domenica 29 novembre 2009

gambero rozzo: verona "al solito posto"

Il locale è carino, a due passi dalle arche scaligere (bellissimo il confronto fra quella restaurata, magnifica, e quella corrosa da restaurare).
I proprietari oggi evidentemente erano in giornata no (pochi clienti anche se sabato?) e quindi niente particolari cordialità.
Abbiamo preso le specialità consigliate dal "Gambero rozzo", ma i bigoli all'amarone e uvetta con scaglie di grana erano...sommersi dal grana che asciugava il tutto e copriva il sapore. Il baccalà era molto buono, ma accompagnato da una fetta (tagliata a carrè) di polenta che aveva l'aria del subito pronto hard discount.
Il buffet di verdure era molto ricco.
Bicchiere di lugana buono..
Voto: 6, 7 sulla fiducia per una prova d'appello



lunedì 23 novembre 2009

registrazioni

Verrà il giorno in cui il cd su cui è registrato ogni nostro pensiero, ogni ricordo e ogni immagine della nostra vita, sarà illeggibile per mancanza di lettori di cd; allora forse qualcuno prenderà quel dischetto, che è in effetti la nostra anima, e lo adopererà come sottocoppa per la tazza da tè o per il vaso di fiori.
da: Benvenuti nella società delle registrazioni di Maurizio Ferraris il sole 24 ore 8 novembre 2009

venerdì 20 novembre 2009

Rubare i sogni

LE AVETE RUBATO I SOGNI
Poco più di un anno fa, quando facevo ancora il
procuratore della Repubblica, è arrivata nel mio ufficio
una ragazzina. Faceva il IV anno di Giurisprudenza e mi ha
spiegato che voleva scrivere una tesi sulla lentezza dei
processi penali in Italia (cause e possibili soluzioni); e che
cercava informazioni sul campo, intervistando magistrati e
avvocati.

Io l’ho guardata un po’ meglio e ho capito che
tutto era meno che una ragazzina. Poi ha tirato fuori un
registratore e abbiamo parlato per non so quanto tempo;
era così acuta e determinata, così pronta a identificare
l’essenziale di ogni problema, che le ore sono volate.
E’ andata via ringraziandomi garbatamente. Un anno dopo
mi è arrivato un grazioso bigliettino (da ragazzina) su cui
era scritto “è solo una tesi …” e una pen drive che la
conteneva. Sì, era solo una tesi; molto ben scritta e
drammaticamente accurata. Poi l’ho dimenticata: quello
che lei aveva scritto lo conoscevo fin troppo bene; e ciò che
mi divideva da lei era la meditata sfiducia nelle “possibili
soluzioni”, tanto più “impossibili” quanto semplici ed
efficaci.
Qualche giorno fa la ragazzina mi ha mandato una
e-mail: “Si ricorda ancora di me?”, era l’oggetto. Mi
ha raccontato che fa la cameriera in un paese straniero
dove cerca di “imparare una lingua che a scuola non ho mai
studiato” e dove frequenta un master in materie che “non
hanno nulla a che fare con i miei sogni di bambina”. Io lo
sapevo quali erano i suoi sogni: voleva fare il magistrato. Mi
aveva detto, mentre discutevamo della sua tesi, che voleva
servire il suo paese. Adesso, mi ha scritto, non sogna più;
adesso ha capito che “non potevo sprecare la mia vita per
salvare un paese che non vuole salvare se stesso. Che non
avrei potuto passare la vita ad applicare leggi espressione
di un Parlamento che non mi rappresenta: che dei
delinquenti potessero promulgare leggi che facciano in
modo che la giustizia funzioni sarebbe stata un’illusione
alla quale nemmeno la grande sognatrice che ero poteva
c re d e re ”. Così, ha scritto, ha deciso di “s c e n d e re ”; e se ne è
andata. Adesso studia e lavora in un altro paese, lontana
dai suoi affetti e dai suoi
luoghi. E’ – così si è definita –
“una piccola fuoriuscita” che
ogni giorno legge, con altri
come lei, il Fatto, ingoiando
una rabbia che l’essere scesa
dalla giostra non
ammorbidisce. “Poi – mi ha
scritto – ci sono giorni come
oggi, quando il professore ti
prende in disparte e ti chiede:
‘What the hell is happening in
Italy?’. Questi sono i giorni in
cui non mi importa di essere
una straniera che fa fatica a
trovare il suo posto nel mondo,
tutto quello che so è che sono
felice di essere scesa”.
Adesso non credo che io e
molti altri come me potremo
dimenticarla; non lei e
nemmeno i “piccoli
fuoriusciti” suoi amici. E ora
che ho finito di raccontare di
Paola, vi chiedo: vi rendete
conto di cosa avete fatto a
una ragazzina?
di Bruno Tinti, il fatto, 20 novembre 2009

