualmente acquista acqua frizzante, al “punto acqua” la trova gratis. Ma il gratis non esiste se non nel Paese di Cuccagna: ci sono le spese di costruzione e di manutenzione: e chi le paga? Da anni le varie Amministrazioni hanno provveduto con le più varie scuse a rimuovere le fontanelle stradali che tanto piacevano ad anziani e viandanti, e adesso nascono questi bei distributori, dove la gente va a rifornirsi come se si trattasse della fonte miracolosa (molte hanno pure scolpita una Madonnina…). Ma non è forse la stessa acqua che vien giù dal rubinetto di casa? Come riferito a piè di pagina, sembra che metà dei cittadini prelevi l’acqua non gasata…..
Sul fatto che si possano riempire al massimo 2 bottiglie stendiamo un velo pietoso: chi controlla? Di solito la gente arriva in macchina, in 10 minuti preleva 6 bottiglie e se ne torna velocemente a casa….altrimenti l’acqua si riscalda, e tanto varrebbe spillarla dal rubinetto…
Niente in contrario circa la riduzione delle bottiglie di minerale, ma ripeto: ogni cittadino deve avere il diritto di aprire il rubinetto di casa propria e prelevare acqua buona. Questo spesso non accade. Ma se in un Comune l’acqua del rubinetto è di buona qualità, che bisogno c’è di attingere a queste fontanine che forniscono la stessa acqua che c’è in casa? Questi “punti acqua” mi fanno venire in mente il Paese di Cuccagna, dove sgorga il vino dalle fontane, il villan dorme e non si sa chi ci guadagna.
Giorgio Gregori
inviata il 22 agosto al Giornale di Brescia - lettere al Direttore e in attesa di eventuale pubblicazione

sabato 21 agosto 2010

la pazzia dei 150 in autostrada

Un mese fa siamo tornati dalla Bretagna, partiti alle 7.00 da Saint Malo ci siamo detti "vediamo che traffico c'è, dove arriviamo arriviamo e poi continuiamo domani".
Era domenica, e tranquillamente abbiamo attraversato in diagonale tutta la Francia arrivando in Italia al Frehus verso le 20.00. Il traffico era fluidissimo, noi andavamo a 120 all'ora e pochissimi ci sorpassavano.
Arrivati in Italia siamo entrati nel mondo dei pazzi: tutti a correre per poi bloccarsi in due ingorghi.
Se si pensa che mettere il limite a 150 significa poi che con le tolleranze si può andare anche a 160, si comprende che è veramente una cazzata pazzesca. Il famoso "tutor" è poi oggetto di varie contestazioni, e in Italia con un buon avvocato si ottiene tutto....
Per non parlare del fatto che più alta è la velocità più si inquina, ma a chi guida la Ferrari o l'Hummer che gliene importa.....
g

------

Autostrada a 150: sonora bocciatura da Codacons e Federconsumatori
■ Le modifiche ai limiti di velocità in autostrada non sono ancora state ritoccate al rialzo verso i 150 km/h che già gli automobilisti sembrano averne approfittato aumentando le loro velocità di crociera. Parola del Codacons che denuncia la caduta della sicurezza a causa di questo fenomeno all'indomani del dibattito che per certi aspetti ha toccato anche la nostra provincia.
«Tra l'altro questi automobilisti vedranno molto presto recapitarsi verbali, perchè non bisogna dimenticare che la rete autostradale monitora la velocità media dei veicoli grazie al sistema del tutor». Un tema quello della sicurezza stradale e che in modo sperimentale riguarderebbe il tratto della Serenissima Brescia-Padova, che coinvolge anche Federconsumatori che sottolinea: «A differenza di quanti sostengono che poter andare a 150 km/h in autostrada sia un passo in avanti che ci avvicina all'Europa, noi la riteniamo una enorme idiozia. A parte il fatto, poi, che non ci sembra che in Europa esistano limiti di velocità tanto elevati».
Secondo Federconsumatori, rilevando che «quello che è certo è che, aumentando a tale livello il limite di velocità non è difficile prevedere l'aumento esponenziale di tamponamenti, salti di carreggiata, ecc., con gravi rischi non solo per chi si avventura a quelle velocità, ma anche per chi viaggia a velocità inferiore. È ovvio, infatti, che con l'aumentare della velocità aumentano anche i pericoli connessi ai tempi di reazione, ai tempi di frenata, alle condizioni del veicolo e via dicendo».
Per la Federconsumatori, «di fronte a questa idiozia speriamo vi sia un sussulto di responsabilità, non solo con l'eliminazione di tale disposizione, ma a partire proprio dal mancato avvio della sperimentazione di questo limite sulla Serenissima Brescia-Padova». E Rosario Trefiletti, presidente nazionale dell'associazione, sottolinea che «in Europa abbiamo fin troppi tristi primati, dalle assicurazioni più care ai servizi bancari più salati, solo per citarne alcuni, e non vorremmo che questo diventasse l'ennesimo primato di cui andare poco fieri». Da qui l'invito ad una riflessione rivolto ai legislatori perchè la sicurezza diventi un must senza condizioni o deroghe.
Giornale di Brescia, agosto 2010

venerdì 20 agosto 2010

Trucchi d'Italia per battere il fisco

Evasori d'Italia

Ville e cani intestati a società
Trucchi d'Italia per battere il fisco

Il direttore dell'Agenzia delle entrate: qui c'è la cultura dell'evasione. Dai contribuenti fantasma agli stabilimenti balneari che guadagnano di più durante l'inverno

Per settimane si sono barricati in casa aspettando che i federali venissero a prenderli. Non pagavano le tasse da molto tempo, finché il tribunale li ha condannati a cinque anni di carcere. E loro non ci sono stati. Armati fino ai denti hanno sprangato le porte in attesa della polizia, proclamando di «lottare per la libertà». Proprio così hanno detto: «per la libertà». Ma forse i coniugi Ed e Elanie Brown, che tre anni fa sono stati al centro negli Stati Uniti di un caso nazionale, avevano semplicemente sbagliato posto: credevano di essere in Italia. Il Paese dove l'evasione fiscale non è semplicemente una patologia, ma l'effetto di una cultura radicata a fondo.


L'ha ammesso implicitamente ieri, sulle colonne del Sole24ore, il direttore dell'Agenzia delle entrate Attilio Befera. «Quello che ancora non si afferma è il cambiamento del modello culturale che ha favorito l'evasione», ha scritto, mostrandosi esterrefatto per aver letto in un'intervista «che tutto quello che si possiede, anche il proprio cane, è intestato a una società per limitare i danni patrimoniali». Quell'intervista è stata pubblicata da Repubblica il giorno prima di Ferragosto e l'intervistato è nientemeno che la rock star Vasco Rossi, finito nel mirino del fisco per una società, da lui posseduta al 90%, a cui è intestata la barca «Jamaica». Indispettito perché la notizia era trapelata sulle agenzie, dopo aver dichiarato «sono un cittadino onesto», il cantante ha spiegato: «Ho usato questa cautela per mettere un limite a eventuali ritorsioni contro la mia persona fisica per eventuali danni causati dalla barca o dall'equipaggio a terzi. Trovo questo oltre che lecito anche ragionevole e per nulla elusivo. Anche il mio cane è intestato a una società, perché se morde qualcuno si pagano giustamente i danni, ma si evita che qualcuno possa approfittarsene». Difficile comprendere la differenza fra essere morsi dal cane di Vasco Rossi piuttosto che dal cane della società di Vasco Rossi. Ma se la società della barca (in leasing) si chiama «Giamaica no problem» (!) ci sarà pure un motivo.

Anche perché Vasco non è il solo a pensarla così. Sono migliaia e migliaia le società a cui i proprietari intestano yacht e natanti. Il problema, o meglio, il «problem», è che sono pressoché tutte ditte di charter con un solo cliente, guarda caso il loro azionista. In italiano si chiamano società di comodo e non servono soltanto a pagare meno tasse sulla barca, ma a far scomparire lo yacht dai radar del fisco nel caso di accertamenti personali. Se l'Agenzia delle entrate mette il naso nella tua denuncia dei redditi, scoprirà che non hai un motoscafo da un milione di euro, ma una società di charter del capitale di 10 mila euro. Per giunta in perdita. Meglio della bandiera liberiana o panamense.
Ma le società di comodo non servono solo per le barche. Moltissimi ci mettono dentro anche la villa al mare, il casale in campagna, gli appartamenti in città. Poi ci sono le fuoriserie: Ferrari a centinaia, Porsche, Audi, Mercedes, Bmw, Lamborghini e Suv a rotta di collo. Mascherate da auto aziendali. Anche in questo caso non per risparmiare sulle tasse della macchina, ma perché non figuri nella denuncia dei redditi. A uno schermo societario, in Italia, non rinuncia nessuno: diversamente non sarebbero in perdita quasi metà (per l'esattezza il 45%) delle società di capitali. Ma c'è anche chi alla maschera di una srl o di una spa preferisce direttamente quella di una società fiduciaria. Si mettono le azioni là dentro e si può dormire fra due guanciali.

Per non parlare delle scatole dove finiscono i dividendi: spesso hanno sede all'estero, magari in un Paese comunitario. Tipo Lussemburgo. Poi però, grattando la vernice, salta fuori che la società è controllata da un'altra società che sta invece alle Isole Cayman o a San Marino. Migliaia e migliaia. E per non dire dei vip con residenza (spesso fittizia) nei paradisi fiscali, oppure a Montecarlo. Le cronache ne sono piene. Fin qui i comportamenti dove il confine fra evasione ed elusione è talvolta impalpabile. Oltre, ci sono le frodi. E anche in questo vantiamo una discreta specializzazione. Le società che aprono e chiudono i battenti nel giro di pochi mesi, per esempio: si chiamano cartiere perché servono soltanto a fare false fatture che permetteranno di chiedere il rimborso dell'Iva mai pagata. Un caso di scuola, che si può declinare in vari modi. Per esempio, come ha scoperto ad aprile di quest'anno la Guardia di finanza, con un giro di fiduciarie fra la Svizzera e il Lussemburgo. C'era coinvolto perfino un prete. Ma la tecnologia del crimine fiscale, purtroppo, è in continua evoluzione. Vi si dedicano menti raffinate, come quella che ha architettato una frode ai danni del Fisco arrivando a utilizzare i modelli 730: aveva creato una rete di finte società, formalmente gestite da una signora ottuagenaria, che erogavano false prestazioni detraibili dalle denunce dei redditi di comuni cittadini. Impiegati, infermieri delle Asl, pensionati. Con un danno di svariati milioni di euro per l'erario.
Roba da far impallidire gli artigiani dell'evasione. A partire dai commercianti refrattari alla ricevuta fiscale, i quali dichiarano redditi inferiori a quelli del proprio dipendente. Per continuare con gli stabilimenti balneari che dicono di guadagnare più d'inverno che d'estate. Nessuno, però, riesce a battere i veri artisti. Ovvero, coloro che per il Fisco non esistono nemmeno. Una volta scoprirono una donna, a Pavia, che per anni aveva gestito una casa di riposo per anziani totalmente abusiva.
Interrogato dal giudice che sta indagando sulla vicenda della cosiddetta P3, il «faccendiere» Flavio Carboni ha dichiarato senza fare una piega di non possedere beni patrimoniali avendone comunque la disponibilità. Tecnicamente è possibile. Ma quando si scopre che dall'anno di imposta 2002 non ha più presentato una dichiarazione dei redditi, come i poveri, allora non si può davvero trattenere la sorpresa.

