giovedì 29 luglio 2010

La sofferenza degli animali - Odifreddi

La sofferenza degli ANIMALI

Nel 1997 lo scrittore John Coetzee fu invitato dall'Università di Princeton a tenere le prestigiose Tanner Lectures. Poteva parlare di ciò che voleva, purché l´argomento riguardasse «la comprensione del comportamento e dei valori umani». Sorprendendo tutti, decise di leggere due racconti su La vita degli animali (Adelphi, 2000). La protagonista dei racconti era una scrittrice australiana di nome Elizabeth Costello, che veniva invitata da un´università statunitense a parlare di ciò che voleva. Sorprendendo tutti, ella decise di discutere della vita degli animali.

Ciò che Coetzee fece concludere al suo doppio immaginario nelle Tanner Lectures, a proposito dell´uso degli animali come alimentazione e sperimentazione, fu: «Siamo circondati da un'impresa di degradazione, crudeltà e sterminio in grado di rivaleggiare con ciò di cui è stato capace il Terzo Reich. Anzi, in grado di farlo apparire poca cosa al confronto, poiché la nostra è un'impresa senza fine, capace di autogenerazione, pronta a mettere incessantemente al mondo conigli, topi, polli e bestiame con il solo obiettivo di ammazzarli».
La vita degli animali è un libro potente, che però persevera nel peccato originale di tutta la letteratura: narra storie inventate su esseri immaginari che popolano un mondo di fantasia. Dunque, non può produrre alcun effetto significativo e duraturo sulla vita di persone reali che vivono nel mondo reale. Non per nulla il bioetico Peter Singer, che nel libro fa il controcanto a Coetzee, dichiara esplicitamente: «Dite pure che sono antiquato, ma preferisco tenere verità e finzione ben separate».

La sua dichiarazione è particolarmente rilevante, perché Singer è l´autore del libro-manifesto Liberazione animale, uscito per la prima volta nel 1975, e appena ripubblicato in una nuova edizione aggiornata dal Saggiatore. Un documento-verità, appunto, che lungi dal limitarsi agli effetti soporiferi delle storie-finzioni, ha risvegliato nel mondo intero una concreta sensibilità nei confronti delle sofferenze e dei diritti degli animali.
Da filosofo, Singer inizia analizzando le due tradizioni occidentali nei confronti degli animali.
Quella maggioritaria, di sfruttamento e dominio in nome della supposta superiorità umana, che a partire dalla Genesi passa attraverso Aristotele e Tommaso d´Aquino, per arrivare fino a Cartesio e Kant.
E quella minoritaria, di rispetto ed empatia in nome della comune appartenenza all´albero della vita, che risale a Pitagora e continua con Hume e Voltaire, per arrivare a Bentham e Darwin.

I capitoli fondamentali del libro sono però quelli che buttano in facciaalle anime semplici, che credono che amare gli animali significhi coccolare cani e gatti, o inorridire per le corride e i massacri delle foche, i dati e i fatti relativi all´uso delle bestie nella sperimentazione e nell´alimentazione. In particolare, Singer racconta in dettaglio le vite, le sofferenze e le morti da lager che ogni anno sono costretti a subire i miliardi di animali (dieci nei soli Stati Uniti, una volta e mezza la popolazione mondiale!) la cui carne e i cui prodotti finiscono sulla nostra tavola e nelle nostre pance: polli, vitelli, maiali, conigli, tacchini, uccelli e pesci da un lato, e galline da uova e mucche da latte dall´altro. Tutti esseri che, anche se non parlano e non pregano, comunque sentono e soffrono, e lo dimostrano in maniera straziante a chiunque si prenda la briga di andare a visitare i luoghi indecenti in cui vengono stipati e allevati industrialmente.

Singer dedica quasi tutta la sua attenzione al problema etico sollevato dall´uso degli animali, soprattutto come alimentazione, e tocca solo di sfuggita due aspetti che sono altrettanto importanti. E forse anche più convincenti, per lo meno in un mondo che è insensibile all´etica e alla moralità persino nei riguardi degli uomini: figuriamoci degli animali.

Il primo aspetto è economico: affinché noi possiamo mangiare gli animali, questi devono mangiare i vegetali. La maggioranza delle coltivazioni mondiali viene dunque dedicata alla produzione dei mangimi, con un duplice dispendio. Di efficienza, perché l´energia del Sole immagazzinata dalle piante viene utilizzata solo indirettamente, attraverso la carne che l´ha già utilizzata, invece che direttamente, attraverso i vegetali. E di costo, perché gli animali che mangiano i vegetali sono ovviamente più cari dei vegetali stessi. Detto con uno slogan: «La carne vale meno dei vegetali, ma costa di più».

Il secondo aspetto è biologico: il nostro intestino è lungo, come quello degli erbivori, e non corto, come quello dei carnivori. Il che significa, anzitutto, che non è la natura a imporci di mangiar carne, bensì la cultura (se vogliamo chiamarla così). Ma significa anche, e soprattutto, che il nostro intestino non è adatto alla digestione della carne, che infatti vi sosta molto più a lungo, e vi si decompone molto più a fondo, dei vegetali. Il risultato è un'alta incidenza del cancro al colon nelle società che mangiano molta carne, come le occidentali, e una bassa o nulla incidenza in quelle che ne mangiano poca o niente, come le africane e le orientali. Per legge si dovrebbero dunque avvisare i consumatori, così come già si avvisano i fumatori, apponendo sui prodotti di macelleria l´avviso: «La carne uccide».

Senza il supporto delle testimonianze raccolte nell'esplosivo libro di Singer, i potenti racconti di Coetzee rimarrebbero vuota invenzione letteraria. Alla luce di quelle, acquistano invece un valore di requisitoria processuale. Lasciamo dunque a lui l´ultima parola: quella che disse il 22 febbraio 2007, quando fu invitato al congresso Sento, dunque sono organizzato da Voiceless ("Senza voce"), un istituto australiano per la protezione degli animali. Questa volta lo scrittore fece il contrario che alle Tanner Lectures di dieci anni prima: non ci andò, ma mandò un proprio testo, che fu letto in apertura da un suo doppio reale.

E la sua conclusione, sulla quale ci farà bene meditare, fu: «Quando abbiamo scoperto che i nazisti ebbero la brillante idea di adattare i metodi dell´allevamento industriale, inventati e perfezionati a Chicago, al macello (che essi preferirono chiamare lavorazione) degli esseri umani, abbiamo naturalmente gridato d'orrore: Che crimine terribile, trattare esseri umani come bestie! Ma avremmo fatto meglio a gridare: Che crimine terribile, trattare esseri umani come ingranaggi di un processo industriale! E quel grido avrebbe dovuto avere un poscritto: Che crimine terribile, a ben pensarci, trattare esseri viventi come ingranaggi di un processo industriale!».



