giovedì 31 dicembre 2009

L’inconcludente summit di Copenaghen e la vera lotta ai cambiamenti climatici

autore: Guido Viale

Per decenni gli ambientalisti sono stati accusati dai teorici dello “sviluppo” e dagli epigoni dell’industrialismo ad oltranza di voler ritornare alla luce delle candele e alla vita nelle grotte. Adesso è ormai chiaro a tutte le persone e a tutti i governanti informati (purtroppo in Italia più rari, questi ultimi, che in qualsiasi piccolo Stato dell’Africa o dell’Oceania) che a farci tornare all’età della pietra saranno proprio loro, i teorici delle capacità autoregolative dei mercati (detto anche “pensiero unico”) e del business-asusual (in sigla, Bau) promosso e imposto dalle lobbies delle industrie petrolifera, automobilistica, energetica e dai costruttori di “Grandi opere”, se la loro presa sui governi usciti a mani vuote dalla Conferenza di Copenaghen non verrà azzerata.
Le conseguenze dell’inconcludenza di questo “Summit” sono state solo adombrate dal rapporto di Greenpeace di cui riferiva Antonio Cianciullo su questo giornale il 21 dicembre. Ma bastano pochi cenni a quello scenario tutt’altro che improbabile per rendersi conto che una vera politica industriale (ma anche, va da sé, energetica, agricola, alimentare, dei trasporti, delle infrastrutture e, vivaddio, culturale) adeguata ai tempi, cioè in grado di preservarci, almeno in parte, da una catastrofe già in corso, può solo adottare le soluzioni innovative che da anni gli ambientalisti propugnano.
Sono soluzioni messe a punto, per lo più con sostegno scarso o nullo dei governi e ancora più scarsi finanziamenti, spesso senza alcuna risonanza mediatica o addirittura circondate dal dileggio dei portavoce delle grandi corporation, da una schiera molto ampia di tecnici, di pionieri nel campo delle tecnologie, di imprese ed amministrazioni che hanno avuto il coraggio di andare controcorrente, ma anche da un numero sterminato di agricoltori, di consumatori attenti alla qualità, di quelle “comunità del cibo” di cui spesso parla Carlo Petrini su questo giornale.
Quelle soluzioni si chiamano efficienza energetica (misure largamente praticabili in grado di ridurre di un terzo, o della metà anche più, i consumi energetici a parità di efficacia), fonti energetiche rinnovabili, bioedilizia, mobilità sostenibile (fine della dittatura dell’auto privata), agricoltura biologica e a chilometri zero, rivalutazione delle colture autoctone, difesa della biodiversità e dell’assetto idrogeologico dei territori, educazione permanente. Non c’è altra strada percorribile e tutte le persone minimamente informate lo sanno.
Ma è ovvio che le resistenze verso una svolta del genere nascono dall’attaccamento ad abitudini consolidate che ciascuno di noi ha: sia come consumatori che come lavoratori (per lo meno finché il posto di lavoro legato alle vecchie produzioni non viene a mancare); ma che allignano anche di più nelle imprese (protagoniste, nella vulgata ufficiale, di tutti o quasi i processi di innovazione), nelle amministrazioni locali, nelle agenzie educative. Fino a ripercuotersi, in un processo di progressiva deresponsabilizzazione, nelle scelte di governi che vivono di sondaggi, di politica- spettacolo, con l’affanno di scadenze elettorali sempre più serrate. Di qui la generale inadeguatezza che dai governi si riverbera, con un processo circolare, sui governati; indotti a non allarmarsi “perché il problema non è poi grave come sembra” o addirittura “non esiste”.
Il fatto è che una riconversione ambientale dell’apparato produttivo, dei nostri stili di vita e della ripartizione globale delle risorse, quale quello necessario per prevenire la catastrofe incombente, non può essere governata dall’alto, o in modo centralistico: come può essere invece la decisione di costruire una o tante “Grandi opere”, o di incentivare la vendita sottocosto di automobili, o di ripianare i bilanci delle banche sull’orlo del collasso; cioè gli interventi con cui i governi di tutto il mondo hanno affrontato la crisi economica in corso, senza curarsi di quella ambientale e senza approfittare delle opportunità per cambiare rotta che entrambe offrivano.
Perché l’efficienza energetica e la bioedilizia richiedono interventi capillari e differenziati su ogni edificio, su ogni impianto, su ogni nuova apparecchiatura; le rinnovabili dipendono da fonti distribuite, differenziate sulla base dei carichi che devono sostenere e dell’accessibilità e disponibilità delle risorse; la mobilità sostenibile richiede soluzioni di trasporto pubblico – sia di massa che flessibile e personalizzato – ritagliati sulle caratteristiche del territorio e sulle esigenze delle loro popolazioni; agricoltura e alimentazione sostenibili richiedono un ridisegno completo dei piani colturali, degli approvvigionamenti e del sistema distributivo; le opere di salvaguardia degli assetti idrogeologici sono differenti in ogni area; l’educazione permanente non può essere promossa senza coinvolgerne nella sua programmazione i beneficiari. Insomma, la riconversione ambientale che può salvarci dal disastro climatico non può essere governata dal centro – anche se i governi dovranno sostenerla con norme e finanziamenti adeguati – ma può essere solo impostata, programmata e gestita in forme decentrate, area per area, comune per comune; al limite, tetto per tetto, coinvolgendo tutti i soggetti interessati: imprese disposte a cambiare rotta o a promuovere e sostenere la svolta; amministrazioni locali innovative, associazioni professionali e comitati di cittadini. È questo l’unico vero federalismo.
Naturalmente tra i governi centrali e l’iniziativa dei territori ci deve essere interlocuzione e il governo attuale del nostro paese, nonostante il conclamato federalismo, non sembra il più adatto né il più propenso a un approccio del genere. Ma se anche questo o un altro governo (domani, chissà?) decidesse di mettersi su questa strada, senza una robusta iniziativa dal basso e dalle periferie sarebbe del tutto impotente. L’unica strada percorribile per ottenere una vera svolta, tanto a livello locale e nazionale che planetario, e anche l’unica forma praticabile di riequilibrio nell’utilizzo delle risorse a livello globale, potranno solo scaturire – e in minima parte, lo stanno già facendo – dal rafforzamento dell’iniziativa locale.
Quello che ci insegna la Conferenza di Copenaghen, dunque, è che summit di questo genere non si devono più fare. La ribalta deve essere lasciata libera perché gli scienziati, attraverso un libero confronto anche con chi professa scetticismo – purché tutti dichiarino le fonti di finanziamento dei loro studi e delle loro pubblicazioni – possano informare il pubblico sui pericoli che corriamo; e perché chi sta già operando, in piccolo o alla grande, per il cambiamento possa presentare al mondo le proprie buone pratiche e farne valutare la replicabilità. Invece, perché i governi possano legittimamente riproporsi un accordo occorre che ciascuno abbia dietro le spalle programmi e misure in cui non solo siano fissati gli obiettivi, ma anche le risorse che intende impegnare, le misure adottate o da adottare, gli attori coinvolti o da coinvolgere; e perché questo avvenga occorre innanzitutto che governati e governanti si convincano che la riconversione ambientale non è solo un costo – come inevitabilmente viene percepita quando si fissano solo obiettivi di riduzione, senza la necessaria attrezzatura – ma una grande opportunità: di innovazione, di benessere, di occupazione, di equità e di convivenza più pacifica; e anche di business. Ma soprattutto di salvezza per il pianeta.
Repubblica, 23/12/2009