Non c'è dubbio che l'evasione fiscale in Italia sia anche una questione culturale. A differenza degli Stati Uniti, dove non si scherza (fra il 2002 e il 2007 hanno sbattuto dentro 5 mila persone), qui non è mai stata considerata un peccato. Più che altro, una marachella. Nel 2002 l'avvocato Attilio Pacifico, che sarebbe stato condannato insieme all'ex ministro Cesare Previti per l'affare Imi-Sir, ammise candidamente in un colloquio con un giornalista: «Sì, sono un evasore fiscale. E allora, che mi volete fare?». E in una lettera al Corriere lo stesso Previti scrisse: «Se è vero che negli anni passati ho avuto disponibilità all'estero, è altrettanto vero che questa situazione l'ho regolarizzata e sanata anche attraverso un condono tombale, pagando quanto dovuto per legge». Già, il condono.
Quale contributo hanno dato le sanatorie a diffondere, come vorrebbe Befera, «la cultura della legalità fiscale»? Il primo condono dell'età moderna lo fece Bruno Visentini, nel 1973. Replicò Rino Formica, nel 1982. E ancora Formica, nel 1991. Per arrivare al 2002, con Tremonti. Poi gli scudi, a ripetizione, per chi aveva esportato illegalmente capitali. Questione forse di Dna italico, visto che la sanatoria capostipite risale addirittura all'epoca dell'imperatore Adriano (che era però di origini iberiche). Ma è difficile credere che la politica oggi non abbia le sue responsabilità. Per questo una domanda è inevitabile. Ora che il suo governo, impossibilitato a ridurre le imposte, sostiene di voler combattere a fondo l'evasione, ripeterebbe Silvio Berlusconi quel che disse il 18 febbraio del 2004, e cioè che evadere tasse troppo alte è «moralmente giustificabile»?

Sergio Rizzo
corriere della sera 20 agosto 2010

festival folk e chitarra acustica

Segnalo interessanti appuntamenti per chi ama la musica:

Isola Folk A Suisio (BG) dal 26 agosto al 5 settembre.
Info col programma dettagliato su www.isolafolk.com

Acoustic Franciacorta dal 3 al 12 setttembre, nei paesi della Franciacorta (Brescia).
Programma e info www.franciacortalaif.it

Madame Guitar a tricesimo (UD) 24-25-26 settembre
info: www.folkclubbuttrio.com

"Berlusconi ruba agli anziani 340 milioni di euro"?

Visto che non pagare le tasse significa praticamente rubare alla collettività, questo sarebbe il risultato in sintesi del giochino che avrebbe fatto Berlusconi, con una serie di norme che permettono alla "sua" Mondadori di pagare solo 8,6 milioni invece di 350.
Beh, non si tratterebbe proprio di un "furto" in senso classico...non ha infranto la legge, se ne è fatta qualcuna che gli ha fatto lo sconto.......
E comunque, 340 milioni di euro diviso il numero degli italiani (60 milioni) risulta che circa 5 euro sono quello che hanno tolto dalle mie tasche di cittadino pensionato che le tasse le paga tutte!
C'è qualche partito, movimento o altro che ha il coraggio di fare arrivare agli elettori un messaggio del tipo "Berlusconi ruba agli anziani e pensionati 340 milioni di euro" in modo semplice e chiaro?
Si legge sui giornali di oggi che il PD è intenzionato a dare battaglia sull'argomento. Sono proprio curioso di vedere come: le ultime campagne" erano di un dilettantesco sconfortante...
Questi 340 milioni di mancate tasse potevano essere utilizzati per assistenza, o altro (no social card, basta prenderci in giro!!!).

In allegato la storia della vicenda, da articolo de "La Repubblica" di ieri.
g
----

Mondadori salvata dal Fisco: scandalo "ad aziendam" per il Cavaliere
La somma dovuta dall'azienda editoriale: 173 milioni, più imposte, interessi, indennità di mora e sanzioni. Una norma che si somma ai 36 provvedimenti "ad personam" fatti licenziare alle Camere dal premier. Segrate è difesa al meglio: i suoi interessi li cura lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel '91 non ancora ministro. Marina Berlusconi mette da parte 8,6 milioni, in attesa delle integrazioni al decreto. Che puntualmente arrivano
di MASSIMO GIANNINI

Mondadori salvata dal Fisco scandalo "ad aziendam" per il Cavaliere La sede della Mondadori

Sotto i nostri occhi, distolti dalla Parentopoli privata di Gianfranco Fini usata come arma di distruzione politica e di distrazione di massa, sta passando uno scandalo pubblico che non stiamo vedendo. Questo scandalo si chiama Mondadori. Il colosso editoriale di Segrate - di cui il premier Berlusconi è "mero proprietario" e la figlia Marina è presidente - doveva al Fisco la bellezza di 400 miliardi di vecchie lire, per una controversia iniziata nel '91. Grazie al decreto numero 40, approvato dal governo il 25 marzo e convertito in legge il 22 maggio, potrà chiudere la maxi-vertenza pagando un mini-tributo: non i 350 milioni di euro previsti (tra mancati versamenti d'imposta, sanzioni e interessi) ma solo 8,6. E amici come prima.

Un "condono riservato". Meglio ancora, una legge "ad aziendam". Che si somma alle 36 leggi "ad personam" volute e fatte licenziare dalle Camere dal Cavaliere, in questi tumultuosi quindici anni di avventurismo politico. Repubblica ha già dato la notizia, in splendida solitudine, l'11 agosto scorso. Ma ora che il centrodestra discute di una "questione morale" al suo interno, ora che la propaganda di regime costruisce teoremi assolutori sul "così fan tutti" e la macchina del fango istruisce dossier avvelenati sulle compravendite immobiliari, è utile tornarci su. E raccontare fin dall'inizio la storia, che descrive meglio di ogni altra l'enormità del conflitto di interessi del premier, il micidiale intreccio tra funzioni pubbliche e affari privati, l'uso personale del potere esecutivo e l'abuso politico sul potere legislativo.

Il prologo: paura a Segrate

La vicenda inizia nel 1991, quando il marchio Mondadori, da poco entrato nell'orbita berlusconiana, decide di varare una vasta riorganizzazione nelle province dell'impero. Scatta una fusione infragruppo tra la stessa Arnoldo Mondadori Editore e la Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria (Amef). Operazioni molto in voga, soprattutto all'epoca, per nascondere plusvalenze e pagare meno tasse. Il Fisco se ne accorge, scattano gli accertamenti, e le Finanze chiedono inizialmente 200 miliardi di imposte da versare. L'azienda ricorre e si apre il solito, lunghissimo contenzioso. Da allora, la Mondadori vince i due round iniziali, davanti alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado. È assistita al meglio: i suoi interessi fiscali li cura, in aula, lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel 1991 non ancora ministro delle Finanze (lo diventerà nel '94, con il primo governo Berlusconi). Nell'autunno del 2008 l'Agenzia delle Entrate presenta il suo ricorso in terzo grado, alla Cassazione. Nel frattempo la somma dovuta dall'azienda editoriale del presidente del Consiglio è lievitata: 173 milioni di euro di imposte dovute, alle quali si devono aggiungere gli interessi, le indennità di mora e le eventuali sanzioni. Il totale fa 350 milioni di euro, appunto.

Se la Suprema Corte accogliesse il ricorso, per Segrate sarebbe un salasso pesantissimo. Soprattutto in una fase di crisi drammatica per il mercato editoriale, affogato quanto e più di altri settori dalla "tempesta perfetta" dei mutui subprime che dal 2007 in poi sommerge l'economia del pianeta. Così, nel silenzio che aleggia sull'intera vicenda e nel circuito perverso del berlusconismo che lega la famiglia naturale alla famiglia politica, scatta un piano con le relative contromisure. Che non sono aziendali, secondo il principio del liberalismo classico: mi difendo "nel" mercato, e non "dal" mercato. Ma normative, secondo il principio del liberismo berlusconiano: se dal mercato non mi posso difendere, cambio le leggi. Un "metodo" collaudato, ormai, che anche sul fronte dell'economia (come avviene da anni su quello della giustizia) esige il "salto di qualità": chiamando in causa la politica, mobilitando il partito del premier, militarizzando il Parlamento. Un "metodo" che, nel caso specifico, si tradurrà in tre tentativi successivi di piegare l'ordinamento generale in funzione di un vantaggio particolare. I primi due falliranno. Il terzo centrerà l'obiettivo.

Il primo tentativo: il "pacchetto giustizia"

Siamo all'inverno 2008. Nessuno sa nulla, del braccio di ferro che vede impegnate la Mondadori e l'Amministrazione Finanziaria. Nel frattempo, il 13 aprile dello stesso anno il Cavaliere ha stravinto le elezioni, è di nuovo capo del governo, e Tremonti, da "difensore" del colosso di Segrate in veste di tributarista, è diventato "accusatore" del gruppo, in veste di ministro dell'Economia. Può scattare il primo tentativo. E nessuno si insospettisce, quando nel mese di dicembre un altro ministro del Berlusconi Terzo, il guardasigilli Angelino Alfano, presenta il suo corposo "pacchetto giustizia" nel quale, insieme al processo breve e alla nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, compare anche la cosiddetta "definizione agevolata delle liti tributarie". Una norma stringatissima: prevede che nelle controversie fiscali nelle quali abbia avuto una sentenza favorevole, in primo e in secondo grado, il contribuente può estinguere la pendenza, senza aspettare l'eventuale pronuncia successiva in terzo grado (cioè la Cassazione) versando all'erario il 5% del dovuto. È un piccolo "colpo di spugna", senz'altro. Ma è l'ennesimo, e sembra rientrare nella logica delle sanatorie generalizzate, delle quali i governi di centrodestra sono da sempre paladini. In realtà, è esattamente il "condono riservato" che serve alla Mondadori.