Repubblica — 25 giugno 2010 pagina 58 sezione: CULTURA - PIERGIORGIO ODIFREDDI

mercoledì 28 luglio 2010

il solare costa meno del nucleare

Un articolo del New York Times su uno studio americano

Il solare costa meno del nucleare

Il sorpasso al prezzo di 0,16 dollari a chilowattora. L'energia atomica costerà sempre di più

Un articolo del New York Times su uno studio americano
Il solare costa meno del nucleare
Il sorpasso al prezzo di 0,16 dollari a chilowattora. L'energia atomica costerà sempre di più
I costi di energia solare e atomica (da Ncwarn.org)
I costi di energia solare e atomica (da Ncwarn.org)
NEW YORK
- Oggi negli Stati Uniti la produzione di energia solare costa meno di quella nucleare. Lo afferma un articolo pubblicato il 26 luglio sul New York Times, che riprende uno studio di John Blackburn, docente di economia della Duke University. Se si confrontano i prezzi attuali del fotovoltaico con quelli delle future centrali previste nel Nord Carolina, il vantaggio del solare è evidente, afferma Blackburn. «Il solare fotovoltaico ha raggiunto le altre alternative a basso costo rispetto al nucleare», spiega Blackburn, nel suo articolo Solar and Nuclear Costs - The Historic Crossover, pubblicato sul sito dell’ateneo. «Il sorpasso è avvenuto da quando il solare costa meno di 16 centesimi di dollaro a kilowattora» (12,3 centesimi di euro/kWh). Senza contare che il nucleare necessita di pesanti investimenti pubblici e il trasferimento del rischio finanziario sulle spalle dei consumatori di energia e dei cittadini che pagano le tasse.
COSTI FOTOVOLTAICO IN DISCESA - Secondo lo studio di Blackburn negli ultimi otto anni il costo del fotovoltaico è sempre diminuito, mentre quello di un singolo reattore nucleare è passato da 3 miliardi di dollari nel 2002 a dieci nel 2010. In un precedente studio Blackburn aveva dimostrato che se solare e eolico lavorano in tandem possono tranquillamente far fronte alle esigenze energetiche di uno Stato come il Nord Carolina senza le interruzioni di erogazione dovute all’instabilità di queste fonti.
COSTI NUCLEARE IN CRESCITA - I costi dell'energia fotovoltaica, alle luce degli attuali investimenti e dei progressi della tecnologia, si ridurrà ulteriormente nei prossimi dieci anni. Mentre, al contrario, i nuovi problemi e l'aumento dei costi dei progetti hanno già portato alla cancellazione o al ritardo nei tempi di consegna del 90% delle centrali nucleari pianificate negli Stati Uniti, spiega Mark Cooper, analista economico dell'Istituto di energia e ambiente della facoltà di legge dell'Università del Vermont. I costi di produzione di una centrale nucleare sono regolarmente aumentati negli ultimi anni e le stime sono costantemente in crescita.
Redazione online
27 luglio 2010

La vera storia del caso Marchionne

La vera storia del caso Marchionne
Fa piacere a tutti quelli che fanno il mio mestiere poter dire ogni tanto: "l'avevo scritto prima di tutti" anche se molte volte ci sbagliamo nelle previsioni e nei giudizi. E allora: quando Marchionne annunciò che la Fiat aveva conquistato il controllo della Chrysler, gran parte della stampa magnificò quell'operazione come un'offensiva in grande stile della società torinese per proporsi come uno dei quattro o cinque gruppi automobilistici mondiali che sarebbero sopravvissuti nell'economia globale. Io scrissi invece che l'operazione di Marchionne era puramente difensiva. La Fiat stava affondando; aggrappata alla Chrysler sarebbe sopravvissuta, sia pure con connotati industriali e territoriali completamente diversi.