venerdì 25 dicembre 2009

Nucleare: Dalla rivincita italiana alla vittoria di Pirro

AVETE presente il finale di certi film westem in cui il vecchio sceriffo salta sull'ultima diligenza, per affrontare le incognite e i pericoli di un viaggio avventuroso, mentre sta arrivando in città la prima scoppiettante automobile? Ecco, la scena assomiglia a quella che stiamo vivendo in questo momento in Italia, dopo il rilancio del nucleare e l'approvazione dei due decreti legislativi varati ieri dal Consiglio dei ministri.


Una «revanche tricolore», è stata definita con qualche accento di trionfalismo, vale a dire una rivincita. Ma alla fine in realtà potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro, se non proprio una sconfitta o addirittura una disfatta.
Il fatto è che – a più di vent'anni di distanza dal referendum popolare con cui la grande maggioranza degli italiani bloccò lo sviluppo dell'energia nucleare - il governo italiano rischia adesso di adottare gli impianti di terza generazione, considerati tuttora troppo costo si e insicuri, mentre stanno per arrivare sul mercato quelli di quarta generazione che dovrebbero invece affrontare alla radice il problema della sicurezza e in particolare delle scorie radioattive, favorendo perci l'abbattimento dei costi. Al di là di qualsiasi pregiudizio ideologico, dunque, oggi la questione è essenzialmente economica: non è più una guerra di religione , bensì una guerra di cifre e di soldi.
Si dice: l'Italia deve ridurre la dipendenza energetica dall'estero, causata dalle forti importazioni di petrolio e di gas. Giusto. Ma la verità è che il nostro Paese non ha neppure giacimenti di uranio e deve procurarselo altrove. E lo stesso uranio, come il petrolio e tante altre risorse naturali, è comunque in via di esaurimento. Si dice ancora che l'uranio, rispetto ai combustibili fossili, è pi economico.Vero. Ma non si tiene conto, o non si tiene conto abbastanza, che l'energia nucleare costa molto di più per la costruzione delle centrali e appunto per lo stoccaggio e lo smaltimento delle scorie. Poi c'è la questione delle fonti rinnovabili, a cominciare dal sole e dal vento, prodigate generosamente da madre natura. Negli ultimi tempi, la lobby filo- nucleare ha promosso la tesi che l'energia atomica e quella verde non sono alternative, anzi sono compatibili, vanno sviluppate entrambe. Bene. Ma di fatto l'enorme investimento che occorre per il nucleare minaccia di sottrarre troppe risorse alle rinnovabili che vanno comunque incentivate.
Alla luce di tutte queste considerazioni, allo stato degli atti il decreto legislativo predisposto dal governo non offre elementi rassicuranti in ordine alla localizzazione dei siti nucleari e nemmeno in ordine ai costi di costruzione e gestione delle centrali. E sono proprio i due punti su cui s'incardinano le resistenze degli ambientalisti e di buona parte dell'opposizione.
In base alla legge sviluppo approvata a metà agosto, l'elenco dei siti avrebbe dovuto essere già stilato entro sei mesi. E invece viene ulteriormente rinviato, con ogni probabilità per evitare un boomerang elettorale alle prossime regionali di primavera. Tanto più che le Regioni, a dispetto della propaganda sul federalismo, non verranno né interpellate nè consultate.
Quanto ai costi, a parte l'incertezza che pesa da sempre e ovunque su questo capitolo, il provvedimento contempla sia un meccanismo di compensazione a favore dei Comuni che accetteranno di ospitare le centrali sia una campagna d'informazione promozionale. Da una parte, insomma, c'è la cosiddetta monetizzazione del rischio ; dall'altra, un battage pubblicitario, presumibilmente a colpi di spot in tv, per convincere i cittadini ad acquistare il prodotto, come se si trattasse di un fustino per la lavatrice o di una nuova bibita ipocalorica. Con il consenso, si tende a comprare così anche la sicurezza, la salute, la vita.
Il culmine del paradosso è che l'Italia sta imboccando la via francese al nucleare proprio nel momento in cui Oltralpe 18 centrali sono bloccate per guasti o incidenti e la Francia è costretta a importare energia dall'estero. Nel frattempo, la fredda Germania continua a produrre pi energia solare di noi. E l'Umpi, una piccola azienda di Cattolica che ha sviluppato brevetti e tecnologie per il risparmio energetico nell'illuminazione stradale, applica già questi sistemi a oltre centomila punti luce in Arabia Saudita e illumina perfino La Mecca.
di Valentini Giovanni
repubblica, 23 dicembre 2009

mercoledì 23 dicembre 2009

Senza albero non è Natale: Ma è davvero così?

Senza albero non è Natale Ma è davvero così? I riti legati agli alberi sono stati diffusissimi in tutta l'antichità, anche nella penisola italica. L'abete natalizio è però una tradizione germanica, osteggiata dalla Chiesa cattolica fino al quindicesimo secolo perché considerata pagana.

Con l'arrivo dell'inverno, i popoli germanici piantavano un albero decorato di festini e ghirlande per augurare la rinascita della terra dopo il periodo del gelo. L'albero veniva poi bruciato e la sua cenere, posta sui campi, assicurava la crescita delle messi in primavera e estate.