L'operazione non riesce. Il treno del "pacchetto giustizia", che veicola la pillola avvelenata di quello che poi sarà ribattezzato il "Lodo Cassazione", non parte. La dura reazione del Quirinale, dei magistrati e dell'opposizione, sia sul processo breve che sulle intercettazioni, costringe Alfano allo stop. "Il pacchetto giustizia è rinviato al prossimo anno", dichiara il Guardasigilli alla vigilia di Natale. Così si blocca anche la "leggina" salva-Mondadori. Ma dietro le quinte, nei primi mesi del 2009, non si blocca il lavoro dell'inner circle del presidente del Consiglio. Il tempo stringe: la Cassazione ha già fissato l'udienza per il 28 ottobre 2009, di fronte alla sezione tributaria, per discutere della controversia fiscale tra l'Agenzia delle Entrate e l'azienda di Segrate. Così scatta il secondo tentativo. In autunno si discute alla Camera la Legge Finanziaria per il 2010. È il secondo "treno" in partenza, e per chi lavora a tutelare gli affari del premier è da prendere al volo.

Il secondo tentativo: la Finanziaria

Giusto alla vigilia dell'udienza davanti alla sezione tributaria della Suprema Corte, presieduta da un magistrato notoriamente inflessibile come Enrico Altieri, accadono due fatti. Il primo fatto accade al "Palazzaccio" di Piazza Cavour: il 27 ottobre il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (che poi risulterà pesantemente coinvolto nello scandalo della cosiddetta P3) decide a sorpresa di togliere la causa Agenzia delle Entrate/Mondadori alla sezione tributaria, e di affidarla alle Sezioni Unite come richiesto dagli avvocati di Segrate, con l'ovvio slittamento dei tempi in cui verrà discussa. Il secondo fatto accade a Montecitorio: il 29 ottobre, in piena notte, il presidente della Commissione Bilancio Antonio Azzolini, ovviamente del Pdl, trasmette alla Camera il testo di due emendamenti alla Finanziaria. Il primo innalza da 75 a 78 anni l'età di pensionamento per i magistrati della Cassazione (Carbone, il presidente che due giorni prima ha deciso di attribuire la causa Mondadori alle Sezioni Unite, sta per compiere proprio 75 anni, e quindi dovrebbe lasciare il servizio di lì a poco). Il secondo riproduce testualmente la "definizione agevolata delle liti tributarie" già prevista un anno prima dal "pacchetto giustizia" di Alfano. È di nuovo la legge "ad aziendam", che stavolta, con la corsia preferenziale della manovra economica, non può non arrivare al traguardo.

Ma anche questo secondo tentativo fallisce. Stavolta, a bloccarlo, è Gianfranco Fini. La mattina del 30 ottobre, cioè poche ore dopo il blitz notturno di Azzolini, il relatore alla Finanziaria Maurizio Sala (ex An) avverte il presidente della Camera: "Leggiti questo emendamento che consente a chi è in causa con il Fisco e ha avuto ragione in primo e in secondo grado di evitare la Cassazione pagando un obolo del 5%: c'è del marcio in Danimarca...". Fini legge, e capisce tutto. È l'emendamento salva-Mondadori, con la manovra non c'entra nulla, e non può passare. La norma salta ancora una volta. E non a caso, proprio in quella fase, cominciano a crescere le tensioni politiche tra Berlusconi e Fini, che due anni dopo porteranno alla rottura. Ma crescono anche le preoccupazioni di Marina sull'andamento dei conti di Segrate. Per questo il premier e i suoi uomini non demordono, e di lì a poco tornano all'attacco. Scatta il terzo tentativo. Siamo ai primi mesi del 2010, e sui binari di Palazzo Chigi c'è un terzo "treno" pronto a partire. Il 25 marzo il governo vara il decreto legge numero 40. È il cosiddetto "decreto incentivi", un provvedimento monstre, dove l'esecutivo infila di tutto. Durante l'iter di conversione, il Parlamento completa l'opera. Il 28 aprile, ancora una volta durante una seduta notturna, un altro parlamentare del Pdl, Alessandro Pagano, ripete il blitz, e ripresenta un emendamento con la norma salva-Mondadori.

Il terzo tentativo: il "decreto incentivi"

Stavolta, finalmente, l'operazione riesce. Il 22 maggio le Camere convertono definitivamente il decreto. All'articolo 3, relativo alla "rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre 10 anni e per le quali l'Amministrazione Finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio", il comma 2 bis traduce in legge la norma "ad aziendam": "Il contribuente può estinguere la controversia pagando un importo pari al 5% del suo valore (riferito alle sole imposte oggetto di contestazione, in primo grado, senza tener conto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni)". E pazienza se il presidente della Repubblica Napolitano, poco dopo, sul "decreto incentivi" invia alle Camere un messaggio per esprimere "dubbi in ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del dibattito parlamentare". E pazienza se la critica del Quirinale riguarda proprio quell'articolo 3, comma 2 bis. Ormai il gioco è fatto. Il colosso editoriale di proprietà del presidente del Consiglio è sostanzialmente salvo. Per consentire alla Mondadori di chiudere definitivamente i conti con il Fisco manca ancora un banale dettaglio, che rende necessario un ultimo passaggio parlamentare. Il decreto 40 non ha precisato che, per considerare concluso a tutti gli effetti il contenzioso, occorre la certificazione da parte dell'Amministrazione Finanziaria.

Per questo, nel bilancio semestrale 2010 del gruppo di Segrate, presentato il 30 giugno scorso, Marina Berlusconi fa accantonare "8.653 migliaia di euro relativi al versamento dell'importo previsto dal decreto legge 25 marzo 2010, numero 40" sulla "chiusura delle liti pendenti", e fa scrivere, a pagina 61, al capitolo "Altre attività correnti": "Pur nella convinzione della correttezza del proprio operato, e con l'obiettivo di non esporre la società a una situazione di incertezza ulteriore, sono state attuate le attività preparatorie rispetto al procedimento sopra richiamato. In particolare si è proceduto all'effettuazione del versamento sopra richiamato. Nelle more della definizione del quadro normativo, a fronte dell'introduzione di specifiche attestazioni da parte dell'Amministrazione Finanziaria previste nelle ultime modifiche al decreto, e tenuto anche conto del fatto che gli atti necessari per il perfezionamento del procedimento e l'acquisizione dei relativi effetti non sono stati ancora completati, la società ha ritenuto di iscrivere l'importo anticipato nella posta in esame...". Ricapitolando: la Mondadori mette da parte poco più di 8,6 milioni di euro, cioè il 5% dei 173 che avrebbe dovuto al Fisco (al netto di sanzioni e interessi), in attesa di considerare perfezionato il versamento al Fisco in base alle ultime integrazioni al decreto che saranno effettuate in Parlamento. E le integrazioni arrivano puntuali, alla Camera, il 7 luglio: nella manovra 2011 il relatore Antonio Azzolini (ancora lui) inserisce l'emendamento finale: "L'avvenuto pagamento estingue il giudizio a seguito dell'attestazione degli uffici dell'Amministrazione Finanziaria comprovanti la regolarità dell'istanza e il pagamento integrale di quanto dovuto". Ci siamo: ora il "delitto" è davvero perfetto. La Mondadori può pagare pochi spiccioli, e chiudere in gloria e per sempre la guerra con l'Erario, che a sua volta gliene da atto rilasciandogli regolare "quietanza".

L'epilogo: una nazione "ad personam"?

Sembra un romanzaccio di fanta-finanza o di fanta-politica. È invece la pura e semplice cronaca di un pasticciaccio di regime. Nel quale tutto è vero, tutto torna e tutto si tiene. Stavolta Berlusconi non può dire "non mi occupo degli affari delle mie aziende": non è forse vero che il 3 dicembre 2009 (come riportato testualmente dalle intercettazioni dell'inchiesta di Trani) nel pieno del secondo tentativo di far passare la legge "ad aziendam" dice al telefono al commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi "è una cosa pazzesca, ho il fisco che mi chiede 900 milioni... De Benedetti che me li chiede ma ha già avuto una sentenza a favore, 750 milioni, pensa te, e mia moglie che mi chiede 90 miliardi delle vecchie lire all'anno... sono messo bene, no?". Stavolta Berlusconi non può dire che Carboni, Martino e Lombardi sono solo "quattro sfigati in pensione": non è forse vero che nelle 15 mila pagine dell'inchiesta delle procure sulla cosiddetta P3 la parola "Mondadori" ricorre 430 volte (insieme alle 27 in cui si ripete la parola "Cesare") e che nella frenetica attività della rete criminale creata per condizionare i magistrati nell'interesse del premier sono finiti sia il presidente della Cassazione Carbone (cui come abbiamo visto spettava il compito di dirottare alle Sezioni Unite la vertenza Mondadori-Agenzia delle Entrate) sia il presidente dell'Avvocatura dello Stato Oscar Fiumara (cui competeva il necessario via libera a quel "dirottamento"?).