Ma perché proprio la Chrysler e non invece la Peugeot e magari la General Motors che sembrava anch'essa sull'orlo del disastro? La Peugeot non si poneva il problema di sopravvivenza planetaria e non stava affatto affondando; quanto alla GM, aveva un programma di rilancio che infatti è andato a buon fine con l'aiuto dei fondi messi a sua disposizione dal governo Usa. Chrysler era completamente decotta e il governo americano non l'avrebbe rifinanziata, l'avrebbe lasciata fallire. L'arrivo della Fiat e del piano industriale di Marchionne la salvò, Obama decise il rifinanziamento e in questo modo tenne a galla Chrysler e indirettamente la stessa Fiat. Il capolavoro di Marchionne è stato questo. Ma poi arrivarono allo stesso pettine altri nodi.
Massimo Giannini, trattando ieri questo stesso tema, ha scritto che la questione di Pomigliano è stata una "provocazione" di Marchionne per saggiare la risposta dei sindacati. L'errore dei sindacati (Cisl e Uil) - ha scritto - è stato di pensare che la provocazione riguardasse soltanto Pomigliano; invece no, riguardava l'assetto di tutto il gruppo Fiat a cominciare dal Lingotto. In effetti è così. È vero che nell'accordo firmato con Cisl e Uil la Fiat ha preso l'impegno che le nuove regole non saranno applicabili in nessuno degli altri suoi stabilimenti in Italia; Marchionne infatti non ne applicherà ma semplicemente trasferirà in Serbia l'attuale lavoro previsto per Mirafiori.
Ma perché in Serbia? La differenza di costo salariale tra la Serbia e Torino è molto forte ma la componente salariale non pesa più dell'8 per cento sul prodotto finale. La ragione del trasferimento dunque non è questa; la ragione sta nel fatto che lo stabilimento Fiat in Serbia sarà pagato per tre quarti dall'Unione europea e per il resto da incentivi fiscali del governo di Belgrado. Quello stabilimento non costa nulla alla Fiat; per di più la sua gestione è vantaggiosa e genera utili. Perché Marchionne dovrebbe rinunciarvi?
Quanto al governo italiano, non ha assolutamente nulla da dare alla Fiat. L'azionista della società torinese non ha soldi per nuovi investimenti automobilistici; tanto meno ne ha il governo Berlusconi-Tremonti. Quindi liberi tutti, checché ne pensino Chiamparino e la Regione Piemonte a guida leghista. Bossi vuole il federalismo, della Fiat non gliene frega niente. Il ... tavolo aperto dal ministro Sacconi per mercoledì prossimo si limiterà ad auspicare qualche dettaglio; sotto l'auspicio niente.
Tutto questo era prevedibile ed infatti era stato previsto. Come era stata prevista la mossa fondamentale di scorporare l'automobile dalla Fiat e quindi dal gruppo Agnelli. In gergo borsistico quest'operazione è stata chiamata "spin off", un termine che richiama in qualche modo lo "spinnaker", la vela di prua che viene alzata quando il vento soffia da poppa. Se quel vento è forte la barca vola sulle onde. Infatti la Borsa ha accolto con molto favore lo scorporo. Il significato strategico è chiaro a tutti: gli azionisti del gruppo e "in primis" la famiglia Agnelli, vogliono disfarsi dell'automobile. Lo "spin off" serve appunto a questo: predisporre la vendita dell'automobile ex Fiat a chi vorrà comprarlo. Nel frattempo preparare la fusione con la Chrysler. La Fiat resta a Torino, ma senza più l'auto. Questa è la prospettiva del futuro prossimo.
Fin qui abbiamo considerato la questione Fiat misurandola su tre dimensioni successive: Pomigliano, Lingotto, scorporo dell'auto. Ma c'è una quarta dimensione ancora più importante e ancora più globale. Ne scrissi due mesi fa e non l'ho chiamata "provocazione" ma "apripista". Il caso Pomigliano cioè, e ciò che ne sta seguendo, funziona da caso "apripista" per un'infinità di operazioni analoghe che possono coinvolgere l'intero apparato industriale italiano, soprattutto quello delle imprese medio-piccole e piccole, quelle che occupano tra i 300 e i 20 dipendenti e che rappresentano il vero ed unico tessuto industriale italiano soprattutto nel nord della Lombardia, nel Triveneto, nell'Emilia-Romagna, nelle Marche, in Puglia, in Campania, nel Lazio.
Queste imprese esportano nell'euro e fuori dall'euro. Avevano registrato una grave crisi nel 2007-2008, poi si sono riprese, aiutate dalla svalutazione dell'euro, dal lavoro nero e precario e dal lassismo fiscale. Non sappiamo quanto reggeranno all'"austerity" di Tremonti e alla ripresa dell'euro nei confronti del dollaro. Il rischio è che adottino anch'esse la delocalizzazione di cui Pomigliano ha funzionato come apripista. Nelle imprese medio-piccole e piccole il sindacato è molto più debole che nelle grandi e grandissime. Quindi il problema non è di disciplinare il sindacato, ma di disciplinare direttamente i dipendenti. La minaccia della delocalizzazione servirà a questo e sarà estremamente difficile resistervi. Andiamo dunque verso un rapido azzeramento delle conquiste sindacali e dell'economia sociale di mercato degli anni Sessanta fino all'inizio di questo secolo?
Io temo di sì. Temo che la direzione di marcia sia proprio quella ed ho cercato di definirla parlando della legge chimico-fisica dei vasi comunicanti. In ogni sistema globalmente comunicante il liquido tende a disporsi in tutti i punti del sistema allo stesso livello, obbedendo all'azione della pressione atmosferica. In un'economia globale questo meccanismo funziona per tutte le grandezze economiche e sociali: il tasso di interesse, il tasso di efficienza degli investimenti, il prezzo delle merci, le condizioni di lavoro.
Tutte queste grandezze tendono allo stesso livello, il che significa che i paesi opulenti dovranno perdere una parte della loro opulenza mentre i paesi emergenti tenderanno a migliorare il proprio standard di benessere. La prima tendenza sarà più rapida della seconda. Al termine del processo il livello di benessere risulterà il medesimo in tutte le parti, fatte salve le imperfezioni concrete rispetto al modello teorico. La Fiat ha fatto da apripista. Marchionne disse all'inizio di questa vicenda che lui ragionava e operava nell'epoca "dopo Cristo" e non in quella "ante Cristo". Purtroppo il "dopo Cristo" è appena cominciato.
C'è un modo per compensare la perdita di benessere che il "dopo Cristo" comporta per i ceti deboli che abitano paesi opulenti? Certo che sì, un modo c'è ed è il seguente: far funzionare il sistema dei vasi comunicanti non solo tra paese e paese, ma anche all'interno dei singoli paesi. L'Italia è certamente un paese ricco. Anzi fa parte dei paesi opulenti del mondo, che sono in prevalenza in America del nord e nella vecchia Europa. Ma l'Italia è anche un paese dove esistono sacche di povertà evidenti (e non soltanto nel Sud) e dislivelli intollerabili nella scala dei redditi e dei patrimoni individuali.
Tra l'Italia dei ceti benestanti e quella dei ceti poveri e miserabili il sistema dei vasi comunicanti è bloccato, non funziona. Il benessere prodotto non viene redistribuito, rifluisce su se stesso e alimenta il circuito perverso e regressivo dell'arricchimento dei più ricchi e dell'impoverimento dei poveri. Una politica che volesse perseguire il bene comune dovrebbe dunque smantellare il circuito perverso e far funzionare il circuito virtuoso. Attraverso una riforma fiscale che sbloccasse il meccanismo e redistribuisse il benessere. E poiché la mente e lo stomaco dei ceti poveri e medi reclamano un meccanismo meno iniquo dell'attuale, la riforma del fisco può e deve essere anticipata da misure specifiche di pronta attuazione, stabilite dalla concertazione tra governo e parti sociali che funzionò egregiamente tra il 1993 e il 2006, finché fu abolita con un tratto di penna all'inizio di questa legislatura.
Le opposizioni dovrebbero a mio avviso concentrarsi su questo programma. Bersani ne ha parlato recentemente, ma le opposizioni dovrebbero convergere su un programma concreto con questo orientamento per uscire da una situazione caratterizzata da vergognosi privilegi e diseguaglianze. Si parla molto di riforme. Questa delle ingiustizie sociali da combattere è la madre delle riforme. Perciò mi domando: che cosa aspettate? Che la casa vi crolli addosso?
Fonte: Eugenio Scalfari - Repubblica
Lunedì 26 luglio 2010

La guerra in Afghanistan è diventata la più costosa mai combattuta dagli Usa

Amarissimo articolo di Vittorio Zucconi sulla guerra in Afghanistan.
Mi rimane una curiosità: come sono "considerate" le vittime americane dallo Stato? In Italia se un militare in Iraq o Afghanistan muore, anche per un incidente stradale o una mina, onori militari, messe solenni, capo dello Stato, pensione per la vedova e magari un lavoro sicuro in futuro per i figli.
Ho la vaga impressione che negli USA gli diano una cartolina, una bandiera, un abbraccio di qualche generalucolo e tuitto finisca lì..
greg
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La guerra in Afghanistan è diventata la più costosa mai combattuta dagli Usa

Fonte: VITTORIO ZUCCONI - la Repubblica 26 Luglio 2010

Ogni caduto "vale" 200 milioni di dollari.    Per mandare al fronte due milioni di uomini e donne la nazione ha speso 1.021 mld di dollari. Nel prezzario non è calcolato il costo per reinserire i reduci con stress psicologici e i feriti  
Ogni cassa di zinco riportata a casa avvolta nella bandiera, ogni cadavere deposto nella terra di un cimitero smossa tra lacrime e salve di fucile sono costati finora all´America 200 milioni di dollari per caduto. Un lugubre record.

Quando il tassametro delle guerre senza fine, senza prospettive e, nel caso dell´invasione dell´Iraq, senza onore, volute da Bush e continuate da Obama ha superato i mille milliardi di dollari all´inizio di luglio, le operazioni "Iraqi Freedom" ed "Enduring Freedom" come furono retoricamente denominate sono divenute le spedizioni militari più costose pro capite nella lunga storia delle guerre americane.
Non le più care in assoluto, perché il record di spesa appartiene ancora ai quattro anni della Seconda Guerra Mondiale quando il tesoro nazionale dovette sborsare più di 4 mila miliardi di dollari, in valore attuale, per sconfiggere Germania, Italia e Giappone e liberare il mondo dall´infestazione nazista e fascista. Ma il risultato dello studio condotto dal servizio ricerche del Parlamento, una commissione apolitica e apartitica, non mente. Per mandare al fronte i due milioni di uomini e donne che si sono avvicendati fra Iraq e Afghanistan negli ormai quasi dieci anni di combattimento, e per vederne tornare 5 mila e 400 nelle casse di zinco, la nazione ha speso mille e 21 miliardi di dollari. Nella Seconda Guerra, i soldati furono ben 16 milioni, con 480 mila caduti. Ogni caduto costò, oltre al sangue e alle lacrime, 9 milioni di dollari, nell´orribile rapporto "costo caduti" che ogni guerra impone.
Una delle tragedie dentro la tragedia morale e strategica di queste guerre su due fronti, e una delle ragioni per le quali sono ormai svanite dai radar delle ansie e dell´attenzione nazionale, è che Iraq e Afghanistan sono operazioni spaventosamente costose individualmente, ma ancora molto a buon mercato per l´economia americana. Come fu osservato già nei primi mesi del conflitto, tra l´invasione dell´Afghanistan nel novembre del 2001 e i bombardamenti "shock and awe" su Bagdad per paralizzare e terrorizzare il regime di Saddam nel marzo del 2002, l´incidenza di queste azioni sulla vita quotidiana dei cittadini americani, sulle loro tasche o sui conti pubblici è marginale se non impercettibile. 