lunedì 16 novembre 2009

L' uomo e il camoscio quel poetico duello come Moby Dick

Recensione di “Il peso della farfalla” di Erri De Luca – Feltrinelli, 72 pp 7,50 euro

Paralleli in tutto, anche nel presagio di morte. Cacciatore e camoscio, il re dei bracconieri e il vecchio capobranco. Due campioni a fine carriera, uniti nella sfida come Achab e il Leviatano, ma stavolta senza il demonio dentro.

Non c' è spazio per l' Orrore sui monti scintillanti di novembre, tempo di morti per gli uomini e di amori per gli animali del bosco, quando terra e cielo si avvicinano. Racconto montanaro scabro, levigato come ciottoli di fiume, con una prosa "orale" sul filo dell' endecasillabo, questo di Erri De Luca, Il peso della farfalla (Feltrinelli). Storia spremuta dagli scarponi e dall' andatura, dalla pioggia e dai silenzi di quota, dalla grandine vetrata e dalle stelle d' inverno che scendono come briciole dal cielo. E' quello, ci dice lui stesso, «l' albume, la proteina della scrittura». Metafore che salgono dai piedi, non scendono dalla testa.
Il vecchio re dunque. Fiero, solitario e imbattuto, un campione come non s' era mai visto, con una farfalla bianca che sventola a bandiera sopra il corno sinistro. In basso, le sue femmine in estro, odore buono di mandorla che esce da una ghiandola sul collo, il grembo che si prepara a covare nuove creature «nel punto più salvo e più caldo dell' inverno». E i figli inquieti, maschi concorrenti, «usciti dalla spinta dei suoi fianchi».
Dall' altra parte l' uomo, fucile 300 Magnum con pallottola da undici grammi, «ladro di vita indomita e sovrana, lasciata incustodita sotto il sole dal padrone di tutto». Il cacciatore, bandito ma protetto dalla comunità, imprendibile dai guardiacaccia, arrampicatore provetto proprio perché arrampicare non è il suo scopo. Alpinista al contrario, che disperde le tracce anziché lasciarle.
Tra i due un corteggiamento mortale, un inseguimento che parte da lontano, anni prima, quando la bestia col fucile uccide la madre del re ancora bambino. Il camoscio la sente tornare, nel sole di novembre, prima che «la saracinesca dell' inverno» sigilli nuovamente il mondo alpino. Sente salire dal basso l' odore inconfondibile di «grasso rancido che nessuno sterco può mascherare». L' odore dell' uomo. E l' uomo sale, in silenzio. E' ancora forte, ma sente in bocca il presagio della fine, avverte che quella sarà la sua ultima caccia.
Anche il vecchio camoscio imbattuto sente per la prima volta la vita volargli via, ma segue il nemico da lontano, gli gira attorno, disegna arabeschi sui ghiaioni senza far cadere una pietra. La gravità, per lui, non è una legge ma «una variante sul tema». La sua discesa è un arpeggio. Il suo salto «un rammendo fra bordi, un punto di sutura sul vuoto». Entrambi, con i sensi affilati dall' esperienza, vanno dove altri non osano, si cercano in campo aperto per bruciare in simultanea la loro ultima stagione di supremazia. Entrambi hanno imparato non a ripararsi ma a vestirsi degli elementi: vento, neve, pioggia, folgore. Ma l' uomo, a differenza dell' animale, pensa al futuro. Non vive il «qui e ora». Il cacciatore è attanagliato dal futuro e dai presagi, non si accorge che il presente è sopra di lui, perché il camoscio, in silenzio, lo ha raggiunto alle spalle e lo domina. Si volta appena in tempo. Quello che gli piomba addosso per incornarlo non è un animale, ma una furia scatenata, «vento vestito di zampe e di corna». E allora che il re, fallito il colpo per un nulla, raggiunte le sue femmine, si gira verso il nemico e si immobilizza in cima a un masso come un monumento a se stesso.
Uno sparo ed è finita; il monarca dalle corna a uncino resterà imbattuto per sempre. Così i ruoli s' invertono: è il camoscio ad aver vinto, mentre l' uomo capisce che la sua è una sconfitta. La bestia col fucile si inchina davanti a quel corpo enorme, vuole solo il suo trofeo di corna, ma non può accettare che il re finisca con gli occhi beccati dai corvi, così se lo carica sulla schiena con uno sforzo immane, arranca su per un ghiaione per nasconderlo sotto un nevaio e seppellirlo l' estate seguente. Ma il cuore non regge.
E quando la bianca farfalla del re torna a posarsi sul corno sinistro, quel peso da nulla in più è determinante e lo schiaccia. I due corpi saranno trovati insieme da un boscaiolo, dopo «un inverno di neve gigantesca», e insieme saranno sepolti in montagna. Seguiva i boscaioli, il re dei camosci, per mangiare dagli alberi appena abbattuti l'inarrivabile ciuffo che sta sulla cima degli abeti. Stava lì il concentrato ultimo della vita della pianta. Era quello il segreto della forza del re.
Ed ecco che la storia del duello — più pagana che biblica — ne produce una seconda, più breve, per gemmazione, dedicata appunto a un albero. Un cembro contorto sui monti di Fanes, un eroe piantato sopra il vuoto.maestro di eleganza e di silenzio. Un figlio della terra e del cielo, nato dove la folgore un giorno ha marcato l'abbraccio nuziale fra i due.
E' con simili campioni solitari che vale la pena di restare, finché s'accende la prima stella della sera. Ed è qui che il cerchio magico si chiude tra uomo, albero e animale.