È tutto agli atti. Una sola domanda: di fronte a un simile sfregio delle norme del diritto, un simile spregio dei principi del mercato e un simile spreco di denaro pubblico, ci si chiede come possano tacere le istituzioni, le forze politiche, le Confindustrie, gli organi di informazione. Possibile che "ad personam", o "ad aziendam", sia ormai diventata un'intera nazione?

m.giannini@repubblica. it
repubblica, 19 agosto 2010

lunedì 9 agosto 2010

bruce springsteen

Il sabato, La repubblica ti costringe (per 0,5 euro in più) a comprare "D - la repubblica delle donne".
Lo leggo più che altro per alcune belle rubriche, tra le quali oggi scelgo quella di Guia Soncini.
In effetti, Bruce Springsteen non mi aveva mai appassionato più di tanto fino a quando non ho comperato un bellissimo libro con tutti i testi commentati: "Come un killer sotto il sole".
In effetti, una delle mie frustrazioni è non saper capire le canzoni in inglese se non ho il testo davanti (e anche col testo, talvolta, è dura - vedi ad esempio i pezzi di frank zappa).
Bruce SDpringsteen ci ha abituato a concerti lunghissimi, sanguigni, molto ben suonati anche se può sembrare ripetitivo. Quando ha fatto uscire l'acustico "Nebraska"chi non capiva i testi si è detto "che palle!". E invece Nebraska, comprendendo i testi, è bellissimo.

g

---

MI MANCHI, "BOBBY JEAN"
Bruce Springsteen, 1984. Se non è una canzone d'amore questa, e se non piangete a sentirla, andate a farvi restituire il cuore da chi ve l'ha rimosso
Niente, non lo trovo. Maledetto disordine. Maledetti scatoloni. E maledetto pure Google, che non mi soccorre mai nelle emergenze. La prima volta che Bruce Springsteen comparve nella mia vita era il 1984. Era il suo n-disco che i critici (quei dementi) definivano «commerciale», Born In The Usa. L'anno dopo fece il suo primo concerto in Italia. Niente sarebbe più stato come prima. La prima volta che "Bobby Jean" comparve nella mia vita era più tardi, non so quanto, ma più tardi. Ne sono certa per due ragioni. La prima, e più importante, è che ero così piccola da affidare i miei gusti alla tv. Di "Bobby Jean" non c'era un video, o almeno non passava su "Deejay Television" (trasmissione al cui servizio pubblico dovrebbero comunque dare una medaglia al valore:
tutte le mie coetanee che parlano un inglese decente lo fanno perché, quando eravamo nell'età dell'apprendimento, dopo pranzo c'era "Sing a Song", ovvero i video con le parole in sovrimpressione, alcuni decenni prima di YouTu-be).
Quindi io mi concentrai su "Dancing in the Dark" (che era quella nel cui video lui tirava sul palco una moretta a ballare con lui, e la moretta raccolse in quei mesi più invidia che nei dieci anni in cui poi fu protagonista di Frìends), e su I'm on Fire" (lui meccanico, lei signora borghese che gli chiede dì riparare il motore e forse anche altro, ma lui alla fine desiste e si limita al motore).
La seconda ragione è che il mio primo approccio con "Bobby Jean" non fu con la canzone ma con l'analisi della canzone in un libro che ora, mannaggia, non riesco a ritrovare, e il cui autore diceva una cosa che mi colpì abbastanza da ricordarmene ancora, venticinque anni dopo.
Diceva il tizio che le donne "Bobby Jean" non la capiscono, ma tutti gli uomini che la ascoltano ci si ritrovano, perché tutti hanno avuto un'amica con cui facevano chiacchiere e compiti e qualche volta anche sesso, ma questo non importava poi molto, perché quel che contava era l'amicizia. Le donne non la capiscono.
Vorrei ritrovare il libro solo per vedere come si chiamava, l'autore, e telefonargli, e chiedergli che razza di donne conoscesse e se successivamente ne abbia incontrate di più sensate.
«Sono passato da casa tua, l'altro giorno: tua madre mi ha detto che te n'eri andata. Ha detto che non c'era niente che io potessi fare, niente che nessuno potesse dire, lo e te ci conosciamo da quando avevamo sedici anni. Avrei voluto sapere, avrei voluto poterti chiamare, solo per dirti: addio, Bobby Jean».
Se a questo punto non state già piangendo, andate a farvi restituire il cuore da chi ve l'ha rimosso. Se a questo punto state per alzare il ditino e dirmi che no, guarda, l'ambiguità del nome è voluta, hai fatto male a declinare i participi al femminile, le letture critiche non sono affatto certe che Bobby Jean sia una donna, dicono sia Steve Van Zandt che se ne voleva andare dalla E Street Band, dicono sia un amico, dicono -abbassate quel ditino, e vergognatevi -"Bobby Jean" non è una canzone d'amore: poi, cosa? Come eravamo è un film sul maccartismo? «Non c'è nessuno, in nessun posto, in nessun modo, che mi capirà mai come facevi tu. Forse sei là fuori, da qualche parte, lungo qualche strada, che viaggi su qualche pullman o treno. In qualche stanza di motel ci sarà una radio che suona, e mi sentirai cantare questa canzone. Be', se succede, sappi che sto pensando a te, e a tutte le miglia che ci dividono, e ti sto solo chiamando un'ultima volta. Mica per farti cambiare idea: solo per dirti "Mi manchi, baby, buona fortuna, addio, Bobby Jean"». Una storia di amici. Vergognatevi, voialtri con l'elettrocardiogramma piatto.

Affacciati alla finestra, amore mio di GUIA SONCINI
La Repubblica delle donne D34
7 AGOSTO 2010

Le sette sorelle del cibo

Le sette sorelle del cibo

IL MENÙ sulla tavola degli italiani è un affare in mano a sette sorelle. Noi scriviamo la lista della spesa, decidiamo che piatti servire, apparecchiamo e cuciniamo. Ma i veri padroni del nostro gusto sono i giganti della grande distribuzione organizzata (gdo).
Il 70% del cibo che entra nelle nostre case arriva dai loro scaffali. E i sette big del settore (Coop, Conad, Selex, Carrefour, Auchan, Esselunga e Despar) muovono da soli quasi il 65% del mercato. Scelgono i fornitori, decretano con un sì o con un no (viste le dimensioni dei loro ordini) i destini di agricoltori, stalle e aziende. E poco alla volta - come dice amaro Lorenzo Bazzana di Coldiretti - «hanno cambiato il palato degli italiani, nel nome del conto economico».
Noi, con la lista della spesa in una mano e il carrello nell' altra, non ce ne siamo nemmeno accorti. Ma il nostro frigorifero - nell' era low-cost della gdo - è diventato un melting pot alimentare multi-etnico a prova di Bossi-Fini.
«Prenda i pomodori - spiega Piero Sardo, responsabile bio-diversità di Slow Food - A Pachino in Sicilia si producono i migliori del mondo. Eppure spesso nei supermercati troviamo quelli che arrivano dall' Olanda, caricature dei pomodori veri».
Il motivo? Semplice. Non solo costano meno, ma soprattutto arrivano agli iper in modo regolare e costante 12 mesi l' anno grazie alle miracolose serre idroponiche dei Paesi Bassi e a una logistica molto più efficiente. Stesso discorso per le pesche, un altro prodotto il cui destino, con l' avvento della gdo, è cambiato per sempre. «Una volta si raccoglievano solo quelle mature, mettendole nelle cassette monostrato dopo aver diradato le foglie per favorire uno sviluppo armonico. Morbide, zuccherine, deliziose, pronte per il banco del fruttivendolo», ricorda Bazzana.
Oggi il fruttivendolo, in particolare nel Nord Italia, è una specie protetta dal Wwf. E verso un destino simile sono incamminate le pesche dolcissime di un tempo. Il vassoio monodose, in un super,è off limits: occupa troppo spazio. Un frutto (ma anche una verdura) troppo vicino alla maturazione pure: scade troppo in fretta. Così nelle campagne italiane si raccolgono le pesche ancora acerbe («e dure come il marmo», dice Sardo) in un unico momento e in cestini che si incastrano meglio negli scaffali.
Gusto vicino al segno algebrico negativo e prezzo salito dai 30 centesimi al chilo in campo fino ai due euro sullo scaffale, «dopo dieci passaggi di mano in una filiera che spesso nasconde interessi poco chiari», ammette Paolo Barberini, presidente di Federdistribuzione.
Demonizzare, naturalmente, è un errore. Siamo in un mondo globale dove la stella polare del capitale sono i costi bassi. «Noi acquistiamo tutto quello che ci è possibile sul mercato italiano - assicura il numero uno della gdo tricolore, Barberini - Abbiamo portato la mozzarella di bufala in Lombardia e il Culatello di Zibello in Sicilia. In vendita mettiamo quello che chiedono i consumatori, dai prodotti d' alta qualità a quelli low-cost. E, per dire, abbiamo fatto risparmiare loro un miliardo solo nel 2009».
Il problema è che gli italiani hanno sempre meno tempo e meno soldi. E i grandi supermercati sono la risposta più semplice a questo doppio problema. Quindici anni fa, 4 cittadini del Belpaese su 10 facevano la spesa nel negozio sotto casa. Oggi sono meno della metà. Mentre i super sono passati da 13mila a 20mila. La spiegazione è semplice: in un solo iper ci sono 20mila prodotti, luci e musiche studiate su misura (quella giusta fa vendere il 7% in più), una marea di articoli scontati (il 23% nel 2009), carte fedeltà fatte apposta per blandirci con specifiche iniziative di marketing. Morale: solo il 19% delle persone che entrano al super con la lista della spesa in mano arrivano alla cassa con nel carrello solo quello che si era appuntato. E in America si moltiplicano i casi di transfer di Gruen (dal nome dell' architetto che disegnò il primo iper), vertigini e perdita di consapevolezza innescate dalla struttura labirintica dei grandi magazzini.
«La modernità in questi casi è drammatica - dice Sardo di Slow Food - Le piccole produzioni di qualità non hanno accesso alla gdo. La mozzarella di bufala negli iper è fatta con latte cotto e non crudo e con acido citrico, il pane con preparati industriali, gli yogurt con le fragole surgelate arrivate all' industria dalla Cina. Abbiamo aperto troppi supermercati che si fanno la guerra sui costi e la qualità è crollata drammaticamente».
«Le prime cinque grandi imprese alimentari guadagnano ben più di noi», si difende Barberini e in effetti - conferma Andrea Zaghi, esperto del settore di Nomisma - pure le sette sorelle «hanno i margini ridotti all' osso».
Il problema è che a fare le spese di quest' asta al ribasso, alla fine, è il palato degli italiani. «Provate a fare assaggiare a un bambino un pollo ruspante - dice Sardo - Vi dirà che preferisce quello bianco, insapore, meno costoso e allevato in batteria cui è stato abituato della gdo».
Pure l' Europa e i suoi marchi di qualità un po' farlocchi ci hanno messo lo zampino. Dietro il simbolo Igp (indicazione geografica protetta) si nascondono Bresaole valtellinesi fatte con Zebù brasiliani, Speck tirolesi confezionati con maiali danesi, prosciutti crudi emiliani arrivati in realtà dalla Germania. Tutto regolare, perché l' Igp indica solo il luogo di lavorazione, anche se in pochi lo sanno. E tutti alla fine comprano il loro bel prodotto Igp, contenti di risparmiare.
«La colpa non è solo della gdo- conferma Zaghi - la nostra agricoltura è troppo polverizzata». «Prendiamo l' esempio delle pesche - dice Barberini - Nel Belpaese ci sono mini-frutticoltori con due-tre ettari di terra, non coordinati tra di loro. In Spagna i piccoli si sono consorziati, hanno programmato la produzione spalmandola su tre mesi. E alla fine lavorano con noi. In Italia ci propongono tonnellate di frutti tutti negli stessi 10 giorni. È un miracolo se li prendiamo a quei prezzi... ».
Vecchia polemica: Coldiretti sostiene che su 100 euro pagati per un prodotto al super, 60 vanno alla gdo e 17 solo all' agricoltore. Federdistribuzione sostiene di incassarne solo 30 contro i 33 dell' industria e i 37 del contadino.
Di sicuro però in Italia le stalle sono scese da 180mila a 43mila e il 50% delle aziende agricole, secondo un' indagine Inea, lavora in perdita. «Bisognerebbe fare come in Francia dove la grande distribuzione ha fatto un patto d' acciaio con i produttori locali per aiutarli ad aggirare la crisi», dice Sardo. «Per me è un esempio sbagliato- conclude Barberini - Non servono accordi imposti, ma condivisi. Se mi obbligano a pagare di più proteggo le inefficienze della filiera e faccio pagare di più i clienti».
Gli italiani assistono impotenti al braccio di ferro. Il loro gusto ha subìto senza accorgersene la rivoluzione culturale imposta giocoforza dai big della gdo. Ma oggi le mozzarelle azzurre e le ricotte rosse hanno aperto un po' gli occhi a tutti. Crescono i mercati a chilometro zero, tornano di moda gli ambulanti, le mele antiche, i gruppi d' acquisto solidali e i prodotti locali. L' obiettivo? Riprendere a scriversi da soli il menù di casa nostra. Difficile però che le sette sorelle restino con le mani in mano: la crisi morde, ma nei prossimi tre anni investiranno altri 3 miliardi di euro per 34 strutture e 20mila posti di lavoro. La guerra per il palato tricolore è ancora lontana dalla fine...
ETTORE LIVINI Repubblica — 05 agosto 2010