Per permettere all´ultima «Grande Generazione» di liberare il mondo da Hitler, Mussolini e dal militarismo giapponese, l´America dovette impegnare più di un terzo, il 36%, del bilancio federale. Per mandare due milioni di soldati in Asia dopo l´11 settembre, quel "trilione", quei mille miliardi di dollari spesi finora sono appena l´1,6% del budget.
Non si vedono dunque attori e campioni dello sport, grandi registi come Frank Capra o eroi immaginari come Topolino, battere gli Stati Uniti mobilitando gli spiriti patriottici dei cittadini perché sottoscrivano i "War Bonds", il prestito di guerra. Nella fornace del debito nazionale e del disavanzo di bilancio, quei mille miliardi di dollari sono noccioline, come quei 5 mila e più caduti in dieci anni non sono neppure un´anomalia statistica nelle tabelle del censimento, rispetto ai 616 mila morti all´anno per malattie cardiovascolari o alle 115 vittime di incidenti stradali, ogni giorno. Per la prima volta nella storia americana, e forse di tutte le grandi nazioni, non sono neppure state aumentate le tasse sul reddito o quelle indirette sui consumi per finanziare un conflitto, che sembra combattuto con i soldi degli altri e con i figli degli altri. Nessuno che non abbia famigliari al fronte, ha dovuto sacrificare un centesimo del proprio reddito, o un minuto della propria giornata, per combatterle, perché così volle Bush quando annunciò che «l´Iraq si sarebbe pagato da solo con il petrolio», e come Obama non può permettersi di cambiare.
Mille miliardi e quasi dieci anni più tardi, morire per Kandahar o per Bagdad non fa notizia ormai da anni. L´opposizione di destra, che accusa Obama di avere sfasciato il bilancio nazionale con la riforma della sanità o i sussidi ai disoccupati, osa rimproverargli il prezzo di quei morti e di quelle guerre senza fine. Neppure l´enormità del costo sociale, le cure mediche - quando ci sono - la riabilitazione, il difficilissimo reinserimento dei feriti, dei mutilati, dei reduci con le loro profonde lesioni psicologiche, costo che nel prezzario delle guerre per «esportare la democrazia» non è calcolato, spaventa e turba ormai un pubblico che ha fatto il callo alle notizie e ai lutti dai fronti orientali, riservate ai volontari in uniforme, senza incubi di cartoline precetto per gli altri. Un trilione e 21 milioni (ma la cifra aumenta ogni secondo, come registra il sito angoscioso www.costofwar.com dove si vede il prezzo salire di mille dollari al secondo) sono meno di quando la nazione abbia speso, dal 2001 a oggi in fast food, in cheeseburger, frappé e patatine fritte, mille e duecento miliardi di dollari.
Dunque la guerra che non esiste, che costa meno di uno «happy meal», di un pasto per bambini da McDonald´s con omaggio di pupazzetti di plastica, non sarà fermata dal costo finanziario e neppure da quello umano. Gli Stati Uniti si possono permettere altri venti, o trent´anni di operazioni militari in Iraq o in Afghanistan, ignorare altre migliaia di bare, meno costose di patatine e frappé.

Decrescita FIAT

traggo questo articolo, che condivido pienamente,  dal  blog Ambiente & Veleni  di Franco Bassi http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/26/decrescita-fiat/44089/

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Decrescita FIAT
Io credo di essere un seguace della “decrescita”. Uso la forma dubitativa unicamente perché so che mettere insieme due parole come seguace e come decrescita è molto impegnativo. Secondo me un seguace vero dovrebbe applicare la teoria in cui crede alla lettera e io certamente non sono uno di questi. E’ un po’ come quando uno afferma di essere un comunista. Io ci vado sempre molto piano a dirlo perché ho conosciuto alcuni che si dicevano comunisti, e secondo me lo erano veramente, per i quali ho un tale rispetto che quando mi accusano dicendomi, quasi per insultarmi, “sei un comunista” io rispondo sempre: “Magari!”

Io con la teoria della decrescita ho un po’ questi dilemmi qui, nel senso che cerco di applicarmi e soprattutto cerco di diffondere nelle cose pubbliche che facciamo nel circolo, le idee e i comportamenti legati a questo movimento di pensiero, pur sapendo di non essere perfetti. Ma da quando ho letto “La decrescita felice” di Maurizio Pallante, e ho ragionato sulle cose che ci accadono intorno, non ho potuto fare a meno di ritenere prioritario in ogni ragionamento politico che affrontavo, confrontare le possibili soluzioni ai problemi con i concetti legati alla teoria della decrescita.

Peggio ancora è stato quando, approfondendo la cosa, mi sono imbattuto in Serge Latouche, che è uno che, per intenderci, dice cose così: “Dopo anni di frenetico spreco, siamo entrati in una zona di turbolenza, in senso proprio e figurato. L’accelerazione delle catastrofi naturali – siccità, inondazioni, cicloni – è già in atto. Ai cambiamenti climatici si accompagnano le guerre del petrolio (alle quali seguiranno quelle dell’acqua) ma anche possibili pandemie, e si prevedono addirittura catastrofi biogenetiche. Ormai è noto a tutti che stiamo andando dritti contro un muro. Restano da calcolare solo la velocità con cui ci stiamo arrivando e il momento dello schianto.”

E ancora (sempre dalle prime due pagine del suo libro “La scommessa della decrescita”, per cui vi lascio immaginare le altre 180): “Proseguire con questa dinamica di crescita ci metterà di fronte alla prospettiva di una scomparsa della civiltà così come la conosciamo, non tra milioni di anni o qualche millennio, ma entro la fine di questo secolo. E’ noto che la causa di tutto ciò è il nostro stile di vita fondato su una crescita economica illimitata. E, malgrado tutto ciò, il termine “decrescita” suona come una sfida o una provocazione. Nel nostro immaginario la forza della religione della crescita e dell’economia è tale che parlare di decrescita necessaria risulta letteralmente blasfemo e chi si arrischia a farlo è quantomeno considerato iconoclasta”.

Io avrei scritto stronzo, al posto di iconoclasta, così si capiva meglio, ma il senso è quello.

E io non avrei osato parlare di decrescita, neppure tra queste pagine, se non fossi stato incoraggiato da un ragazzo che, intervistato da qualcuno del TG3, a Torino, in un inchiesta che mirava a far conoscere il pensiero dei cittadini piemontesi in merito al trasferimento di parte della produzione FIAT in Serbia, ha risposto dicendo più o meno che “se la cosa servisse per produrre meno auto io non potrei che esserne felice”.