Anche se tutti ritengono si tratti di una antichissima tradizione delle nostre terre, l'abete natalizio è comparso solo alla fine dell'Ottocento in Italia, e ha iniziato a diffondersi assieme ai prodotti del consumo di massa.
Negli ultimi anni si sono poi diffusi gli "alberi ecologici" in plastica colorata, ma come tutti gli oggetti in plastica, non sono molto ecologici, specie quando vengono abbandonati in strada dopo una settimana di utilizzo (peggio ancora se la plastica non è riciclabile).
Anche l'albero vivo può rappresentare qualche problema. Per esempio, che farne dopo le feste? Portare un albero nel clima caldo e secco di un appartamento riscaldato gli procura senza dubbio un trauma cui non molte piante resistono. Se l'albero sopravvive, non sempre è una buona idea quella di piantarlo in giardino o, peggio, nel vicino bosco. L'abete rosso, che è il più utilizzato a Natale, è adatto alle zone montane dell'arco alpino, ma nelle regioni più meridionali può essere addirittura nocivo, come ogni specie aliena. Meglio allora cercare in vivaio un corbezzolo, un viburno, un leccio o un alloro, che possono essere piantati nella regione senza danno. Anche se l'abete è una tradizione germanica, riti legati agli alberi e al rinnovo della vita si svolgevano anticamente anche nelle regioni mediterranee, impiegando però specie locali. Un abete natalizio, in una regione litoranea, può essere solo destinato al compostaggio, e non al cassonetto.
In ogni caso, l'albero deve sempre venire da un vivaio, in grado di garantire che la pianta non sia stata sradicata nei boschi. Infatti è più difficile verificare se l'albero provenga da sfoltimenti autorizzati, in questo caso fa fede la certificazione Forest Stewardship Council. Purtroppo molte piante (anche senza radici) sono importate dall'est europeo e dalla regione balcanica, dove i tagli illegali sono ancora frequenti.

da: http://www.salvaleforeste.it/alberi-di-natale-ecologici.html
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commento: noi non facciamo l'albero, ma per tradizione un piccolo "presepio" con vecchissimi personaggi di plastica (pastori e pecore, soprattutto) in un paesaggio fatto con un vecchio foglio di carta a colori verde-marrone. Per tradizione mia, metto i re magi distanti nel paesaggio, di spalle, come se fossero intorno a un fuoco, e il bambinello nel cassetto vicino al presepe. Lo tiro fuori il giorno di natale, come pure i re magi all'epifania li faccio arrivare davanti alla capanna.
Sul foglio di carta spargo un sacchettino di minuscoli sassolini, che riempiono il tutto. Sono molto affezionato a questi sassi, è come se fossero la vita che scorre, ogni anno, quando smonto il presepe, se ne perde qualcuno.....
greg


martedì 22 dicembre 2009

hellecasters

Hellecasters: escape to Holliwood, del 1993: bellissimo album strumentale, una specie di country , simile ai Dixie Dregs talvolta, incredibile suono di telecaster.
Vedi anche il sito http://www.hellecasters.com/

sabato 19 dicembre 2009

luca chittaro

I suoi articoli mi piacciono molto.
http://lucachittaro.nova100.ilsole24ore.com/

L'interpretazione dei segni

il futuro non è il posto dal quale ci arrivano le novità. È l'insieme delle conseguenze delle nostre azioni nel presente......

Progettiamo la forma dei nostri edifici, ma poi sono gli edifici a modellare la nostra vita.Poco importa che l'abbia detto proprio Winston Churchill. Forse, peraltro, vale anche il viceversa. E non solo per l'architettura: si può sostenere pure per la medicina, per la robotica, per i social network o per le enciclopedie.


Ammettere la complessità dei fenomeni non vuol dire rendersi la vita difficile:
piuttosto si vive male lontano dalla realtà, accoccolati nel realismo lineare delle relazioni causa-effetto. Un motore di ricerca non ci rende stupidi più del gioco dei pacchi televisivi. O dei pacchi finanziari. O dei pacchetti donati su Facebook. Il difficile è pensare bene, in un'epoca di cattivi pensieri. E non è certo colpa del fatto che sulla rete ci sono troppe informazioni: casomai abbiamo filtri insufficienti a gestirle. Come se sullo schermo di un pilota d'aereo che atterra nella nebbia ci fossero interruzioni pubblicitarie, chiamate degli amici, racconti di fantascienza e scariche elettriche incontrollate.

Nel caos dei segni, i fatti sono tracce solo se sappiamo che cosa stiamo cercando. Solo allora tentiamo di imparare a interpretarli. Per distinguere, ad esempio, le innovazioni destinate all'oblio da quelle che possono generare un cambiamento di lungo periodo. Per convivere con i timori e le speranze. Come stiamo trasformando il pianeta? Che cosa stiamo diventando noi esseri umani? Quale prospettiva di progresso possiamo coltivare?
Sui monitor del futuro ci sono ancora le angosce di Bill Joy, ragionevolissimo scienziato dei computer, che nell'aprile del 2000, su Wired, si domandava se robotica, genetica, nanotecnologia, elettronica e intelligenza artificiale non stessero creando le condizioni per l'emergere di una nuova specie, più adatta di quella umana a sopravvivere nel percorso evolutivo. Non è impensabile: qualche decina di migliaia di anni fa, sulla Terra coesistevano l'homo sapiens e l'uomo di Neandertal. Joel Garreau, autore di Radical Evolution, ha intervistato i responsabili dei laboratori di Darpa, agenzia delle ricerche avanzate della Difesa degli Stati Uniti, incaricati di progettare con le biotecnologie e le neuroscienze il soldato del futuro, capace di performance fisiche e mentali sovrumane. I fondi per quelle ricerche sono stati ridotti ultimamente, ma secondo un'inchiesta di World Politics Review la Darpa sta ancora lavorando a «trasformare i soldati cellula per cellula».
Per l'antropologo Alberto Salza, invece, il laboratorio dei replicanti è altrove: «Ad Aroma Beach, nelle Filippine, l'inquinamento del mare, delle sabbie e dell'aria è intollerabile per l'organismo umano. E, in quei posti, ci vanno solo i poveri».
Ma che cosa succede al patrimonio genetico delle persone che si trovano a vivere vicino alle discariche radioattive della Somalia o nei campi profughi del Sudan, super-esposti ai raggi ultravioletti? Salza, autore di Niente, come si vive quando manca tutto, osserva che i posti più tossici sono abitati dai più poveri, proprio coloro che generano più figli e che vivono al l'estremo la lotta per la sopravvivenza. Per questo Salza, ex fisico, oggi antropologo, suggerisce che: «I miserabili sono i mutanti».

Ipotesi o fantasie? Un fatto è certo: l'evoluzione della specie umana è avvenuta per via genetica, sociale e culturale: non solo il corpo, ma anche e, forse più efficacemente, l'organizzazione dei gruppi e dei saperi sono elementi mutanti attraverso i quali l'umanità è sopravvissuta e si è sviluppata. E anche in questo ambito evolviamo, con l'entrata in gioco delle macchine per la comunicazione e l'archiviazione digitale. Progettiamo quelle macchine, poi quelle macchine ci cambiano. Come? Il numero 200 di Nòva è ispirato da queste domande. Servono per dedicare maggiore attenzione a ciò che stiamo facendo, al pianeta e a noi stessi. È un modo per non subire l'idea che il fato sia l'unico comandante possibile della navicella spaziale che abitiamo.
Perché il futuro non è il posto dal quale ci arrivano le novità. È l'insieme delle conseguenze delle nostre azioni nel presente.