sabato 7 agosto 2010

birmania: Cosa stanno facendo Unione Europea e Commissione Europea?

Domani è l'8 agosto, anniversario della della sanguinosa repressione dell'8 agosto 1988 da parte della giunta che uccise oltre 3.000 persone scese in piazza pacificamente per la democrazia.
l'articolo è tratto dal sito www.birmaniademocratica.org.
Ricordo che dopo un viaggio nel Paese, ho organizzato tempo fa due mostre sulla situazione birmana: foto sul sito www.verdementa.org, che ho rinnovato ieri.

g
----


Cosa stanno facendo Unione Europea e Commissione Europea?
Irrawaddy. 21 luglio 2010

Il mese scorso una delegazione dell’Unione Europea ha annullato una visita prevista in Birmania dopo che il regime birmano aveva rifiutato alla delegazione il permesso di incontrare Aung San Suu Kyi, il leader dell’opposizione agli arresti.Tuttavia secondo diverse fonti UE ben informate alcuni Stati membri sembrerebbero comunque interessati a recarsi a Naypyidaw per incontrarsi con gli ufficiali birmani nonostante il “no” all’incontro con Aung San Suu Kyi. The Irrawaddy ha inoltre appreso che diversi funzionari dell’UE appartenenti allo schieramento favorevole alle relazioni con la Birmania starebbero anche spingendo per una politica di maggiore apertura nei confronti del regime.

Piero Fassino, inviato speciale dell’UE per la Birmania, è chiaramente favorevole ad una nuova visita nel paese. Tuttavia le recenti richieste di Fassino di recarsi nel paese sono state respinte dalla giunta, mentre le missioni svolte in passato sono fallite miseramente.Che Fassino abbia una scarsa conoscenza della Birmania e della sua situazione politica è un dato di fatto. Per quale ragione vorrebbe quindi recarsi nuovamente in visita nel paese?

Un’apertura nei confronti del regime birmano può essere accettabile, nella misura in cui il regime mostri una corrispondente volontà politica e tale apertura possa produrre esiti tangibili. Tuttavia la politica di apertura dell’UE non ha fino ad ora prodotto alcunché di positivo.I gruppi pro-Birmania hanno da tempo espresso una seria preoccupazione in merito al fatto che l’inviato dell’UE per la Birmania ha più volte minato, pubblicamente e privatamente, la stessa posizione comune che è stato delegato a sostenere nei confronti dei paesi asiatici.In effetti, la politica comune dell’UE consiste nel mantenere o nel rafforzare le sanzioni nei confronti del regime e nel sostenere il dialogo politico e la riconciliazione nazionale tra opposizione e regime. È inoltre possibile aumentare la pressione se necessario, imponendo ad esempio un embargo sugli armamenti nei confronti della Birmania.Tuttavia l’UE non ha ancora utilizzato appieno le proprie capacità di pressione economica e politica con l’obiettivo di produrre un esito positivo nella Birmania dei militari.

La complessità dell’UE non può di certo essere negata; tuttavia – fattore quanto meno allarmante – alcuni Stati membri non sembrano allinearsi alla politica comune dell’Unione, ciò che comporta tensioni e confusione all’interno dell’Unione stessa.

Il problema sta nel fatto che la politica dell’UE nei confronti della Birmania invia segnali contrastanti alle forze democratiche birmane, interne ed esterne al paese. The Irrawaddy ha appreso che la stessa Aung San Suu Kyi, leader democratica agli arresti domiciliari, al pari di membri di alto rango della ora fuorilegge Lega Nazionale per la Democrazia, hanno recentemente espresso la propria preoccupazione nei confronti della politica dell’UE.

Sembra che Regno Unito, Svezia, Repubblica Ceca, Irlanda, Danimarca e Paesi Bassi intendano mantenere una politica comune dell’UE, mentre altri Stati membri, in particolare Germania e Spagna, starebbero spingendo per una linea di maggiore apertura, se non addirittura di un franco sostegno, nei confronti delle elezioni farsa organizzate dal regime, come pure nei confronti di alcuni loschi e controversi figuri che apparterrebbero ad una “terza forza” all’interno del paese. Diversamente dai membri del Parlamento Europeo, i burocrati della Commissione Europea (CE) sostengono il dialogo con la giunta e il rafforzamento della cooperazione con alcuni sospetti alleati della giunta e con la già citata “terza forza”, al contempo sostenendo il taglio ai finanziamenti per i profughi lungo il confine tra Thailandia e Birmania.

La cooperazione con la “terza forza” e con i sopra citati loschi figuri con l’obiettivo di sostenere le elezioni farsa organizzate dal regime e le attività volte a minare attivisti, gruppi della società civile all’interno all’esterno del paese e i principali partiti dell’opposizione appare una scelta quantomeno dubbia. È interessante inoltre rilevare come alcuni funzionari della CE abbiano sostenuto di nascosto la “terza forza” all’interno del paese nel processo di creazione di una società civile. Davvero i burocrati della CE ritengono che questi soggetti secondari appartenenti alla “terza forza”, che non sono in realtà null’altro che portavoce del regime, possano creare una società civile in Birmania?

Su questa base, non meraviglia affatto che i birmani all’interno e all’esterno del paese considerino i burocrati della CE come parte del problema nel già complesso panorama politico birmano. Questi burocrati sembrano sostenere tale controversa “terza forza” all’interno della Birmania e le elezioni farsa volute dal regime piuttosto che rafforzare sanzioni mirate contro il regime e i suoi seguaci o sostenere la commissione di inchiesta delle Nazione Unite sui crimini contro l’umanità, già auspicata dall’inviato per i diritti umani. Lo scorso mese di marzo il Relatore Speciale delle Nazione Unite sulla Birmania ha dichiarato come gli abusi dei diritti umani in Birmania siano di una gravità estrema e che le Nazioni Unite dovrebbero considerare l’istituzione di una commissione d’inchiesta che indaghi su possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità. A tutt’ora l’UE non si è espressa in merito, come se il regime non avesse commesso crimine alcuno. Tristemente la decisione della Commissione Europea di tagliare i fondi per gli interventi di soccorso ha fortemente scosso la zona al confine tra Thailandia e Birmania, essendo l’UE uno dei principali donatori per l’area.

Le agenzie che si adoperano a favore dei rifugiati lungo il confine tra Thailandia e Birmania hanno espresso la propria preoccupazione in merito al fatto che il taglio dei finanziamenti potrebbe ostacolare i programmi di assistenza medica per i profughi birmani.

Secondo la Burma campaign UK con sede a Londra, “la Commissione Europea si è costantemente rifiutata di finanziare tali aiuti e non ha fornito una spiegazione adeguata delle motivazioni, adducendo invece vaghe dichiarazioni in merito a questioni di responsabilità e monitoraggio. Si tratta di una tesi assolutamente non credibile, dato che il governo britannico e altri Stati membri dell’UE che adottano requisiti di monitoraggio estremamente severi hanno espresso la propria soddisfazione sull’esito del monitoraggio degli aiuti transfrontalieri”. Sempre secondo Burma Campaign UK, “nella sola Birmania orientale si trovano almeno 100.000 sfollati interni che necessitano disperatamente degli aiuti transfrontalieri; sempre in Birmania orientale circa 2.500.000 persone hanno come unica o comunque più agevole fonte di aiuto l’assistenza transfrontaliera. L’assistenza transfrontaliera è inoltre necessaria anche in altri stati della Birmania”.

Il 20 maggio il Parlamento Europeo ha richiesto alla Commissione Europea di “annullare i tagli dei finanziamenti ai profughi sul confine tra Thailandia e Birmania e di avviare immediatamente il finanziamento agli aiuti transfrontalieri, con particolare riferimento all’assistenza medica”.

Tuttavia dopo l’affermazione del ministro degli esteri tailandese lo scorso mese di giugno secondo la quale il governo di Bangkok sperava di poter rinviare nel proprio paese i profughi birmani dopo le elezioni, un funzionario dell’UE ha dichiarato a The Irrawaddy: “L’UE non ritiene che le elezioni del 2010 in Myanmar [Birmania] possano creare condizioni che consentano un ritorno immediato principalmente di soggetti Karen in Birmania orientale, in particolare dato che un cessate il fuoco tra l’SPDC [il governo birmano] e i leader Karen appare improbabile e stante il perseguire del conflitto armato”. Qual è quindi l’effettiva posizione attuale di UE e CE?