Ecco, sul caso FIAT a me vien da pensarla come quel ragazzo qui. Sì, lo so, io sono sempre stato dalla parte degli operai; non mi piace l’accordo fatto su Pomigliano e reputo tutti coloro che non si sono opposti adeguatamente a quelle negazioni di diritti, soprattutto tra i sindacati e i partiti della sinistra, delle stratosferiche teste di cazzo, e naturalmente mi dispiace che qualcuno perda il posto di lavoro, però, se oggi vedessi fallire la FIAT, così com’è oggi, dopo che ha ricevuto una infinità di fondi senza che gli sia stato imposto un benché minimo vincolo sulla ricerca di nuove tecnologie ecc. ecc, e senza che l’azienda, di testa sua, l’abbia fatto, be, allora credo che penserei che questa dirigenza ha avuto quello che si merita.

No, perché qui o la smettiamo di fabbricare auto come quelle che stanno fabbricando e cominciamo a pensare a diversi modi di spostarci, di progettare le città, di consumare, di Vivere, o non possiamo poi certo meravigliarci se ogni tanto un pozzo di petrolio in mare distrugge l’intero ecosistema di un golfo, se in Cina accade altrettanto e se presto nel nostro mare, dove la BP sta perforando grazie alla gentile concessione dell’amico Gheddafi, accadrà lo stesso.

E questo, naturalmente, non è altro che l’esempio più recente che possa ricordarvi. Per tutti gli altri leggete le cronache quotidiane, fate i conti dei miliardi di danni subiti ogni volta che viene uno squasso d’acqua oppure date un occhio alla miriade di climatizzatori piazzati fuori dalle finestre, oppure…potrei proseguire ore a fare degli esempi e a voi faccio senza farli.

Pensando quindi alla “decrescita” alla “Fiat” e alla crisi di rappresentanza che il mio, come gli altri partiti della sinistra, palesemente hanno, mi chiedo: perché non cominciamo a rappresentare per tutti un idea diversa di futuro?

Se questa cosa qui non cominciano a dirla i sindacati, il mio partito, gli altri partiti della sinistra, gli intellettuali e tutto il resto della fila, chi la deve dire?

Di cosa abbiamo paura? Questi teorici qui della decrescita, ai quali credo, ci danno si è no sessant’anni di buono prima di sprofondare definitivamente nella merda.

Eppoi noi, peggio di così come possiamo andare?

Io parlo del mio di partito perché lo conosco meglio. Che paura ha il mio partito di queste cose? A parte che è lontano anni luce da queste teorie che io quasi non mi azzardo neanche a parlarne in riunione, ma santo dio, dico io, ormai non rappresentiamo più nessuno. Una volta eravamo almeno il partito degli operai, adesso, l’altro giorno in una riunione ho sentito uno che diceva: ”Dobbiamo rappresentare il popolo delle partite IVA”, avevo una voglia si saltar su e dire “mo va a cagher Angelo, te e le partite IVA” invece mi sono trattenuto.

Allora io, quando da grande farò il segretario del PD, dirò che il mio partito vuole rappresentare la speranza di futuro possibile per i nostri figli.

Rappresenteremo loro e rappresenteremo la terra che ci ospita.

E’ lei che ci dà da lavorare, mica Marchionne.

martedì 27 luglio 2010

lo sciaquone genera corrente elettrica

Io farei la cosa in modo molto più semplice: visto che l'acqua arriva in casa già a pressione, si mette una piccola turbina in entrata e ogni volta che si preleva l'acqua questa gira e fa corrente...troppo semplice? Si evita di usare le acque sporche, ingombro minimo.

Greg

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 l'IDEA DI UNO STUDENTE INGLESE

Lo sciacquone genera energia elettrica

Il sistema HyDro-Power usa anche l'acqua della doccia e del lavandino. Nei condomini promette grandi risparmi

l'IDEA DI UNO STUDENTE INGLESE
Lo sciacquone genera energia elettrica
Il sistema HyDro-Power usa anche l'acqua della doccia e del lavandino. Nei condomini promette grandi risparmi

Il sistema HyDro-Power
Il sistema HyDro-Power
MILANO - Come trasformare acque che andrebbero perse negli scarichi e nelle fogne in energia elettrica gratuita, per illuminare casa e accendere gli elettrodomestici? Uno studente inglese di design industriale ha inventato un sistema che trasforma le acque reflue di casa (che scendono da doccia, lavandini, e dallo sciacquone del wc) in watt. Non un affare da poco, visto che metà del mondo utilizza la toilette e in media lascia scivolare nelle tubature, dopo aver tirato la catena, 7 mila litri di acqua all’anno. HyDro-Power, questo il nome del progetto, è un generatore di corrente dedicato ai condomini. Collegato alle tubature degli scarichi, si occupa di trasformare e creare potenza. Promettendo costi e soprattutto risparmi interessanti.
IL SISTEMA - L’apparecchio funziona così: l’acqua che scende dalle tubature del palazzo viene raccolta e incanalata nella macchina, che con quattro turbine permette subito di azionare un generatore elettrico e ridistribuire l’energia creata o nel palazzo stesso, magari per azionare l’ascensore, o le luci delle scale, o gli impianti di condizionamento condominiali, oppure può essere rivenduta all’operatore elettrico nazionale, come avviene sempre più con gli impianti fotovoltaici. È stato calcolato che, se applicato a un palazzo di sette piani, potrebbe portare a un risparmio medio annuo di circa 1.500 dollari (circa 1.160 euro).
CONCEPT - Per ora Hydro-Power è solo un concept in attesa di trovare un’azienda che voglia produrlo in larga scala. L’idea è di uno studente inglese, Tom Broadbent, iscritto al corso di design industriale dell’università De Montfort nel Leicester, che ha candidamente dichiarato come l’idea gli sia venuta mentre, in hotel, osservava come l’acqua scorreva velocemente nel gabinetto dopo aver tirato la catena.


Eva Perasso
www.corriere.it 26 luglio 2010

lunedì 26 luglio 2010

anche la lega tiene famiglia

Questi sì che ci tengono alla famiglia! Dopo il figlio trota, la moglie.
E mentre nelle scuole statali ci sono i genitori che ripitturano le stanze...questi qua si autoforaggiano.
Ricordo con piacere di avere imparato a leggere e scrivere il dialetto bresciano alle elementari, il mio maestro era appassionato del poeta bresciano ottocentesco Angelo Canossi (io poi ho scoperto un'altra poetessa bravissima contemporanea: Elena Alberti Nulli) e dei canti degli alpini (che devono essere ascoltati dal vivo, su disco rendono poco). Scuola pubblica, altri tempi molto meno cupi degli odierni......