PAOLO RUMIZ
Repubblica — 14 novembre 2009 pagina 42 sezione: CULTURA

domenica 15 novembre 2009

decrescita felice

Decrescita, non medioevo
Non vuol dire ritorno al carro e alla candela, né ripudio per la tecnologia. Vuole dire rallentare questa corsa impazzita
di Maurizio Pallante

Il periodo che stiamo vivendo è caratterizzato da diverse forme di crisi: economica, ambientale, sociale, finanziaria, spirituale.
I rimedi che si propongono sono però sempre gli stessi, a partire da un improbabile rilancio dei consumi. Oggi tutti parlano di crisi, ma nessuno si prende la responsabilità di affermare che, ormai, l’unica via per uscirne è modificare l’approccio che noi tutti stiamo avendo non solo con l’economia, ma anche con la realtà.
Nessuno si prende la briga di dimostrare che la soluzione sta nel cambiare l’uso che si fa della tecnologia, il tipo di partecipazione politica e i propri stili di vita. Il termine “decresci ta ” nasce in ambito economico, come ferma contestazione al concetto di crescita economica illimitata (impossibile in un ambiente limitato) ed al Pil come metro di misura del benessere (il Prodotto interno lordo, infatti, cresce anche quando si comprano armi o psicofarmaci, o semplicemente quando si resta imbottigliati per ore nel traffico a respirare gas di scarico), per poi passare in ambito filosofico, come proposta di un nuovo paradigma culturale che ci liberi dalla schiavitù del produttivismo forsennato che ci ha attanagliati in particolare negli ultimi decenni. E che ci ha portato all’attuale situazione di “crisi” (economica, occupazionale, ambientale, sociale, climatica) causata dal mito della crescita economica e dell’aumento del Pil.
Il Movimento per la Decrescita Felice si pone quindi lo scopo di introdurre nel dibattito politico il tema, appunto, della decrescita economica.
Attenzione: decrescita non vuol dire ritorno al carro e alla candela, né tanto meno ripudio per la tecnologia. Vuole semplicemente dire rallentare questa corsa impazzita che ci sta portando (se non lo ha già fatto) al punto di non ritorno.
Vuole tornare a parlare di qualità, piuttosto che di quantità, a dare valore a cose che ne hanno perso troppo negli ultimi tempi, a partire dall’ambiente fino ad arrivare alle relazioni umane.
Felice perché unire l’attuale livello culturale a certi usi imprudentemente abbandonati ci potrebbe portare a migliorare notevolmente la qualità della nostra vita. Addirittura diminuendo la quantità di denaro necessaria a farlo.
Decrescita non è sinonimo di recessione, ma una presa di coscienza e, conseguentemente, una scelta di vita. È un ritorno alla semplicità, da non confondere appunto con il dramma di chi, all’improvviso e senza nessun mezzo per farvi fronte, si trova disoccupato a causa della famigerata crisi occupazionale dovuta alla succitata recessione.
La decrescita è come mettersi a dieta per motivi di salute, la recessione è morire di fame perché non si dispone più di cibo.
La felicità dovrebbe essere intrinseca al discorso della decrescita, perché da sempre le cose più semplici e più genuine sono quelle che danno più gioia. Anche a coloro i quali si sono ormai convinti che non sia così.
Il Movimento per la Decrescita Felice, per quanto riguarda la tecnologia si fa promotore di ogni tipo di soluzione che porti a un risparmio di energia, a un ridotto uso di risorse, a un allungamento della vita utile di ogni tipo di oggetto e, ovviamente, a una riduzione della produzione di rifiuti.
A livello politico collabora con enti locali e liste civiche in tutto il paese, fornendo “linee guida” che possano aiutare ad orientarsi meglio tutti coloro che hanno a cuore la gestione del proprio territorio, ma che vogliono fare politica al di fuori delle istituzioni esistenti.
Riguardo agli stili di vita, invece, la migliore risposta alla crisi arriva dalla nascita, sempre al suo interno, dell’Università del Saper Fare, primo grande collettore italiano di conoscenza e scambio per l’autoproduzione.
È chiaro che ci sono beni che non si possono né autoprodurre né scambiare (occhiali, computer, visite mediche specialistiche etc, da procurarsi sottoforma di merci), ma appunto capiamo che la sfera mercantile è sì necessaria, ma non “necessariamente” invasiva e totalizzante come la nostra società, che si basa sul mito della crescita, ci ha praticamente costretto a credere.
Ciò può essere un rimedio all’attuale crisi economica, sociale e ambientale, perché risparmiare energia e risorse, o smettere di acquistare merci (spesso dalla dubbia utilità) che finiscono in tempi sempre più brevi nella spazzatura, vuole dire risparmiare denaro. Aumentare la nostra capacità di badare a noi stessi, sia attraverso l’autoproduzione della maggior quantità possibile di beni, sia grazie alla riscoperta del dono e della reciprocità (e quindi della convivialità), può non solo emanciparci dall’economia di mercato evitandoci di dover lavorare sempre di più per guadagnare sempre di più per consumare sempre di più, ma può anche portarci ad avere di meglio con molto meno.
La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione.
La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi le persone dal ruolo di strumenti della crescita economica e ricollochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio. Perché tutto è possibile: una nuova economia, un nuovo approccio con la realtà, un rinnovamento delle classi dirigenti. L’unica cosa che non è possibile continuare a fare, per quanto a molti possa dispiacere, è crescere all’infinito, o anche solo pensare di poterlo fare.
www.decrescitafelice.it