Gli osservatori dell’UE ritengono che le divisioni interne e la confusione della Comunità abbiano reso addirittura più complessa l’elaborazione di una posizione sulla Birmania e ne abbiano minato la reputazione. Recentemente The Irrawaddy ha appreso che alcuni funzionari e burocrati della Commissione Europea hanno assunto posizioni personali che appaiono in contrasto non solo con la politica comune dell’UE, ma addirittura con i principi democratici.

Sembra che tali soggetti siano fortemente critici nei confronti di Aung San Suu Kyi e della decisione del suo partito di non partecipare alle prossime elezioni. Inoltre tali funzionari e burocrati della Commissine Europea considerano i gruppi della società civile, gli attivisti lungo il confine e i movimenti etnici semplicemente alla stregua di provocatori. Se quanto sopra è vero, non possono non sorgere dubbi sull’integrità e sulla dignità dell’UE e sui suoi stessi principi democratici. Questi funzionari e burocrati sono probabilmente nati in una società democratica. È quanto meno ironico che abbiano espresso la propria avversione nei confronti di gruppi di attivisti della società civile che lavorano per una Birmania migliore.

Il regime detiene in gulag oltre 2000 prigionieri politici, i soldati continuano a perpetrare abusi dei diritti umani nelle regioni abitate dai gruppi etnici, mentre i profughi e gli sfollati vengono lasciati a loro stessi lungo il confine. Il paese è pervaso da un clima di paura. Tuttavia l’UE invia segnali contrastanti alla Birmania e al movimento pro-democratico, una situazione vergognosa che ha contribuito ad aggravare l’insoddisfazione dei birmani all’interno e all’esterno del paese nei confronti della politica dell’UE.

In una recente lettera ai ministri degli esteri dell’UE, gruppi europei di lobbying pro-Birmania hanno espresso “profonda preoccupazione per il fatto che funzionari della Commissione Europea si esprimano apertamente e pubblicamente contro la Posizione Comune concordata dagli Stati membri dell’UE, come pure contro le posizioni assunte dal Parlamento Europeo nelle sue risoluzioni. Riteniamo che sia inaccettabile che funzionari della Commissione che non dispongono di nessun mandato democratico minino la posizione ufficiale degli Stati membri e del Parlamento Europeo, entità dotate di una responsabilità democratica”.

È giunto il momento che UE e Commissione Europea chiariscano ufficialmente i punti sopra delineati; è inoltre necessario che le forze democratiche birmane, i gruppi di attivisti e i gruppi in esilio analizzino più approfonditamente le politiche di UE e CE nei confronti della Birmania al fine di responsabilizzare maggiormente tali organizzazioni in un momento così critico come quello attuale per il paese.

venerdì 6 agosto 2010

treno: il tgv ha carrozze cellulari-free

Incredibile! Certe volte le idee si materializzano. Tempo fa lanciai l'idea di creare alcune carrozze dei treni "senza telefonino".
Nell'ultimo numero della bella rivista gaia viene riportato un articolino di Lina Sotis (forse dal "corriere") nel quyale si accenna al fatto che in Francia su alcuni TGV questo esiste, e i viaggiatori parlano tra una carrozza e l'altra.
Sono andato a spulciare in internet, e ho trovato che in francia le ferrovie hanno alcuni blog di colloquio con i clienti uno è ad esempio:

http://www.chatconference.com/chat/crmservices/s_313951

nel quale ho trovato:

Christophe: Le principe des voitures "silence" existe sur certaines lignes. Peut-on généraliser ce principe ? Le TGV est un moyen de transport qui n'est pas forcément associé au voyage d'agrément. Trouver des espaces silencieux participe véritablement au confort que le transporteur choisit d'offrir.

risposta di MireilleFaugere: Vous avez parfaitement raison. Le silence est une vraie attente de nos voyageurs et il faut savoir le leur garantir. Nous l'avons réussi sur IDTGV avec IDZen mais nous le n'avons pas complètement réussi avec le picto silence dans les voitures TGV. Nos voyageurs ne sont pas encore assez respectueux avec leur téléphone portable du besoin de silence de leurs voisins. Quand nous réfléchissons à TGV du futur, nous devons trouver la bonne proposition de placement ou d'organisation des espaces pour pouvoir garantir le silence à ceux qui le souhaitent.

C'è ancora strada da fare, quindi, ma almeno si comincia!

Un appello da Gaia: il governo Berlusconi, con un decreto pirata Tremonti, ha eliminato le agevolazioni postali per le associazioni senza scopo di lucro. Così il costo della spedizione di Gaia, dal 1° Aprile, è passato da 264 a 1.132 euro. Vogliono farci chiudere! Invece resistiamo, ma voi dovete fare la vostra parte: il totale degli abbonati rimane ancora sotto i 1.100 che ci garantirebbero l'equilibrio costi-ricavi dopo questa carognata.
Noi continuiamo a pubblicare Gaia senza pubblicità né soldi pubblici, VOI CHE LA CONOSCETE ALLARGATE LA CERCHIA, FATE ABBONARE ALMENO UNA PERSONA AMICA La rivista vive cosi, di rapporti stretti- di cerchi sempre più larghi.ABBONATEVI!


per un anno: € 20,00 (4 Gaia + 6 Tera e Aqua) per due anni: € 35,oo
Vi proponiamo inoltre questi abbonamenti cumulativi annuali
con un grosso risparmio sul totale dei due abbonamenti
Gaia + Altreconomia (11 numeri; € 50.00 anziché 58.00
Gaia + Azione Nonviolenta (10 numeri) € 39,00 anziché 50,00
Gaia + CEM Mondialità (10 numeri) € 38,00 anziché 48,00
Gaia + ECO (9 numeri) € 35,00 anziché 50,00
Gaia + Guerre & Pace (10 numeri) € 40,00 anziché 52,00
conto corrente postale 29119880
Ecoistituto del Veneto Alex Langer - Viale Venezia, 7 - 30171 Mestre
bonifico bancario
presso: Cassa di Risparmio di Venezia, agenzia 7 di via Piave - Mestre
coordinate bancarie IBAN: IT90 S063 4502 0220 7400 0757 60P
Ecoistituto del Veneto

il futuro dell'auto elettrica

Carlos Ghosn, CEO DI RENAULT E NISSAN: ENTRO IL 2015 IL 10% DELLE AUTO SARÀ ELETTRICO

L'auto del futuro sarà elettrica. Carlos Ghosn, Amministratore delegato di Renault e Nissan, ci crede: ha investito 4 miliardi di euro per farne un mezzo di locomozione di massa. E in questi giorni le prime Kangoo e Fluence elettriche saranno consegnate a Milano e in Israele. «Entro il 2015 il 10% delle auto in circolazione saranno elettriche», ripete Ghosn a ogni occasione. E infatti nei suoi stabilimenti è già prevista una capacità produttiva di 500mila veicoli elettrici entro il 2013. Ma come? Su 61 milioni di auto nuove vendute nel mondo, solo 732mila erano elettriche nel 2009 e quest'anno non si arriverà al milione. Per di più, il mercato è composto al 98% da auto ibride, alimentate anche a benzina, non da plug-in, che si ricaricano infilando la spina nella presa. Le vere auto elettriche, al momento, sono un prodotto di nicchia, un gadget per ecologisti irriducibili e star di Hollywood. E le prime 60, in circolazione in Italia da quest'estate, saranno solo in affitto. Per acquistarle dovremo aspettare l'anno prossimo. Ma come si farà a trasformarle in un mezzo di trasporto per le masse?
«È il modello di business che farà la differenza» – spiega Sebastien Albertus, responsabile Renault per lo sviluppo dell'e-car –. Le batterie sono ancora molto costose e se dovessimo venderle insieme alla macchina, questo farebbe lievitare troppo il prezzo». Ghosn, invece, vuole rendere le sue auto elettriche adatte per tutte le tasche e quindi ha deciso di puntare su una strategia commerciale innovativa, basata sul noleggio della batteria e non sul suo acquisto. In sostanza, i consumatori acquisteranno il veicolo elettrico allo stesso prezzo del suo corrispondente a benzina e prenderanno la batteria a noleggio, insieme a un abbonamento per la sua alimentazione. Batteria e alimentazione elettrica diventeranno il nuovo carburante.
«Una soluzione ideale per una serie di motivi, fra cui anche il fatto di tutelare il cliente dalla svalutazione della batteria, imputabile ad esempio all'arrivo di nuove tecnologie», sostiene Albertus. Tenuto conto che il prezzo dell'elettricità è più basso di quello dei carburanti fossili, alla fine il costo di utilizzo totale sarà sensibilmente inferiore rispetto a quello di un veicolo a motore a scoppio. Per la precisione, considerando un prezzo orientativo del l'elettricità in Italia di 17 centesimi per kilowattora e un consumo di 14 kilowattora ogni cento chilometri per le batterie agli ioni di litio, con un'auto elettrica spenderemo 24 euro per percorrere mille chilometri, contro gli 80 euro di un'utilitaria a benzina: -70 per cento.
Senza contare il risparmio dei costi di manutenzione legati all'assenza, nel motore elettrico, di componenti soggetti a periodica revisione e sostituzione, come olio, filtri, candele, bobine e via elencando. In totale, quindi, i costi di gestione del l'auto (noleggio della batteria + costo dell'elettricità + manutenzione) dovrebbero essere inferiori di circa il 20% rispetto a quelli di un'auto tradizionale.
Resta l'annoso problema dell'autonomia: anche le batterie al litio più innovative si esauriscono dopo 160 chilometri e hanno bisogno di ore per ricaricarsi. «Un falso problema – commenta Sebastien Albertus –. Considerando che il 60% dei guidatori europei percorre meno di 30 chilometri al giorno e l'87% meno di 60 chilometri e che ogni anno in Europa 400mila persone acquistano una seconda o terza auto per percorrere in media meno di 70 chilometri al giorno, il potenziale teorico di sostituzione dei veicoli convenzionali con veicoli elettrici appare considerevole».
Quali i vantaggi? «Sul piano ambientale sono enormi – fa notare Albertus –. Già oltre il 50% della popolazione mondiale abita in città e si prevede che entro il 2050 saranno due terzi. E proprio sulle città è più pesante l'impatto ambientale dei motori a combustione interna. In Italia, sono 47 milioni i veicoli che circolano sulle nostre strade, 17 milioni in più rispetto a 20 anni fa. Di questi, il 75% è rappresentato da auto private: un dato che fa dell'Italia uno dei paesi con il più alto tasso di motorizzazione al mondo. In Europa, con una media di 60 auto ogni 100 abitanti – che salgono a oltre 70 in città come Roma – siamo secondi solo al Lussemburgo. Questo parco veicoli è responsabile a livello nazionale del 63% del monossido di carbonio, del 64% degli ossidi di azoto e del 41% delle polveri sottili emessi in atmosfera. Per quanto riguarda il particolato fine, il famigerato PM10, l'incidenza dell'automobile è stimata intorno al l'8-10% su scala nazionale e al 20-22% a livello metropolitano. Se l'auto elettrica prendesse piede nelle città, tutto ciò sparirebbe».