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ANCHE LA LEGA TIENE FAMIGLIA

Trecentomila euro per il 2009 e 500mila euro per il 2010. Le ristrutturazioni costano,
e se c'è un aiuto statale è meglio. Quello stabilito nel decreto del ministro del Tesoro
lo scorso 9 giugno è stato particolarmente generoso con la Scuola Bosina di Varese.
Un nome che forse dice poco ai più, ma che nella Lega Nord dice molto. La Scuola
Bosina, o Libera Scuola dei Popoli Padani (una delle associazioni della galassia
Lega nord), è stata infatti fondata nel 1998 dalla signora Manuela Marrone, «maestra
di scuola elementare di lunga esperienza» (spiega il sito della scuola), ma soprattutto
moglie di Umberto Bossi. La signora Marrone è tuttora tra i soci della cooperativa che
dà vita a questa scuola materna, elementare e secondaria improntata alla cultura
locale, alle radici e al territorio. Presidente della scuola è Dario Galli, che oltre a
occuparsi di pedagogia padana è stato anche senatore della Lega. Proprio il Senato,
con la commissione Bilancio (di cui la Lega ha la vicepresidenza), ha formalizzato
l'elenco di enti beneficiari dei contributi stanziati nel «Fondo per la tutela
dell'ambiente e la promozione dello sviluppo del territorio» creato nel 2008. Un elenco
lunghissimo che comprende associazioni culturali, case di riposo, comuni,
fondazioni, diocesi, parrocchie, università e appunto qualche scuola. L'impegno
statale per l'istituto scolastico padano è complessivamente di 800mila euro per due
anni, 2009 e 2010, rubricato alla voce «ampliamento e ristrutturazione». Il
provvedimento della commissione bilancio ha anche un nome più popolare, «legge
mancia», perché in quel modo senatori e deputati assegnano contributi e fondi a enti
o amministrazioni che hanno particolarmente a cuore (per circa 200milioni di euro
tra Senato e Camera), ovviamente anche a fini elettorali. Non è questo il caso della
Lega e della Scuola Bosina, il cui finanziamento (certo, generoso) non serve alla Lega
per accontentare il proprio elettorato ma per sostenere un progetto in cui il Carroccio
crede molto. Basta leggere la mission dell'istituto sul sito della Lega Nord: «La Scuola
Bosina si propone come obiettivo quello di coniugare l'insegnamento previsto dagli
organismi competenti con le esigenze del tessuto sociale locale, di formare futuri
cittadini integrati nella realtà storica, culturale, economica e industriale che li circonda,
pronti a confrontarsi con altri modelli sociali». Il metodo educativo padano si incentra
sulla «progressiva scoperta del territorio» che avviene fin dalla scuola dell'infanzia,
presentando narrazioni popolari, leggende, fiabe e filastrocche strettamente legate
alle tradizioni locali e «numerose visite guidate sul territorio, che consentono al
bambino di riconoscere da diverse angolature la propria identità».
Identità formata anche con lo studio del dialetto locale (tra cui appunto la lingua bosina, cioè il
varesino), considerato fonte di cultura e tradizione da salvaguardare. «Abbiamo
voluto questa scuola perché era fondamentale insegnare "dal basso" l'attaccamento
alle tradizioni e all'identità del territorio» disse Bossi durante una parata di ministri e
autorità, da Maroni alla Moratti, in onore dell'istituto padano. La società cooperativa,
con sede legale a Varese, ha chiuso il bilancio 2008 con una perdita di 495.796 euro,
anche se le iscrizioni non vanno affatto male. Due anni fa, raccontò Panorama, gli
alunni erano cresciuti del 25% e per la prima volta la Scuola Bosina era stata
costretta a creare le liste di attesa per i suoi studenti.
Forse da lì l'esigenza di ampliarsi e ristrutturarsi, grazie agli 800mila euro gentilmente concessi dai senatori.
Paolo Bracalini e Gian Marco Chiocci per "Il Giornale" 12/07/10.

venerdì 23 luglio 2010

la valle e la luna in valtrompia


Che non fossi fatto per il lavoro in miniera lo sapevo già...ne ho avuto conferma ieri quando mi è venuta l'insana idea di fare quattro buchi con la punta del 10 nel soffitto di cemento armato del garage. Un'ora di trapanata a percussione, sudato come se fossi in sauna e con la polvere di cemento che mi pioveva sulla testa e mi si appiccicava alla pelle. Alla fine ero distrutto.
Eppure..questo è nulla, se si pensa che i minatori (di ieri e di oggi) sopportano questo per 8/10 ore, per di più sottoterra e con altre quantità di rumore.
Chi volesse avere una pallida idea di come si lavorava fino a poco tempo fa in Valtrompia, può fare un divertente tour nelle miniere della valle,
http://cultura.valletrompia.it/portal/page/portal/valtrompia/musei/mappaDeiMusei.

Segnalo comunque una iniziativa carina per domani sabato 24 luglio.

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La Valle e la Luna

percorso notturno tra i Comuni di Sarezzo e Villa Carcina



SABATO 24 LUGLIO

Spettacoli comici e musicali, arte di strada, mostre, aperitivi e cene di piazza, un autobus per un itinerario gastronomico teatrale...

Museo "I Magli" e Piazza Battisti (Sarezzo) - Villa Glisenti (Villa Carcina)

dalle ore 19.00 circa







Sarezzo



Museo I Magli – via Valgobbia, 19

Aspettando la luna…

§ ore 19.30 Aperitivo offerto da “Gastronomia Antico Ponte”

§ ore 19.45 “Sei un tipo da chinotto” – lettura “Drink&Sound” con il TrEATRO

§ ore 20.10 “Giochi, attività e magie delle scienze” –Sistema Museale di Valle Trompia

attività ludiche per bambini

§ ore 21.10 “Il Cavalier di Frescobello”– TrEATRO

Associazione Culturale - video-lettura per bimbi e famiglie



Anche in caso di pioggia



Piazza Cesare Battisti



§ ore 20.30 Bancarella equo solidale a cura della cooperativa Karibu

§ ore 20.30 Degustazione formaggi e marmellate con “Consorzio Alta Valle Trompia”

§ ore 20.30 Carrellata musicale – Serse Mazzali – canzoni e musica dagli anni ’40-‘80

§ ore 20.30 Cena di piazza con “Osteria Vecchia Bottega” (prenotazione tel. 030 8900191)

§ ore 21.30 Giochi di fuochi – ARCI – catene, torce e sputafuoco

§ ore 21.45 “Cabacirkus” - Ivan Giussani– teatro di strada

§ ore 22.30 “Nord-Sud” - Compagnia Bengala – teatro comico

§ ore 23.30 “Hop hop” - Simone Romanò - arti circensi

§ ore 24.00 “Attraversando sentieri”– Malghesetti e TrEATRO - spettacolo musicale



In caso di pioggia dalle 21.30 alcune delle iniziative saranno spostate presso il Teatro S. Faustino di Sarezzo (via IV Novembre)





Villa Carcina



Villa Glisenti

§ ore 19.00 Inaugurazione della mostra “Terra di fate”- a cura di Mauro Abati e Giovanna Pedroni

§ ore 19.30 Suggestioni dall’Africa – tè con un Tuareg e proiezioni (per tutta la serata)

§ ore 19.30 Apertura bar drinks con “Le3Tits” Circolo Arci U.n.o

§ ore 20.00 Cena a buffet con “Gastronomia Antico Ponte” (prenotazioni Tel. 030.832915)

§ ore 20.30 “Consigli d’uso” – un camper e parole in libertà (per tutta la serata)