Da: il fatto , 15 novembre 2009

venerdì 13 novembre 2009

Gli effetti del cellulare sul nostro cervello

Un nuovo studio condotto in Svezia rileva un cambiamento biologico in seguito all'esposizione prolungata ai dispositivi senza fili
Per la prima volta misurata una modificazione biologica nel liquido cefalorachidiano associata all'uso prolungato di telefoni wireless (Lapresse)
MILANO - Per ora l'unico dato certo è che producono un effetto biologico sul nostro cervello. Non è ancora chiaro se ciò comporti anche dei rischi, ma viene comunque consigliato di usare con la massima accortezza (e tutte le precauzioni del caso) telefonini e altri dispositivi senza fili.


GLI EFFETTI - Da uno studio condotto dall'Università di Örebro in Svezia è emersa una forte correlazione tra l'uso dei cellulari e una proteina contenuta nel liquido cefalorachidiano, responsabile tra le altre cose di proteggere il cervello dalle influenze esterne. L'utilizzo intenso di dispositivi wireless tende a far crescere il livello di questa proteina (la transtiretina) nel sangue.

PRUDENZA - I ricercatori consigliano ancora prudenza nell'interpretazione di questi dati. Non è del tutto chiaro se l'aumento della proteina debba essere considerato un segnale di rischio per la nostra salute. Ad ogni modo, c'è ora evidenza scientifica che i cellulari producono un cambiamento biologico nel nostro cervello che, per auto-difendersi dal flusso costante di segnali wireless, tende a produrre in quantità maggiore transtiretina.

MAL DI TESTA - Una seconda parte dello studio si è focalizzata anche sui sintomi che bambini e adolescenti associano all'uso regolare dei cellulari. Sono stati rilevati mal di testa, disturbi asmatici e problemi di concentrazione. Anche in questo caso, però, è ancora troppo presto per arrivare a delle conclusioni: «È necessario svolgere ulteriori accertamenti per escludere la presenza di altri fattori».

PRECAUZIONI - In attesa di avere dati più certi sui rischi, è comunque consigliabile adottare alcune precauzioni. Solo il 2% dei bambini e degli adolescenti, ad esempio, utilizza gli auricolari. «Il che è preoccupante - sottolineano i ricercatori svedesi - Non sono stati ancora chiariti gli effetti sul lungo periodo dell'esposizione alle onde elettromagnetiche. Al momento si prende in considerazione solo il riscaldamento prodotto dai cellulari (il cosiddetto "effetto termico"). Ma potrebbero esserci altri fattori indipendenti dal riscaldamento di cui potremmo renderci conto solo dopo molti anni».

Corriere della sera
Nicola Bruno
12 novembre 2009

giovedì 12 novembre 2009

gli intoccabili

Dal famoso film “Gli intoccabili”. Dopo l’incredibile e inaspettata
condanna, Robert De Niro, nelle vesti di Al Capone si
rivolge alla giuria e al giudice urlando inferocito: “Signor
giudice, ma che democrazia è questa?!!! Ma che cos’è questa
storia!!! Avvocato dì qualcosa!!! Avvocato!!!!!

lunedì 9 novembre 2009

Colin Beavan a impatto zero

ECOLOGIA
Colin Beavan ha vissuto un anno nel rispetto più rigoroso dell'ambiente: e l'ha fatto a Manhattan. Ora in un libro, un blog e un documentario, racconta l'equazione - rifiuti + felicità