Ma qualunque teoria dell'azione è in fondo una teoria della prospettiva. Scrivono David Lane e Robert Maxfield, studiosi della complessità: «Ogni azione umana intenzionale è intrinsecamente temporale. Avviene nel presente, è diretta verso una trasformazione futura di certi aspetti del contesto presente, e il modo in cui è compiuta dipende dall'esperienza passata dell'attore. Possiamo pensare all'azione come a un ponte che gli attori costruiscono nel presente, per collegare il loro passato a un futuro desiderato».
La prospettiva e l'azione sono indissolubilmente legate. Perché se il mondo appare come un labirinto e la visuale è schiacciata sempre solo sul prossimo bivio, prima o poi ci si perde: come spiegava Umberto Eco ne Il nome della rosa, un labirinto si risolve pensandolo dall'esterno. O almeno pensando.
Questa non è l'epoca della certezza, forse... Ma di certo è un'epoca nella quale l'approfondimento e la riflessione sul senso di quello che stiamo facendo ci possono salvare.
Luca De Biase
lucadebiase.nova100.ilsole24ore.com
25 Novembre 2009

mercoledì 16 dicembre 2009

brescia.- regali di natale? saveriani!

A Natale, puoi regalare un libro, un cd...vai a fare un giro dai missionari saveriani, vicino a santa giulia:

http://www.saverianibrescia.com/csam.php

ci sono i cd del manifesto (con 10 euro te la cavi, e sono bellissimi) e molti altri libri ancora, rari da trovare nelle solite librerie zeppe di Vespa e Dan Brown....
E c'è anche una mostra carina sull'Amazzonia, con in vendita oggettini prodotti in loco....

lunedì 14 dicembre 2009

La grande rassegnazione

Il mercato, infatti, non ha volto, il mercato è nessuno. Ed è vero, come ci ricorda Romano Madera in Identità e feticismo (Moizzi editore) che «Nessuno, come già ci segnalava Omero, è sempre il nome di qualcuno», ma questo qualcuno, nel mercato globalizzato, è invisibile. Di qui la rassegnazione e la disperazione ......


Scrive Marx ne Il Capitale: «Le persone esistono solo come maschere economiche.
E, solo come personificazioni di rapporti economici, esse si trovano l’una di fronte all’altra»

Di lavoro si può morire, come accade in Francia. Manager che si suicidano sul posto di lavoro, come se il fallimento dell’azienda fosse il fallimento della loro vita.
Ci si identifica talmente con l’azienda che il suo fallimento crea una crisi esistenziale. Ma ci si suicida anche per mancanza di lavoro: sono due facce legate al lavoro, così osannato da certo capitalismo. Ma perché proprio ora? Perché la crisi ha messo a nudo la grande questione del lavoro. Marx messo in soffitta rispunta drammaticamente a ricordarci che il lavoro che diviene alienazione può distruggere l’uomo, il lavoro che ha come fine solo il profitto crea alienazione, l’uomo diviene un’altra cosa da sé.
Ma anche la sua mancanza riduce l’uomo a cosa. Ma non è solo Marx a impostare questo problema.
Se prendete San Tommaso, così come lo legge Vittorio Tranquilli nel suo monumentale Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, vi dice, arrivato a San Tommaso, che il lavoro fisico ha la stessa dignità di quello intellettuale e che ambedue hanno come fine l’uomo, creato da Dio. Vecchia riflessione, ma drammaticamente attuale.
Luciano Ferrari, Livorno ferrariluc@alice.it

Risponde Umberto Galimberti
Marx nell’Ottocento e Heidegger nel secolo scorso (due filosofi dalle idee politiche radicalmente opposte) segnalavano la progressiva riduzione dell’uomo alla sua funzione “mercantile”, nel senso che l’individuo è costretto a presentarsi con quella maschera (Charakter Maske, dice Marx) in cui sono scolpiti i tratti del suo impiego o, come dice Heidegger, del suo essere «im-piegato (be-stellt) al fine di assicurare l’impiegabilità (Bestellbarkheit)», a cui l’economia, regolata dalle leggi di mercato, destina uomini e cose.
Con la maschera in volto, l’uomo non è più in rapporto con il mondo, ma esclusivamente con le leggi che governano il sistema mercantile in cui il singolo si trova ad operare. Il suo agire non lo esprime, ma esprime la razionalità dell’apparato economico che determina non solo la sua azione, ma anche la relazione con i suoi simili, mediata dalle leggi che connettono la produzione, lo scambio e il consumo delle merci. Tutto ciò, e questo è il tragico, non è “oppressione”, ma “sistema”.
Di oppressione si poteva parlare prima dell’avvento dell’economia di mercato oggi globalizzata, dove la reificazione dell’uomo, la sua riduzione a cosa, avveniva per la volontà di un altro uomo, sia che questi si esprimesse come individuo o come classe, per cui era possibile da parte dei “reificati” individuare, nell’abbattimento
di quella “volontà”, la condizione della loro liberazione.
E tutte le rivoluzioni che hanno scandito i passaggi d’epoca nelle età precedenti la globalizzazione erano praticabili, perché accadevano all'interno dell’umano, tra una volontà opprimente e una volontà oppressa, o come dice Hegel, «tra un servo e un signore».
Perché le rivoluzioni esplodessero era sufficiente quella «presa di coscienza », secondo l'espressione di Marx, capace di segnalare la base irrazionale dell’oppressione e la conseguente razionalità della successiva liberazione.
Ma quando la reificazione, la riduzione dell'uomo a cosa, non è più l’effetto di una volontà, quindi di un evento irrazionale, ma l’effetto della razionalità del mercato, allora non avremo più, come nelle età che hanno preceduto la globalizzazione del mercato, il dominio dell’uomo sull’uomo, ma il dominio della razionalità del mercato su tutti gli uomini, servi o signori che siano, i quali non si trovano più contrapposti l’uno all’altro, ma entrambi dalla stessa parte, avendo come controparte la razionalità che regola le leggi di mercato, contro cui ogni rivoluzione è impraticabile.
Per questo i giovani accettano con rassegnazione qualsiasi lavoro temporaneo o in nero, per questo chi perde il lavoro va in crisi d’identità e non sa come uscire dalla notte buia della disperazione. E questo non perché si sono identificati con il loro lavoro, ma perché non hanno una controparte dal volto riconoscibile con cui confrontarsi. Il mercato, infatti, non ha volto, il mercato è nessuno. Ed è vero, come ci ricorda Romano Madera in Identità e feticismo (Moizzi editore) che «Nessuno, come già ci segnalava Omero, è sempre il nome di qualcuno», ma questo qualcuno, nel mercato globalizzato, è invisibile. Di qui la rassegnazione e la disperazione che affliggono sia la classe imprenditoriale sia la classe dei
subordinati, per la prima volta nella storia non più in contrapposizione, ma entrambi sottomessi alla dura legge della “razionalità” (?) del mercato.
La repubblica delle donne D 222 12 DICEMBRE 2009