§ ore 20.30 “Cabacirkus” - Ivan Giussani - teatro di strada

§ ore 21.15 “Patatrac” – Delikatessen Duo – spettacolo comico musicale

§ ore 22.00 “Hop hop” - Simone Romanò – arti circensi

§ ore 22.45 “Sosta al castagno” - TrEATRO Associazione Culturale– lettura e canti

§ ore 23.45 “Giochi di fuochi” – ARCI – catene, torce e sputafuoco

§ ore 24.00 “Isaia & L’orchestra di Radio Clochard”- folk, ska, musica reggae



In caso di pioggia dalle 20.30 alcune delle iniziative saranno spostate presso l’Auditorium della Scuola Media (via Roma, 9) – Villa Carcina





Itinerari di luna

Itinerario Gastronomico Teatrale

In autobus, con una "guida", per spostarsi tra i due luoghi dell’evento, gustando specialità e spettacoli. Costo 12,00 euro bevande escluse (per informazioni e prenotazioni Tel. 030 8901195 - cell. 338 5946090)



Partenza ore 19.00 da Villa Glisenti



ore 19.30 - 20.10 Museo l Magli - Sarezzo

Aperitivo con “Gastronomia Antico Ponte”



ore 20.30 - 22.00 Villa Glisenti – Villa Carcina

Primo piatto con “Gastronomia Antico Ponte”



ore 22.30 - 23.30 Piazza Cesare Battisti - Sarezzo

Secondo piatto con “Osteria Vecchia Bottega”



ore 23.45 Villa Glisenti – Villa Carcina

Dolce con “Le 3Tits”









Info: TrEATRO – Associazione Culturale

Tel. e Fax 030 8901195; cell. 338 5946090

kontakthof@treatro.it - www.treatro.it



Comunità Montana di Valle Trompia

Complesso Conventuale di Santa Maria degli Angeli - Tel. 030 8337490

e-mail: cultura@cm.valletrompia.it - http://cultura.valletrompia.it



La Valle e la luna 2010 ringrazia: Azienda di Valle

giovedì 22 luglio 2010

di ritorno dalle vacanze...

Dopo le vacanze in Bretagna (bellissime!) si ritorna in Italia e cadono le braccia e oltre...

Ma l'opposizione non ha ancora capito che Silvio & co si rivolgono a quella moltitudine di anziani, dall'udito scarso, dalla vista in calo, dalla memoria corta, che si informano solo dalla televisione o al massimo dalle riviste "popolari" tipo sorrisi e canzoni, chi ecc , in vendita a poco più di un euro e con articoli di beatificazione dell'unto? "Purtroppo" la democrazia è così, il voto della vecchietta rimbambita vale come quello di Umberto Eco, e questo Silvio & co lo sanno benissimo. Ci aggiungiamo la legge elettorale che permette di mettere in lista cani, porci e ragazze dalle dubbie virtù, e farli eleggere, la situazione è veramente tragica. Per sconfiggere chi ci sta portando alla rovina, servono sì idee chiare, ma soprattutto una vera presa di coscienza di come queste idee farle arrivare a chi è come su descritto, elettore semplice, anziano, con difficoltà nell'apprendere le informazioni. Basta con gli inciuci fintamente intelligenti di D'Alema e i borbottii di Bersani.

domenica 4 luglio 2010

Beniamino Placido Nautilus. La cultura come avventura

Faccio volentieri un pò di pubblicità a questo libro: è la raccolta di alcuni articoli scritti da beniamino Placido per la sua rubrica "Nautilus" su Repubblica.
Come già scritto in altro post, avevo (ed ho ancora) ammirazione sconfinata per Beniamino Placido e il suo modo di affrontare la cultura.

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Nautilus. La cultura come avventura
Autore
Placido Beniamino
Prezzo € 16,00
Dati 220 p., brossura
Anno 2010
Editore Laterza
Collana I Robinson. Letture
Genere SCIENZE SOCIALI





Straordinario critico televisivo, profondo conoscitore della cultura americana, intellettuale capace di avventurarsi nei più diversi campi, Beniamino Placido ha segnato profondamente il giornalismo culturale italiano degli ultimi trent'anni. Con la sua scrittura ironica e sorprendente, in grado di connettere tra loro ambiti della vita e del pensiero in apparenza lontanissimi tra loro, Placido si è inventato un nuovo genere letterario. Questa raccolta antologica di articoli comparsi su "la Repubblica", curata da Franco Marcoaldi che ne firma anche l'appassionata introduzione, intende restituire la fisionomia di un vero corsaro della cultura italiana del secondo Novecento. Un maestro con la emme minuscola (Placido non sopportava l'enfasi e dunque le maiuscole in generale), che amava parlare di tutto e su tutto: dal tennis alla Bibbia, dal fotoromanzo al Partito d'Azione, da Pippo Baudo a Melville. Perché ogni cosa è da considerarsi cultura e non si può distinguere tra cultura alta e bassa. L'importante è riuscire a trasmetterla. Se non si è in grado di soddisfare la fame di informazione culturale "evidentemente non facciamo abbastanza bene il nostro lavoro di mediatori, di divulgatori. Non siamo all'altezza del nostro compito che consiste, per riprendere Calvino, nel fare entrare il mare in un bicchiere". Gli articoli riprodotti in questa antologia sono oltre cinquanta e vanno dalla metà degli anni Settanta a oggi.SUL NAUTILUS CON BENIAMINO


Che criterio seguire, come scegliere tra le centinaia e centinaia di pezzi tutti immancabilmente spiritosi, brillanti, arguti, come mettere insieme una raccolta degli articoli di Beniamino Placido, comparsi nel corso di trent' anni sulle pagine di questo giornale? Se in ogni scelta antologica è insito l' elemento dell' arbitrarietà, in questo caso il grado di arbitrarietà si presentava elevatissimo. Tanto elevato da scoraggiare nell' impresa. Oppure, per converso, poteva trasformarsi nell' esercizio di una libertà non troppo distante da una licenza irresponsabile. E allora ho scelto, semplicemente, di andare "a orecchio". In modo che l' eco di ciascun testo rimbalzasse nel successivo, in un gioco di variazioni e riprese, fino a comporre un tessuto capace di restituire il "tempo" che ha sempre animato la scrittura di Beniamino: quell' allegro con brio che batte al ritmo di una grande libertà mentale. Ho dovuto sacrificare molto la sua rubrica televisiva (A parer mio ), che meriterebbe un libro a parte. Ho voluto semmai restituire la fisionomia di un vero irregolare della cultura italiana del secondo Novecento, che a bordo del suo fantastico Nautilus ha saputo rovistare nei fondali marini e riportare alla luce pensieri quanto mai utili e vitali, che senza il suo intervento si sarebbero dispersi. Mentre, al contempo, ha saputo lanciare con coraggio i suoi siluri contro le navi potenti e prepotenti del conformismo, dell' arroganza, dell' ignavia. Sempre con infinita grazia ed eleganza. - FRANCO MARCOALDI