PAPA' A IMPATTO ZERO
Quattordici tazze da caffè in plastica, due in carta e quattro in polistirene. Diciannove tovagliolini e quattordici borse di carta, posate (mai usate) e tre contenitori di cibo d'asporto di plastica, più quattro d'alluminio e uno in carta rinforzata per le patate fritte. Tre fogli di carta stagnola e due scatole di cartone per l'imballaggio di due lampade. Ci fermiamo qui. Lasciamo incompleto l'inventario dei rifiuti di quattro giorni di vita quotidiana di una famiglia di tre persone a Manhattan: fuori resterebbero i pannolini della bambina e gli alimenti andati a male.
La famiglia in questione è quella di Colin Beavan, scrittore e attivista verde, che, imbarazzato di fronte a questa sua collezione meticolosa e molto anti-ecologica, ha deciso, in un impeto di coerenza personale, di limitare lo spreco, buttando stavolta nella spazzatura un intero stile di vita. Come ha fatto? Lo racconta nel libro (in carta riciclata) No Impact Man, appena uscito negli Usa da Farrar, Straus and Giroux, cronaca dettagliata di un anno vissuto senza creare impatto sul pianeta. "Non è la spazzatura in sé a farmi pensare", scrive l'autore, "ma il fatto di buttare via cose usate per meno di cinque minuti".
Quale strategia adotta ora per salvare la Terra? In sintesi, riduzione radicale dei consumi ed eliminazione drastica dello shopping, eccezion fatta per i prodotti alimentari locali. La fatica è tanta e la conclusione singolare: rinunciando a tutto si è più felici. Il concetto non è inedito, ma il paesaggio circostante lo è, la città dalle mille luci, seppur ridotte per via della recessione: sostituire le candele alle lampadine è stata lì una sfida dura, solitaria e improbabile.
Colin Beavan ci ha provato lo stesso. Ne nascono il libro e una organizzazione no-profit. Viene anche girato un documentario di 90 minuti che ritrae
la trasformazione verde della famiglia giorno dopo giorno, diretto da Laura Gabbert e Justin Schein, poi presentato al Sundance Film Festival.
Il suo blog NolmpactMan.com viene nominato da Time tra i 15 siti ecologici più autorevoli, il New York City's Lo-wer East Side Ecology Center lo incorona Eco-star 2008, l'HuffingtonPost ora sponsorizza le No Impact Weeks, per chi vuole tentare un approccio ecosostenibile alla Terra. Incontriamo Beavan nella libreria Barnes & Noble di Tribeca, Manhattan.
È con la moglie Michelle e la figlioletta Isabella (il cane Frankie è rimasto a casa), coprotagoniste dell'esperimento.
Non solo niente luce elettrica, ma nemmeno ascensore, auto, mezzi pubblici, cibi dei supermercato, televisione, riscaldamento e carta igienica.
Che tipo di felicità ha trovato? «Vorrei chiarire subito che io non predico l'ascetismo e la rinuncia. Semplicemente mi sono chiesto se esaudire certi desideri porti la felicità. Mi riferisco a quello che gli psicologi positivisti chiamano "la ruota edonistica".
Comprare un nuovo cellulare, un televisore, un'altra casa, procura un piacere immediato ma temporaneo. Così, per rinnovare la sensazione di felicità dobbiamo acquistare ancora. La felicità si incontra invece interrompendo questo ciclo. Le relazioni sociali, le aspirazioni personali, la dedizione a una attività, sono la vera soddisfazione».