domenica 13 dicembre 2009

cacciatore scambiato per una preda

Questi "sportivi" sparano a qualsiasi cosa che si muove....
Per ulteriori info vai su: http://www.cacciailcacciatore.org/
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12 dicembre 2009
La vittima, Paolo Braschi, 42 anni, è stata colpita al collo e al volto
ed è morta sul colpo. L'uccisore lo aveva scambiato per una preda
Partecipa ad una caccia alla volpe
uccide un altro cacciatore

BERTINORO - Incidente mortale di caccia questa mattina nei pressi di Polenta, frazione di Bertinoro (Forlì-Cesena). Paolo Braschi di 42 anni residente a Bertinoro, è stato ucciso intorno alle 8 e 30 da due colpi di fucile esplosi da un altro cacciatore, un cesenate di 52 anni. La vittima, che era a poche decine di metri di distanza da chi gli ha sparato, è stata colpita al volto e al collo ed è morta in pochissimo tempo. Quando sono arrivati i soccorritori del 118 era già senza vita.

A quanto pare, il cacciatore che ha sparato era impegnato in un battuta di caccia alla volpe con altri tre amici, mentre la vittima era sola. Braschi era in fondo ad un ripido canalone, ricco di arbusti e alberi, mentre gli altri quattro, divisi in due gruppi, si aggiravano sulle due sponde, dopo aver notato un paio di volpi in movimento.

Braschi nel muoversi dovrebbe aver attirato l'attenzione di uno dei quattro che, pensando di avere di fronte a sè una volpe, ha esploso in rapidissima successione i due colpi mortali. Per recuperare il corpo del cacciatore, a causa della zona impervia, è stato necessario l'intervento di un elicottero dei vigili del fuoco decollato da Bologna.

sabato 12 dicembre 2009

morale e politica

Morale e politica
Non è possibile affrontare, e tanto meno risolvere un problema, se non si tiene conto del radicale mutamento del contesto in cui quel problema si pone.




C'è una parola che è rimasta incastrata nei dizionari, su qualche manuale di filosofia, sulle labbra di qualcuno degli ultimi predicatori, bacchettoni di provincia, decaduti filantropi, per assestargli il definitivo colpo di grazia, il Ko che l'ha stesa e confinata in esilio. La parola é moralità.
Certo questa mia non sarà una ricerca bigotta di un senso da applicare a questa parola, né tanto meno un ulteriore j'accuse al "lombardo Sardanapalo", cioè il signor Silvio Berlusconi.
Il mio intento è un altro: domandare perché la moralità è stata confinata, alle soglie del XXI secolo, e perché il binomio "moralità e politica" oggi risulta irrealizzabile e anacronistico.
Siamo cresciuti - nel senso che abbiamo studiato - la moralità occidentale come legata, in un rapporto di significante simbiosi, alla libertà.
Già da Kant abbiamo acquisito l'imperativo: "Devi agire moralmente, perché libero, seguendo la tua legge morale".
I secoli a venire sono stati attraversati da questo legame, da questo percorso di consapevolezza della propria libertà e autodeterminazione, della personale moralità. Ma quel "personale" e quella "libertà" hanno assunto nell'ultimo cinquantennio risvolti grotteschi: la libertà é degenerata in un'esasperante assuefazione a un culto egotista, rendendo vana, vuota, puramente teorica la moralità.
O forse, signor Galimberti, é la libertà stessa che nel suo ultimo stadio ha liberato l'uomo dall'alter-ego morale, e oggi egli é finalmente realizzato? O forse l'inganno é intessuto da Kant in quel "La legge morale dentro di me", inaugurando un percorso individualistico la cui degenerazione é questo tempo? Sono le domande di uno studente liceale alle prese con la "questione morale", fuori da ogni cronaca giornalistica.
Giuseppe Di Vetta giuseppe.divetta@libero.it

Risponde Umberto Galimberti:
Del rapporto tra la morale e la politica si discute dal tempo di Platone, quando la filosofia greca ha inaugurato questi due scenari che nel corso della storia sono entrati spesso in conflitto fra loro. Per il mondo greco, morale e politica non potevano che coincidere, dal momento che, come scrive Aristotele nella Politica, "gli uomini hanno lo stesso fine sia collettivamente sia individualmente, e la stessa meta appartiene di necessità all'uomo migliore e alla costituzione migliore".
Con l'avvento del cristianesimo l'individuo si separa dalla società, perché alla sua individualità, alla sua "anima" si prospettano un destino ultraterreno in cui l'individuo, e non la comunità, trova la sua autorealizzazione.
Alla vita collettiva, regolata dalla politica, è affidato il compito di creare le condizioni per la realizzazione del bene individuale, quindi il compito della limitazione del male.
In questo modo la realizzazione individuale (la morale) viene separata dalla realizzazione sociale (la politica), e, in nome della sua interiorità e della sua destinazione ultraterrena, l'individuo cristiano prende a vivere, come scrive Agostino nel De civitate Dei, separato nel mondo, e poi dal mondo.
Questa è anche la ragione per cui Rosseau scrive nel Contratto sociale che "il cristiano non é un buon cittadino": lo può essere di fatto, ma non a partire dalle sue credenze.
La filosofia greca e la tradizione giudaico-cristiana, che sono le due radici dell'Occidente, hanno deciso di volta in volta, e con vicende alterne, di dare il primato alla morale o alla politica, fino al giorno in cui la tecnica, divenuta il vero soggetto della storia, ha subordinato a sé sia la morale, sia la politica, rendendo tutte le discussioni relative al primato dell'una o dell'altra questioni subordinate.
Per quanto concerne la morale, come opportunamente scrive Emanuele Severino in Il destino della tecnica (Rizzoli): "Come fa la morale a impedire alla tecnica, che può, di fare ciò che può?"
E ancora, aggiungo io: come può una morale, i cui princìpi discendono dalla natura concepita come immutabile, valere nell'età della tecnica che ha risolto la natura in materia prima, in ogni suo aspetto manipolabile?
La politica, a sua volta, non è più il luogo della decisione, perché per decidere la politica guarda l'economia, e quest'ultima, per decidere i suoi investimenti, guarda le risorse tecnologiche. Per cui il luogo della decisione si è spostato dalla politica alla tecnica.
Questo spiega tutte quelle scorribande in sede politica e in sede morale, che sempre più appaiono, purtroppo, luoghi inessenziali al corso della storia. Non dico queste cose con piacere, ma mi pare necessario segnalare il mutamento dello scenario in cui l'antico problema del rapporto tra morale e politica oggi si presenta: per evitare discussioni che diventano inutili se non si prende atto del mutamento radicale del contesto.

repubblica delle donne, 14 novembre 2009

venerdì 11 dicembre 2009

La corsa folle che non tollera più la pausa pranzo

Ciò che l'uomo moderno teme di più è ciò che in passato lodava di più: il riposo, il distacco dalle passioni e dalle ambizioni. Ciò che più desidera, la lotta per la ricchezza e per il potere, è anche ciò che lo rende nemico all'amico.