sabato 3 luglio 2010

ambiente a san polo brescia

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E’ oggettivamente preoccupante il rapporto ASL relativo alle malattie sopra la media a San Polo.
Certo, il campione è limitato; non si sa quali potrebbero essere le cause di queste patologie (soprattutto respiratorie) , ma anche di tumori alla vescica e al fegato.
Risulta indispensabile fare una ricerca più approfondita su tutti gli abitanti di San Polo. Nel frattempo, però alcune considerazioni e proposte. E’ oggettivamente preoccupante il rapporto ASL relativo alle malattie sopra la media a San Polo.
Certo, il campione è limitato; non si sa quali potrebbero essere le cause di queste patologie (soprattutto respiratorie) , ma anche di tumori alla vescica e al fegato.
Risulta indispensabile fare una ricerca più approfondita su tutti gli abitanti di San Polo. Nel frattempo, però alcune considerazioni e proposte.
Prima di tutto, la situazione di tutta l’area sud di Brescia è critica: si tratta di una delle aree più inquinate della Lombardia. Dal casello di Brescia Ovest a quello di Brescia Est c’è una striscia grigia di smog che raccoglie 12 corsie di traffico , tra tangenziale e autostrada, a cui si aggiungono gli scarichi di importanti poli industriali i più significativi dei quali sono l’Alfa Acciai e l’inceneritore.
Chi abita nel quartiere di San Polo verifica quotidianamente quanto l’aria sia pesante e talvolta con odori vomitevoli. Sui davanzali si deposita una polvere nera, talvolta anche di altri colori, in quantità abnorme, la stessa che si deposita nei polmoni e sulle verdure coltivate per passione (e spesso per necessità) in particolare dai tantissimi pensionati della zona.
E se le persone in età lavorativa durante il giorno migrano verso luoghi di lavoro non si sa quanto più salubri, bambini ed anziani in quartiere vivono spesso 24 ore su 24.
Cosa si può fare, da subito, in attesa di ulteriori dati?
La prima cosa, gratis, è copiare dall’estero, dove in situazioni simili si è provveduto a limitare la velocità nelle grandi arterie a ridosso di aree fortemente inquinate.
Basterebbe limitare la velocità a 110 km/h per il tratto autostradale dal casello di Brescia Ovest a quello di Brescia Est, e ripristinare il limite di 90 km/h per il tratto di tangenziale parallelo.
Limitare la velocità riduce fortissimamente l’inquinamento derivante da autovetture, che si somma a quello prodotto da automezzi e mezzi pesanti che transitando da Paesi esteri hanno emissioni non controllate (altro che Euro 4!).
Non mi si venga a dire che ci sono insormontabili problemi politici, visto che Governo, Regione Lombardia, Provincia di Brescia, Comune di Brescia sono in mano alle stesse forze politiche!!!
Secondo: devono essere veramente controllate le emissioni dei poli industriali.
L’inceneritore A2A dovrebbe avere controlli costanti, ma gli altri? L’Arpa Lombardia dovrebbe controllare le emissioni dell’Alfa Acciai. Ogni quanto lo fa? Ci sono i mezzi per un controllo reale?
E’ possibile la convivenza di una realtà industriale di quella dimensione con un quartiere di 20.000 abitanti? La risposta potrebbe essere positiva, se ci fossero reali controlli sulle emissioni.
Ma se non ci fossero, allora il discorso diventerebbe diverso, perché ritorneremmo al vecchio, ma ancora attuale, problema del conflitto tra occupazione e ambiente.
Le industrie dei cosiddetti Paesi emergenti sono competitive soprattutto perché hanno scarsi diritti sindacali, paghe basse e scarsa tutela dell’ambiente. Dopo la vicenda di Pomigliano, che in nome della “competitività” comincia a intaccare diritti sindacali e busta paga, non vorrei che per una ipotetica difesa del posto di lavoro si sorvolasse anche sulla tutela della salute di tutto un quartiere di 20.000 abitanti. Se l’Alfa Acciai non ha la possibilità di essere realmente controllata, chiuda e traslochi!
Terzo: realizzare il parco delle cave. A ridosso delle 12 corsie tra tangenziale ed autostrada deve esserci un bosco che in qualche modo assorba le polveri del traffico.

Prima di tutto, la situazione di tutta l’area sud di Brescia è critica: si tratta di una delle aree più inquinate della Lombardia. Dal casello di Brescia Ovest a quello di Brescia Est c’è una striscia grigia di smog che raccoglie 12 corsie di traffico , tra tangenziale e autostrada, a cui si aggiungono gli scarichi di importanti poli industriali i più significativi dei quali sono l’Alfa Acciai e l’inceneritore.
Chi abita nel quartiere di San Polo verifica quotidianamente quanto l’aria sia pesante e talvolta con odori vomitevoli. Sui davanzali si deposita una polvere nera, talvolta anche di altri colori, in quantità abnorme, la stessa che si deposita nei polmoni e sulle verdure coltivate per passione (e spesso per necessità) in particolare dai tantissimi pensionati della zona.
E se le persone in età lavorativa durante il giorno migrano verso luoghi di lavoro non si sa quanto più salubri, bambini ed anziani in quartiere vivono spesso 24 ore su 24.
Cosa si può fare, da subito, in attesa di ulteriori dati?
La prima cosa, gratis, è copiare dall’estero, dove in situazioni simili si è provveduto a limitare la velocità nelle grandi arterie a ridosso di aree fortemente inquinate.
Basterebbe limitare la velocità a 110 km/h per il tratto autostradale dal casello di Brescia Ovest a quello di Brescia Est, e ripristinare il limite di 90 km/h per il tratto di tangenziale parallelo.
Limitare la velocità riduce fortissimamente l’inquinamento derivante da autovetture, che si somma a quello prodotto da automezzi e mezzi pesanti che transitando da Paesi esteri hanno emissioni non controllate (altro che Euro 4!).
Non mi si venga a dire che ci sono insormontabili problemi politici, visto che Governo, Regione Lombardia, Provincia di Brescia, Comune di Brescia sono in mano alle stesse forze politiche!!!
Secondo: devono essere veramente controllate le emissioni dei poli industriali.
L’inceneritore A2A dovrebbe avere controlli costanti, ma gli altri? L’Arpa Lombardia dovrebbe controllare le emissioni dell’Alfa Acciai. Ogni quanto lo fa? Ci sono i mezzi per un controllo reale?
E’ possibile la convivenza di una realtà industriale di quella dimensione con un quartiere di 20.000 abitanti? La risposta potrebbe essere positiva, se ci fossero reali controlli sulle emissioni.
Ma se non ci fossero, allora il discorso diventerebbe diverso, perché ritorneremmo al vecchio, ma ancora attuale, problema del conflitto tra occupazione e ambiente.
Le industrie dei cosiddetti Paesi emergenti sono competitive soprattutto perché hanno scarsi diritti sindacali, paghe basse e scarsa tutela dell’ambiente. Dopo la vicenda di Pomigliano, che in nome della “competitività” comincia a intaccare diritti sindacali e busta paga, non vorrei che per una ipotetica difesa del posto di lavoro si sorvolasse anche sulla tutela della salute di tutto un quartiere di 20.000 abitanti. Se l’Alfa Acciai non ha la possibilità di essere realmente controllata, chiuda e traslochi!
Terzo: realizzare il parco delle cave. A ridosso delle 12 corsie tra tangenziale ed autostrada deve esserci un bosco che in qualche modo assorba le polveri del traffico.