Come viveva prima? «Come tante persone a New York. Lavorando e consumando. La nostra giornata tipo cominciava svegliando, cambiando e sfamando la nostra bambina. Il consumo di un pannolino e una bottiglia di latte in plastica. Un veloce giro intorno all'isolato per far camminare Frankie, usando un sacchetto di plastica per pulire i suoi bisogni. Colazione al caffè all'angolo (anche lì, carta o plastica). Accompagnare Isabella dalla baby sitter, andare al lavoro producendo le relative emissioni di gas con i mezzi di trasporto. Tornare a casa, farsi recapitare la cena da un ristorante della zona (altre emissioni, carta, plastica). Un'ora di tv (spreco di energia). Un altro giro con Frankie. Non c'era il tempo per fare la spesa, preparare da mangiare e stare insieme a tavola. Da quando abbiamo iniziato l'esperimento, abbiamo imparato a gustarci una cena casalinga, senza l'invadenza del video. Questo è stato uno dei punti a nostro vantaggio e a vantaggio dell'ambiente». Sua moglie come ha vissuto questa esperienza?
«Ha imparato a mangiare sano. Ha smesso di acquistare abiti od oggetti inutili in maniera compulsiva. Ha ritrovato la forma fisica, girando a piedi o in bicicletta e salendo nove piani di scale per arrivare al nostro appartamento, più volte al giorno. Anche il nostro rapporto si è arricchito. Abbiamo trovato le occasioni per stare insieme condividendo un'avventura impegnativa. E mia figlia ci ha aiutati, perché ha affrontato la situazione con la leggerezza di un gioco. Se il regolamento ci imponeva di non usare più la luce elettrica, Isabella si divertiva ad accendere le candele, come se fosse un normale cambiamento. Mi chiamava No Impact Daddy!». Quindi non eravate felici prima? «No, non molto. Gli Usa sono i maggiori responsabili della crisi ambientale e i maggiori consumatori del pianeta. Dovremmo essere il popolo più felice del mondo, invece non è così. A New York siamo tutti infelici, lo lo ero, i miei amici lo erano, o lo sono tuttora. Ero la classica persona che pur di sentire il fresco in casa al ritomo dal lavoro lasciava l'aria condizionata accesa tutta la giornata.
Oggi a chi rivendica la libertà di fare scelte diverse, rispondo chiedendo: ha senso spendere metà dello stipendio per mantenere un'auto? È questa la libertà? Sono convinto che possiamo cambiare le nostre cattive abitudini. È come smettere di fumare». Terminato l'esperimento, quali buone abitudini avete mantenuto? «Continuiamo a non guardare la tv. Il frigorifero funziona di nuovo, non il congelatore. La lavastoviglie si è rotta e non ne abbiamo comprata una nuova. Continuo a usare la bicicletta, ma ho preso qualche taxi, qualche aereo, e viaggio in metropolitana, se piove. Se vogliamo fare una cosa la facciamo.. Per esempio, pur continuando a non mangiare carne, nostra figlia a un certo punto ha annunciato di non voler più essere vegetariana. Le abbiamo dato del tacchino per il giorno del Ringraziamento. Ne ha assaggiato un pezzo, poi ha chiesto del formaggio». Per dire: come viaggia il suo libro per raggiungere le librerie? «Ovviamente è una contraddizione e un problema. Il punto è capire come usare al meglio le risorse anche a costo di qualche compromesso. Credo che far giungere il messaggio del mio libro sia prioritario. Ci tengo però a sottolineare che il volume è fatto al 100% di carta riciclata senza clorina, composta usando energia generata da biogas».
di Francesca Gentile repubblica delle donne 31 ottobre 2009