Fare il pieno velocemente
E come la mettiamo con la rete di distribuzione? La soluzione di base c'è già: è la rete elettrica. Qualsiasi presa domestica va bene per ricaricare una e-car. In più, per assicurare piena autonomia di percorrenza, sono già stati firmati decine di accordi per sviluppare una rete capillare di punti di ricarica e assistenza su tutto il territorio: a Milano si stanno già mettendo giù le prime 270 colonnine. In pratica, tre modalità di ricarica saranno possibili, una volta installata l'apposita infrastruttura: la ricarica normale, in 6-8 ore, attraverso una colonnina di ricarica o una presa simile a quelle tradizionali da 220 volt, a casa propria, in ufficio, per strada, nei parcheggi o nei centri commerciali; la ricarica rapida, attraverso apposite colonnine con una presa da 400 volt, in grado di rifornire il veicolo in un arco di tempo contenuto (20-30 minuti); la sostituzione rapida, in 3-5 minuti, della batteria scarica con una nuova.
Il cosiddetto servizio di «Quick drop» è una formula particolarmente innovativa, oggetto delle prime sperimentazioni in questi mesi in Israele, grazie a una collaborazione fra Renault e la società Better Place, che ha messo a punto e brevettato il sistema. Analogamente a quanto accadeva con le vecchie stazioni di cambio dei cavalli, il sistema Quick drop prevede, in mancanza di tempo necessario a fare il pieno di energia, punti di sostituzione rapida delle batterie: tunnel simili a quelli dell'autolavaggio, dotati di un braccio idraulico per sostituire la batteria scarica con una nuova. Questa è una delle ragioni per cui le batterie non possono essere acquistate, ma solo noleggiate: così sarà più facile sostituirle in caso di necessità. (el.c.)
elenacomelli.nova100.ilsole24ore.com

http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2010-07-15/scommessa-elettrica-081033.shtml?uuid=AYKn6w7B#continue

giovedì 5 agosto 2010

Varlam Šalamov

Sinceramente, non avevo mai sentito neppure parlare di Šalamov prima di questo bell'articolo di Roberto Saviano, pubblicato sulla domenica del sole 24 ore del 4 luglio 2010.
g
---

Leggere Šalamov mi ha cambiato la vita. Di per sé questa non è una gran notizia. Non è nulla di importante, anzi, è un dettaglio privato di nessun valore per un lettore. Ma da parte mia può esser il miglior invito a entrare nelle sue pagine.
Non saprei cosa dire di più convincente e di più vero.
È un autore che ho conosciuto quasi per caso, trovando i suoi libri con una certa difficoltà.
Mi fu consigliato di leggere I racconti della Kolyma da Gustaw Herling, autore di “Un mondo a parte” e reduce dai gulag, che il destino portò a vivere a Napoli. Un consiglio che passava di bocca in bocca tra i dissidenti dell’Est, tra chi sapeva che il sogno di un’umanità redenta da ingiustizie e fatica, riscattata dal salario e dall’oppressione si era materializzata in uno degli incubi peggiori che l’uomo avesse mai visto: i gulag. Entrare nelle pagine di Varlam Šalamov è una vera e propria esperienza fisica per il lettore.
Aveva fatto vent’anni di gulag questo scrittore sconosciuto al grande pubblico e venerato dai suoi pochi lettori.
Venti lunghi anni in Siberia. Vent’anni per reati di opinione. Questa la condanna.
E quelli che gli erano rimasti da vivere dopo il lager li passò a raccon­tare quell’esperienza, con la coscienza di chi sa che sta facendo qualcosa di assolutamente necessario. E per farlo perse tutto. Per scrivere del gulag perse addirittura la vicinanza della prima moglie, che al suo ritorno dai campi andò a prenderlo alla stazione e gli comunicò, sulla banchina, che non voleva altri guai, e che avrebbe fatto meglio a cercarsi un’altra destinazione. Così Šalamov andò a vivere da solo, in una stanza minuscola, sotto costante osservazione dei servizi di sicurezza sovietici.
La sua grandezza non è solo nella testimonianza, che pur necessaria, è cosa diversa dalla letteratura. Le storie di Šalamov smettono di essere gulag, Siberia, totalitarismo, automutilazione, morte. Divengono, come solo la letteratura può divenire, spazi e azioni che mettono alla prova l’essere umano e ne tracciano l’essenza.
È una lettura che richiede la forza di continuare, pagina dopo pagina, l’ascesa verso la spogliazione dell’anima. Una dimensione universale. Una discesa e una risalita nella dimensione dell’uomo. Al netto della sofferenza, dopo la feccia della corruzione. Šalamov disegna l’individuo assoluto. L’essere nudo di fronte all’esistenza. È una letteratura che ti permette di vedere cos’è l’uomo, la sua capacità di resistere. A meno quaranta gradi sotto zero, circondato da esseri che hanno l’unico obiettivo di toglierti il pane e ogni mattina sperano di trovarti morto per prenderti i vestiti. Lì l’uomo può ancora tentare di essere uomo. Questo si chiede e cerca in se stesso Varlam Šalamov.

Non lasciatevi scoraggiare dai racconti che leggerete, non partite prevenuti sapendo che sentirete nelle carni sensazioni atroci, non spaventatevi sapendo che apprenderete di torture orribili e tremende ingiustizie. Gli scritti di Šalamov sono la conferma del bene. Può sembrare paradossale, ma è così. Lo diceva lui stesso. «I miei scritti sono la conferma del bene sul male». Tutta quella sofferenza, quel male, quelle privazioni, alla fine dimostrano quanto l’animo umano sia capace di salvarsi. C’è bellezza e forza sul fondo di tutto quell’orrore.
In Šalamov c’è sempre la consapevolezza di non aver mai e poi mai tradito il prossimo per migliorare la propria condizione. È la cosa di cui più andava fiero.
Šalamov riesce a dimostrare la bontà del singolo gesto nell’inferno quotidiano del gulag. Come la frase di un personaggio di Vasilij Grossman: «Non ci credo, io, nel bene. Io credo nella bontà». Il bene è una considerazione metafisica, lontana, generale, postuma. La bontà è uno spazio del presente. Del guardarsi negli occhi. Di un momento. La bontà è umana, il bene è storico. E quando si parla di progetto storico, di giustizia, di felicità come di qualcosa che trascende l’umano Šalamov ha un brivido di paura. Sa che si parla di qualcosa che l’uomo subirà, che passerà sull’uomo.
Šalamov riesce a dimostrare attraverso l’osservazione della natura che resistere si può. In ogni singola vicenda c’è una stilla di possibilità: la possibilità della vita. Questo discorso nelle pagine di Šalamov non è retorico. Non è nemmeno religioso. Non c’è un voler credere in un contesto dove tutto è disperante e disumano. La sua è una ricerca. Stando in silenzio, lottando per mangiare. L’orgoglio dell’esistenza. La capacità di non lasciarsi corrompere dal bisogno. Si può continuare a essere uomini anche in quelle condizioni, ci si può riuscire. Questa è la grandezza di Šalamov.
In Italia non è stato pub­blicato per molti anni. Era uscito per la prima volta nel 1976, fra le polemiche tipiche e desolanti di quegli anni. Poi era scomparso. Mentre i Racconti della Kolyma uscivano in Francia, nel 1980, e negli Stati Uniti nel 1982, da noi si discuteva sull’opportunità o meno di dargli voce. Molti intellettuali vicini al Partito comunista, molti editori vicini al Partito comunista lo rifiutarono considerandolo reazionario, favolistico, esagerato. Šalamov sapeva dell’enorme diffidenza attorno al suo libro, ne era cosciente. Veniva spesso accusato di essere anticomunista, disfattista, al servizio delle potenze capitaliste. Per sua disgrazia, era semplicemente uno scrittore. E questo bastava per farlo odiare.
Šalamov racconta un inferno che i lettori non conoscono bene quanto quello di Auschwitz. E che neanche sospettano. Attorno alle atrocità del comunismo sovietico dei gulag è calato il silenzio per troppo tempo. La loro esistenza nell’immaginario di quasi tutti non esiste. Lo conoscono gli specialisti, la parte colta della società. Un silenzio enorme e colpevole. «Mi si prospettava una discesa agli inferi, come Orfeo, insieme alla dubbia speranza di riemergerne».

L’ha fatta due volte quella discesa Šalamov: nel viverla e nel raccontarla una volta uscito. Eppure leggendo queste pagine non si ha mai un senso di malinconia, di depressione. Di scora­mento.
Incredibilmente le pagine di Šalamov trasudano speranza nella resistenza. Non concedono nulla alla disperazione. La disperazione gli sembra qualcosa che attesta la vittoria del potere. Non bisognava cederle. La morte poteva essere un traguardo sperato. Ma lasciarsi andare, diventare come ti volevano, era per lui la sconfitta peggiore. Non mi è mai capitato di chiudere un suo libro senza la sensazione di aver capito come cercare di vivere, senza la netta sensazione di aver ricevuto in dono dalle sue storie una mappa per procedere nel quotidiano. Qui, lontano dalla Siberia, lontano dai gulag, lontano anni e chilometri da Stalin. Eppure queste parole dicono di qui, di ora, e ti guidano verso un vivere più cosciente. Più vero. Assoluto. Višera diviene anche una sorta di manuale di sopravvivenza. Non solo nell’universo concentrazionario. È un manuale sulla possibilità di essere uomini, nonostante tutto. «Non avrei temuto niente e nessuno. La paura è un sentimento vergognoso e depravante, che umilia l’uomo. A nessuno avrei chiesto di fidarsi di me, né io mi sarei fidato di alcuno. Per il resto, avrei fatto conto sulla mia intuizione e sulla mia coscienza».