Pare che i cocainomani italiani siano in crescita continua, specie nella classe dirigente.
Vale a dire: coloro che, per censo e conoscenze, dovrebbero essere più degli altri in grado di intendere e di volere scelgono deliberatamente di non essere, per varie ore della giornata, compos sui, padroni completamente di sé.
Che cosa trovano nella droga? Dicono che toglie la stanchezza e illumina la mente, che moltiplica e prolunga il piacere sessuale, che ti dà coraggio e inventiva.
E quali i prezzi da pagare? Molti, e crescenti nel tempo: il rapporto con i fornitori esosi e infidi, la minor difesa contro le malattie, l'usura cerebrale. L'uso delle droghe, il bisogno delle droghe, è antico quanto l'umanità e nella modernità sembra necessario a sopportare i ritmi e le fatiche.
Il modo di vivere della maggior parte degli italiani che contano è una sfida mortale allo sfinimento e alle ansie.
Vi siete accorti che oggi il saluto abituale non è più «buona giornata» o «buona salute» ma «buon lavoro»?
Si è rovesciato il nostro rapporto con la vita, non più con i suoi piaceri e i suoi riposi, ma con il lavoro, nei tempi biblici considerato una condanna da pagare con il sudore della nostra fronte.
Perché l'uso della droga cresce nei Paesi più ricchi? Perché i Paesi più poveri la coltivano e gliela vendono? Perché i modi e i tempi del lavoro nella modernità ricca sono demenziali.
Sui giornali si legge degli impegni degli italiani importanti: politici, industriali, professionisti, giudici, sacerdoti. Cinque o sei appuntamenti al giorno, dal primo mattino a tarda sera, abolite quasi tutte le forme di ozio o di riposo, riprovevoli le pennichelle pomeridiane, obbligatori gli impegni di rappresentanza, ricercate freneticamente le apparizioni tv, perseguita affannosamente l'ubiquità, per essere presenti dovunque, un vizio più che una necessità, seguiti sempre da segretarie che ti ricordano la catena giornaliera degli impegni di un lavoro che, essendo diventato la più forte delle droghe, esige l'uso delle droghe chimiche per resistere.
Ciò che l'uomo moderno teme di più è ciò che in passato lodava di più: il riposo, il distacco dalle passioni e dalle ambizioni. Ciò che più desidera, la lotta per la ricchezza e per il potere, è anche ciò che lo rende nemico all'amico.
Il lato più sgradevole di questo modernissimo tempo è di essere circondato da concorrenti, pronti a eliminarti. E il ministro Gianfranco Rotondi propone anche di abolire la pausa pranzo.

Giorgio Bocca, venerdi di repubblica, 11 dicembre 2009

giovedì 10 dicembre 2009

Zygmunt Bauman:banali leader

"Appaiono per scomparire. Si attaccano al potere per perderlo. L'unico vantaggio che sembrano avere su noi comuni mortali è una morte pubblica"
di Zygmunt Bauman