L'arduo sentiero dell'amicizia

Scrive Platone: Se uno, con la parte migliore del suo occhio, che noi chiamiamo pupilla, guarda la parte migliore del’occhio dell’altro,vede se stesso” (Alcibiade I, 133a)
E l'amicizia? Che fine ha fatto? Si è dissolta, forse si è nascosta, oppure è un sentimento in via di estinzione? In quest'assurda società, carica di valori inconsistenti, che posto occupa l'amicizia?
Non solo, ma aggiungo - forse, con uno spietato senso della realtà - c'è ancora posto per l'amicizia o è stata surrogata da brutte copie di un sentimento che non s'incontra più? Ci sarebbe tanto da dire sul tema in questione, stranamente ancorato alla nozione di tempo che tutti noi abbiamo a disposizione - e che si assottiglia sempre di più - lasciando invero pochi brandelli per quel valore aggiunto che dovrebbe arricchire a dismisura ogni essere umano e che viene invece evitato con fastidio, quasi fosse viziato da un insospettabile retrogusto amaro che di conseguenza ci fa desistere dal valorizzare. Nella vita sciatta di tutti i giorni, noto con triste ripetizione lo sbandieramento quasi sfrontato (e a tratti cafone) di inutili trofei, segno dei tempi, ma non sarebbe più bello se tutti noi potessimo mostrare tanti amici come tratto distintivo di vera ricchezza? Antonio Ludovico, avvocato studlolegalelutlovlco@gmaH.com