Sente Var­lam Šalamov, vuole sentirlo, deve sentirlo di star lì non da solo: «ero dov’ero in nome di coloro che continuamente finiscono in carcere, al confino, nei lager… Essere un rivoluzionario significa prima di tutto essere una persona onesta. Di per sé una cosa semplice, eppure così difficile». Rivoluzione come onestà. La cosa più complessa che esista. Un’onestà che non deve essere leale verso nessun codice penale, ma verso la parte più profonda di se stessi.

Un giorno Šalamov venne a sapere dell’invenzione di due prigionieri, Miller e Novikov: un vagone che si scaricava da solo. Una semplice, piccola rivoluzione che avrebbe in parte alleggerito il tremendo giogo a cui erano sottoposti nei gulag i prigionieri. Šalamov riuscì a far passare la notizia sulla rivista specializzata «Bor’ba za tech­niku». Nel 1937 il direttore venne fucilato comunque. Invece al caporedattore che aveva pubblicato la notizia, amico di Šalamov, andò un po’ meglio: gli «spezzarono la schiena a furia di botte, a Lefortovo, durante un interrogatorio» dice lui. Però poi aggiunge con una strana forza consolatoria: «Ma è ancora vivo e scrive…». Questa consolazione mi sembra la verità ultima dietro la sua vita. Ecco. È ancora vivo. Ma quel «vivo» non basta. Deve aggiungere: «e scrive». La sper­anza, l’unica, passa esclusivamente attra­verso la scrittura. E la resistenza.
Scrivere è resistere. Non serve altro a Šalamov. Non serve altro ancora a molti altri per continuare a raccontare la propria ver­ità. Scrivere diviene forse una ricompensa a sopportare tutto, una necessità per darsi forza e continuare a vivere.
Vivere per scrivere, perché se non lo racconti, non succede. E se non lo fai, nessuno saprà mai che è successo.


Esce in libre­ria “Višera”, ter­ri­bile pre­lu­dio ai “rac­conti della Kolyma” in cui l’autore Var­lam Šalamov (1907– 1982) racconta la nascita dei lager sovietici. Il cosiddetto antiromanzo è tradotto per la prima volta in italiano da Claudia Zonghetti per Adelphi (pagg. 238, €18). La prefazione, in gran parte pubblicata dal Sole 24 Ore per gentile concessione dell’autore, è di Roberto Saviano. Nel libro Šalamov racconta il suo primo arresto e le prime esperienze nel gulag, negli anni venti. Dal 1927 svolse attività d’opposizione al regime staliniano, fu arrestato e deportato a nord dell’Ural. Liberato nel 1932, tornò a Mosca, dove intraprese l’attività giornalistica, scrisse poesie e racconti, ma nel 1937 fu nuovamente deportato nella Kolyma, in Siberia. Liberato 17 anni più tardi, fece ritorno a Mosca. Le sue opere sono state pubblicate solo dopo la sua morte. Nelle edizioni Adelphi si possono leg­gere “I racconti della Kolyma” e “La quarta Vologda.”

il cappello

Tra le onde impetuose di un commovente amore fraterno per il suo premier, leader, amico e cliente, l'onorevole e avvocato Niccolò Ghedini ha lasciato cadere un granello di illuminante verità, nella sua intervista a Claudio Sabelli Fioretti ("La Stampa" di ieri). L'ha fatto quando ha raccontato che lui e Berlusconi discutono dei suoi processi dopo cena.
Solo voi due? domandava l'intervistatore. «Spesso ci sono anche Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Angelino Alfano».
E non gli sembra strano neanche un po' che il ministro della Giustizia discuta di strategie difensive, di sentenze e di decreti con l'avvocato dell'imputato (oltre che con l'imputato stesso).
Il quale magari, per discrezione, si toglie il cappello da premier e indossa quello di ministro dello Sviluppo economico, per chiacchierare di frequenze tv con il presidente di Mediaset. Magari nella sala Montesquieu.
Repubblica, 3 agosto 2010. sebastiano messina

Canoni, sconti fiscali ai redditi alti per quelli bassi dieci volte di meno

Già da tempo era stata abolita l'ICI sulla prima casa, a mio parere una cazzata pazzesca che aveva trovato sponda anche in una sinistra che quando cerca di inseguire lo stile berlusconiano non ne azzecca una. Col risultato che oggi i Comuni sono coll'acqua alla gola perchè mancano soldi per i servizi sociali ecc., mentre chi ha superappartamenti se la gode.
Ma siccome chi era in affitto non poteva "godere" di tanta "generosità", oggi arriva la diminuzione delle tasse per i proprietari di immobili dati in affitto.
Ovviamente con la solita filosofia: chi ha più soldi ci guadagna, chi di meno, si arrangi.
E poi...gli inquilini, ci guadagneranno davvero?
Rimane la domanda: ma visto che da questo versante arriveranno meno tasse, dove le andranno a prendere?
Ho seri dubbi che emerga il "nero".
Non sarebbe il caso di creare un movimento che proponga con forza la detraibilità dalla denuncia dei redditi di TUTTE le spese?
gg
----


CEDOLARE secca sugli affitti a due velocità.
Con l' aliquota unica al 25 per cento sconti fiscali super per i proprietari di case con redditi medio-alti e mini-risparmi per quelli con una situazione reddituale più contenuta.
Su canoni da mille euro mensili, i primi potranno risparmiare quasi 2 mila euro annui; i secondi dieci volte di meno. Questi, in estrema sintesi, gli effetti del decreto sul federalismo fiscale che verrà presentato oggi al Consiglio dei ministri, e che disciplina l' autonomia fiscale dei Comuni.
L' ipotesi iniziale di una aliquota unica al 20% è rimasta solo per i canoni agevolati nei Comuni ad alta intensità abitativa, che tuttavia sono una minoranza rispetto al numero di affitti liberi.
I risparmi maggiori, come si diceva, riguardano i proprietari che oggi pagano un' aliquota Irpef tra il 38 e il 43 per cento.
Ad esempio, un contribuente con un reddito di 60 mila euro che ha dato in affitto un appartamento con contratto libero a 1.000 euro mensili, oggi subisce su questo affitto una sforbiciata di 4.182 euro annui.
Con l' introduzione della cedolare secca del 25 per cento, la tassazione si abbasserebbe a 2.550 euro, con uno sconto di 1.632 euro annui, 510 euro in meno di quella ipotizzabile con l' aliquota unica al 20%.
Il risparmio supera i 1.800 euro annui per chi ha un reddito di 100 mila euro.
Ben diversa la situazione di un proprietario con un reddito annuo di 16 mila euro.
Sempre con un affitto mensile libero di 1.000 euro, mentre con l' aliquota unica al 20 per cento avrebbe risparmiato 714 euro, con l' introduzione della cedolare secca al 25% il guadagno si ridurrà ad appena 204 euro mensili.
Vediamo invece cosa succede in caso di canone agevolato, concordato in sede locale fra organizzazioni della proprietà e degli inquilini, e con durata inferiore (tre anni più due rispetto ai quattro più quattro dei contratti liberi).
Ipotizzando un affitto mensile di 750 euro, il proprietario con reddito annuo di 100 mila euro risparmierà con l' aliquota al 20% 1.231 euro mentre quello con un reddito annuo di 16 mila euro otterrà uno sconto di 375 euro.
Insomma, mentre con l' aliquota unica al 25 per cento sugli affitti liberi, si possono ipotizzare risparmi medi di imposta fra 200 e 1.800 euro annui, per i canoni agevolati (con aliquota al 20%) gli sconti vanno da 400 a 1.200.
Ma siccome il grosso degli affitti è a canone libero, i redditi bassi finiranno per essere fortemente svantaggiati rispetto a quelli più elevati. Anzi, per alcuni di essi invece di un risparmio ci potrebbe essere un aggravio.
Infatti, l' aliquota unica al 25% introdurrebbe solo un costo aggiuntivo per chi ha un reddito annuo (compreso quello di affitto) fino a 15 mila euro, con aliquota Irpef al 23 per cento. Si può ritenere che proprio per questa ragione, il decreto dà la possibilità al contribuente di scegliere tra il mantenimento del vecchio regime Irpef e la nuova aliquota. Quest' ultima, che entrerà in vigore a decorrere dal 2011, sostituirà oltre all' Irpef con le relative addizionali anche l' imposta di registro e di bollo sui contratti di affitto. ROSA SERRANO

Repubblica — 04 agosto 2010 pagina 25 sezione: ECONOMIA

mercoledì 4 agosto 2010

i paladini delle truffe agli anziani

Niente da dire: la Lega ha un grande fiuto per il marketing. Stamattina ho visto sui muri un manifesto: basta con le truffe agli anziani! firma per inasprire le pene! La lega difende il Nord!
A parte il fatto che le odiosissime truffe agli anziani vengono fatte in tutto il belpaese, vorrei fare notare la pericolosità di queste "raccolte di firme".
Che gli anziani siano un bel terreno di pascolo per scorribande elettorali, se ne sono accorti da tempo i partiti più populisti (Lega e FI in particolare, ma anche i cosiddetti "partiti dei pensionati" hanno costruito lì le loro fortune familiari).
Meno chiaro a tutti è invece il problema della raccolta firme.
Che senso ha raccogliere firme per "inasprire le pene ai truffatori" da parte di chi, come la Lega, è già al governo? Basterebbe proponessero ai loro compari di fare una leggina, che questa passerebbe in quattro e quattr'otto con il consenso magari anche delle opposizioni.
Peccato che inasprire le pene non basta, anzi. Servirebbero maggiori mezzi alle forze dell'ordine (che invece il governo taglia), campagne di prevenzione più efficaci, giustizia che funziona in tempi rapidi e non condoni (le pene possono anche essere severe, ma se la giustizia non ha i mezzi per comminarle le sanzioni sono pura aria fritta).
A che servono allora, queste "raccolte firme"? A nulla dal punto di vista del cittadino, che è preso in giro. A moltissimo per chi le raccoglie: ha una buona scusa per occupare il suolo pubblico con un gazebo di propaganda, e una buona occasione per costituirsi un succulento database di probabili elettori, ai quali mandare a casa alla prossima occasione i santini elettorali.
Il fulgido esempio è stato alle ultime elezioni: sui santini distribuiti in provincia di Brescia (io ne avevo visto uno in un bar di Castegnato) era scritto: "vota lega scrivi Bossi". Senza specificare, però, che si trattava non di Umberto, ma del figlio ripetente....
Morale: sarebbe ora di smetterla di firmare petizioni fantasma, e concentrarsi solo su quelle serie, referendarie, certificate da pubblici ufficiali.