Avendo già iniziato a commentare lettere altrui - anziché scriverne di mie - permettetemi di cimentarmi ancora una volta in una simile impresa. Il motivo che mi spinge a farlo è il medesimo: come nel caso del film-lettera Il matrimonio di Lorna, ritengo che quest'altra lettera nascosta sia molto più penetrante ed esemplificativa di quanto io avrei saputo scrivere, e immagino abbia richiesto un'immaginazione, un talento e un gusto estetico che non potrei uguagliare.
Mi riferisco a La tribù con gli occhi al cielo, il racconto di Italo Calvino.
Come suggerisce il titolo, la storia narra di una tribù dedita a contemplare il cielo. La volta celeste offre uno spettacolo interessante e regala molte soddisfazioni a chi vi volge lo sguardo, attraversata com'è da "nuovi corpi celesti": aerei a reazione, dischi volanti, razzi e missili telecomandati.
La tribù osserva, e vedendosi obbligati a dare una spiegazione su tali fenomeni, gli stregoni del villaggio dichiarano che questi offrono un segno inequivocabile dell'imminente fine della servitù e della miseria che da secoli affliggono la tribù. Presto la "savana incolta produrrà sorgo e mais", e la tribù non sarà più costretta a cibarsi esclusivamente di noci di cocco. Dunque - e qui sta il punto - "non si stia ad almanaccare su nuovi sistemi" per uscire dall'attuale situazione; "confidiamo nella Grande Profezia, stringiamoci attorno ai suoi soli retti interpreti, senza chiedere di più".
Sulla terra, nella valle dove la tribù ha costruito le proprie capanne di paglia e fango, nel villaggio da cui gli uomini ogni giorno partono alla ricerca di noci di cocco e a cui ogni sera fanno ritorno, le cose stanno cambiando. In passato qui giungevano di quando in quando dei mercanti, per acquistare noci di cocco. I mercanti imbrogliavano sui prezzi, ma gli indigeni, scaltri, riuscivano a loro volta ad ingannarli.
Adesso però i mercanti non si vedono più. Al loro posto è sorto un ufficio della moderna "Coccobello Corporation, che compra tutto il raccolto in blocco e impone i prezzi". Non si contratta più, e imbrogliare è impossibile: i prezzi vengono stabiliti in anticipo, prendere o lasciare. Naturalmente, "lasciando" si rischia di non sopravvivere sino al raccolto successivo. C'è qualcosa che accomuna gli stregoni e i rappresentanti della Coccobello Corporation: sia gli uni che gli altri parlano di razzi e dei presagi che questi annunciano, ed entrambi (di nuovo qui sta il punto) affermano le stesse cose: "è nella potenza dei bolidi celesti che risiede tutto il nostro destino!".
Il narratore del racconto condivide il destino e le abitudini del villaggio. Anche lui, come il resto della tribù, trascorre le serate sulla soglia della sua capanna di paglia e fango, intento ad osservare il cielo. Anche lui, come gli altri, ascolta e ricorda ciò che gli stregoni e gli agenti della Coccobello Corporation ripetono di continuo. Ma al tempo stesso pensa (anzi, nella sua mente i pensieri si pensano da soli): "un'idea ho in testa che nessuno mi leva: che una tribù che s'affida solo al volere dei bolidi celesti, per bene che le vada, continuerà sempre a vendere le sue noci di cocco sottocosto".
In un altro racconto, La decapitazione dei capi, Italo Calvino fa notare come la televisione (e qui lo scrittore va dritto al punto, saltando a piè pari la metafora del cielo e dei bolidi celesti) "ha cambiato molte cose". Benché non necessariamente le stesse che ai nuovi stregoni (che adesso chiamiamo spin doctors) piace riconoscersi il merito - e riconoscerlo alla tv - di aver cambiato.
La televisione ha cambiato, tra l'altro, il modo in cui vediamo i i nostri leader. Un tempo questi ci apparivano come figure distanti, poste in alto, su un palco, o erano raffigurati in ritratti "atteggiati a espressioni di una fierezza convenzionale". Adesso invece, grazie alla tv, ognuno può scrutare in loro "il minimo moto di lineamenti, lo scatto infastidito delle palpebre, alla luce dei riflettori, il nervoso umettare delle labbra tra parola e parola".
In breve: i nostri leader sono diventati terribilmente banali, come tutti noi. E, al pari di noi, mortali. Vengono per poi andarsene. Appaiono per scomparire. Si attaccano al potere per perderlo. L'unico vantaggio che sembrano avere su di noi, comuni mortali, è di essere destinati ad una morte pubblica - una morte a cui "siamo certi d'assistere, tutti insieme".
Con un tono non del tutto ironico, Calvino si spinge a suggerire che è proprio questa consapevolezza a spiegare il motivo per cui un politico, fino a quando è in vita, è "circondato dal nostro interesse ansioso, anticipatore".
Quelle che seguono sono parole così intense da meritare di essere citate testualmente e per esteso: "Per noi la democrazia comincia solo dal giorno in cui si ha la certezza che nel giorno stabilito le telecamere inquadreranno l'agonia della nostra classe dirigente al completo, e, in coda allo stesso programma (ma molti degli spettatori a quel punto spengono l'apparecchio), l'insediamento del nuovo personale, che resterà in carica (e in vita) per un periodo equivalente". Tutto ciò, conclude Calvino, viene contemplato "da milioni di spettatori con raccoglimento sereno, come chi osserva i movimenti dei corpi celesti nel loro ciclico ripetersi". Uno "spettacolo che quanto più ci è estraneo tanto più sentiamo come rassicurante". L'abitudine di tenere gli occhi puntati verso il cielo non è, si direbbe, la prerogativa di un'unica, remota tribù. Né i motivi per farlo, o le conseguenze che ne derivano, differiscono molto da una tribù all'altra. A cambiare sono gli strumenti necessari a dedicarsi a tale attività/passività. E i nomi, e le storie degli stregoni - ma non il messaggio di quelle storie, né le intenzioni di coloro che le raccontano. (Traduzione di Marzia Porta)
da: la repubblica delle donne, 28 novembre 2009

I lavoratori sui tetti

Si domanda il filosofo Franco Totaro in Non di solo lavoro: "I fini della tecnica e dell'economia globalizzata sono anche i nostri fini?"

Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma


Sono un lavoratore e delegato sindacale. Gli episodi di crisi del lavoro, avvenuti nelle scorse settimane, come il caso Innse, Colosseo e Lasme, mi fanno meditare seriamente.
Mi domando perché, oggi, un lavoratore per far valere i suoi diritti deve ricorrere al fai da te, attirando l'attenzione della politica (che sempre meno conta) attraverso i media. Una volta l'iscrizione al sindacato offriva identità, si facevano le assemblee per spiegare la piattaforma e sensibilizzare i lavoratori allo sciopero.
Negli anni 70 la produzione veniva interrotta, si occupavano gli stabilimenti finché i padroni non davano l'aumento. Le tre confederazioni erano unite e la concertazione con i governi dava risultati (ben cinque patti sociali conclusi negli anni Novanta).
Essere sindacalisti significava sacrificare in buona parte la propria vita (come ha fatto mio padre per tanti anni nella Cisl). Oggi sembra significhi solo salvarsi il...
Eppure, pensare a un mondo senza parti sociali mi torna difficile, vuol dire tornare all'Italia degli anni Cinquanta, o peggio. Manca ormai da tempo una vera conoscenza sindacale, capace di responsabilizzare, mobilitare i lavoratori. In tutto il mondo sviluppato si evidenzia una diminuita adesione ideologica al sindacato, e ahimè c'è una sfiducia maggiore da parte dei giovani (18-25 anni), e in confronto un atteggiamento più benevolo da parte degli adulti.
Questo declino è oggi in parte compensato nel sindacato dalla presenza degl'immigrati regolari, attraverso patronati, pacchetti di servizi che assicurano sostegni individuali nei momenti di crisi. Certo, i tempi cambiano. Ieri la dimensione collettiva era il destino e la speranza di ognuno. Oggi è la dimensione individuale a dominare, favorita da altri fenomeni quali la rivoluzione digitale, la flessibilizzazione, la mancanza, spesso, di un unico padrone e altro.
Ognuno per sé e vinca il migliore, con il licenziamento come ultimo tabù. Per poi magari sentir dire "San Precario lavora per noi".
La domanda che allora le pongo è la seguente: se il lavoro industriale, che ha contrassegnato un secolo di promozione sociale e di riscatto dal bisogno, è ormai in declino, come lo è la fine del posto fisso, lo dobbiamo a un sindacato poco adeguato ai tempi, oppure il problema è più grave e complesso? Grave come teorizza l'economista Rifkin, quando parla "della fine del lavoro", e l'inizio di una nuova era? Siamo di fronte a un sistema entropico? Massimo Merli Brandini, Roma maxrott63@hotmail.it

Risponde Umberto Galimberti:

Gi operai vanno sui tetti delle fabbriche perché ormai da tempo la realtà è stata sostituita dalla rappresentazione televisiva, per cui se non compari in tv non esisti, e nessuno si accorge di te e del tuo dramma. Soprattutto nella nostra cultura che si alimenta solo della rimozione del disagio e della sofferenza.
Detto questo, è evidente che più avanza la tecnologia, più si riducono i posti di lavoro. E siccome il processo è irreversibile, nonostante i correttivi, i finanziamenti mirati, i contratti d'area e i lavori socialmente utili, la disoccupazione non può che avanzare, indipendentemente dalla crisi che stiamo attraversando, che spesso diventa a sua volta una giustificazione utile per sfoltire i posti di lavoro. Tutto questo in nome della razionalità del mercato, che, come un'entità impersonale, tende a far passare le sue leggi quasi fossero "leggi di natura", mentre invece sono solo le leggi del profitto, divenuto ormai l'unico generatore simbolico di tutti i valori.
Già Marx avvertiva, in pieno Ottocento, che "gli uomini esistono solo come rappresentanti delle merci".
Oggi potremmo aggiungere che le merci hanno una libertà di circolazione, nei vari paesi del mondo, che gli uomini si sognano.
Ma almeno, al tempo di Marx i lavoratori potevano opporsi ai datori di lavoro. Oggi, sia gli uni che gli altri si trovano dalla stessa parte, avendo come controparte la razionalità del mercato, contro cui nessuno solleva obiezioni.
Ma come si fa, oggi, a rimettere al centro l'uomo e non solo il profitto? L'indicazione di Franco Totaro è quella di cambiare i profili lavorativi, pensando non solo al lavoro come "produzione", ma anche e soprattutto al lavoro come "servizio", di cui la nostra società sente un gran bisogno, a giudicare dal gran numero di persone che si dedicano all'assistenza e al volontariato. Si tratta di profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento finanziario, se l'economia non pensasse solo alla produzione, ma anche ai servizi per la persona e alle relazioni tra le persone.
Qui forse si annida anche il segreto di una maggior felicità sociale, che certamente non è data dall'ultima generazione di automobili, di telefonini o di computer, come, ingannandoci, la pubblicità cerca di farci credere.
Di questo parere e anche Frédéric Beigbeder, che nel suo libro Euro 13,89 (Feltrinelli) scrive: "Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l'universo. Io sono quello che vi vende tutta questa merda. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità e che non resta mai nuova. C'è sempre una novità più nuova, che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma".


repubblica delle donne 28 novembre 2009


L'intelligenza è niente senza un tocco di pigrizia

L'intelligenza è niente senza un tocco di pigrizia
Hans Magnus Enzensberger, nato a Kaufbeuren, in Germania, nel 1929, è una dette più importanti figure detta cultura europea: poeta, filosofo, saggista, giornalista, traduttore. Il brano che segue è tratto da Hammerstein o dell'ostinazione, pubblicato da Einaudi nel 2008.
Erich von Manstein, il futuro feldmaresciallo condannato nel 1949 per crimini di guerra, nelle sue memorie ha espresso su Kurt Hammerstein il seguente giudizio: «Proveniva come me dal 3° reggimento guardie di fanteria e insieme al generale von Schleicher era forse una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto. Aveva coniato l'espressione "le norme sono per gli stupidi", e intendeva tutte le persone nella media, una frase che lo caratterizzava. In guerra sarebbe stato un condottiero eccezionale. Come comandante in capo dell'esercito in tempo di pace non coglieva l'importanza di occuparsi anche del lavoro minuto, e del resto provava un senso di compassione verso l'"operosità",una caratteristica, diceva, ormai indispensabile all'uomo medio. Dal canto suo, ne faceva un uso moderato, visto che, con la sua intelligenza rapida e la mente acuta, poteva permetterselo». (...)
Un giorno, quando chiesero ad Hammerstein da quale punto di vista valutasse i suoi ufficiali, disse: «Li divido in quattro tipi. Ci sono ufficiali intelligenti, laboriosi, stupidi e pigri. Il più delle volte due di queste caratteristiche coincidono. Se sono intelligenti e laboriosi, devono entrare nello stato maggiore generale. Poi ci sono gli stupidi e pigri che costituiscono il 90% di ogni esercito e sono adatti per compiti di routine. Chi è intelligente e insieme pigro si qualifica per gli incarichi di comando più elevati, perché dispone della chiarezza mentale e della stabilità emotiva per prendere decisioni difficili. Bisogna guardarsi da chi è stupido e laborioso e non affidargli responsabilità, perché combinerà solo disastri».

martedì 8 dicembre 2009

limite dei 150 orari

Elevare il limite di velocità a 150 è un vero atto criminale. Primo: viste le tolleranze, si andrà a multare chi va oltre i 160. Secondo: se oggi un ubriaco al volante viene (forse) fermato se supera i 130, domani? Terzo: più aumenta la velocità, più aumenta l'inquinamento. Tanto che, nei giorni di allerta ambientale, la velocità nelle autostrade a ridosso delle grandi città sarebbe da ridurre a 110. Quarto: avete mai provato a
scendere dall'auto in autostrada, e mettervi a livello strada (nell'ottica, per esempio, di un cane abbandonato)? Vedreste le auto come schegge impazzite, che corrono , già a 130 all'ora, ad una velocità folle.

lunedì 7 dicembre 2009

Un week end a Torino


Torino, 5/6 dicembre 2009.
Da Brescia, siamo arrivati in auto passando per Milano. Col treno era più semplice, ma non volevamo vincoli di orario e volevamo visitare la mostra di arte moderna a Rivoli.
Il problema a Torino, se si arriva con l'auto, è circolare sui vialoni: teoricamente facile, praticamente ci vuole un "trucco" per svoltare a sinistra: ovvero, andare nella corsia extravialone di destra, svoltare a sinistra e poi immettersi nell'altra corsia extra vialone opposta...talvolta funziona, poi ci sono le eccezioni...
Comunque, ottimo l'albergo vicino alla stazione Art Hotel Boston Via Massena 70, 110 euro la doppia + 15 euro di parcheggio a notte, che è è una galleria d'arte ...ottima colazione e tranquillità.
Vista la bella giornata, abbiamo passeggiato al parco del Valentino e visitato il "borgo medievale" lasciato dall'esposizione del 1880, per poi visitare il bellissimo museo del cinema presso la mole antonelliana.
Anche rilassante...sulle chaises longues del grande tempio, mentre osservavamo una bella selezione di balli nella storia del cinema, ci siamo anche fatti una dormitina....Il museo merita il viaggio, e anche un ritorno.
A Torino è pieno di pasticcerie e cioccolaterie, buone per continue soste.
Stavolta niente visite gastronomiche particolari, da segnalare comunque: evitare la farinata e la pizza in una strada vicino al Valentino, untissime; ok il gelato da Grom, vicino alla stazione, via Paleocapa 1/d, e utile e buono il self service lì vicino.
Il giorno dopo, domenica, visita al castello di Rivoli, appena fuori Torino. Il castello non è granchè, ma è stato trasformato in museo di arte moderna, con bella permanente. C'era una bella mostra temporanea di Gianni Colombo, che non conoscevamo.