Più la società diventa di massa - o nella forma di quella solitudine che ci incolla davanti a un computer vittime di una bulimia affettiva, per cercare non tanto amici quanto riconoscimenti della propria identità che non sappiamo dove altro reperire, o nelle adunate di massa in occasione dì concerti, o davanti a teleschermi per i grandi eventi, o per applaudire parole che confermano le idee che già abbiamo o la fede che già possediamo - più l'amicizia diventa difficile e impraticabile. A meno di non intendere con questa parola amori che non si ha il coraggio di intraprendere, rapporti coniugali resi esangui dall'abitudine, conoscenze utili a scambi di favori, relazioni un po' ipocrite e un po' convenzionali nella speranza che un giorno possano tornare vantaggiose.
Oggi conosciamo solo il singolare e il plurale. Così vuole la nostra grammatica. Nel singolare incontriamo la solitudine dell'anima che vagheggia mondi e ideazioni, che mai avremmo il coraggio di rivelare in pubblico, che si inabissa in dolori che la buona educazione ci induce a non manifestare, che si esalta in entusiasmi che sfuggono a ogni misura e moderazione. Al singolare conosciamo quello che nel pubblico verrebbe rubricato come eccesso o follia. Anche se è proprio questa follia a darci vita, senso e spessore. Al plurale dobbiamo dar prova di sano realismo che ci chiede di stare ai fatti, di controllare le emozioni, di misurare le parole, di essere più una risposta agli altri che propriamente noi stessi. E tutto questo per essere accettati, riconosciuti, identificati, e nei casi estremi persino applauditi. Ma l'amicizia disabita il singolare e il plurale, perché conosce unicamente il duale, con cui gli antichi Greci coniugavano le loro forme verbali quando il discorso era fra due, carico di quella valenza simbolica del linguaggio che ben conoscono gli innamorati in quel breve periodo in cui non riescono a concepire se stessi senza l'altro. Tra l'anonimato del pubblico e la solitudine del privato, l'amicizia, che abita il duale, consente di comprendere tutte quelle eccedenze di senso che segreto la nostra anima crea. Eccedenze che in pubblico potrebbero apparire come segni di follia, mentre nell'ascolto accogliente dell'amicizia possono dirsi e, invece di restare soffocate e inespresse, svelare la nostra intima verità. Per questo, penso, non si possono avere molti amici, come invece lei si augura, ma solo quei pochissimi che corrispondono alle sfaccettature della nostra anima, a cui svelare il nostro segreto che l'altro segretamente custodisce. Non per confidarci o cercare consenso o conforto, ma per vedere che cosa nella comunicazione duale il segreto ha da svelarci. Silenziosamente, a poco a poco, incontro dopo incontro. Perché così chiede il ritmo dell'anima, che vuol dirsi e insieme custodirsi, per non spegnere le sue creazioni e nello stesso tempo non disperderle nel rumore del mondo. Se questa è l'amicizia, la nostra cultura, che conosce solo l'anonimato del pubblico e la solitudine del privato, non è la più idonea a favorire quell'incontro a tu per tu con quello sconosciuto che ciascuno di noi è diventato per se stesso, e che lo sguardo accogliente dell'amico potrebbe incominciare a raccontare e a delinearne i contorni. Perché in fondo è la scoperta di noi quello che l'amicizia favorisce e propizia.
Umberto Galimberti, repubblica delle donne, 31 ottobre 2009

domenica 8 novembre 2009

Due cacciatori stanno camminando nel bosco....

Uno psicologo inglese dell'Università dello Hertfordshire ha stabilito qual è la barzelletta considerata più divertente: «Due cacciatori stanno camminando nel bosco. Uno dei due cade a terra, privo di sensi. L'altro chiama il soccorso sanitario: "Il mio amico è morto.
Cosa devo fare?". Il medico risponde: "Prima di tutto si accerti che sia morto davvero".
In sottofondo si sente uno sparo.
"Ok" riprende il cacciatore "e adesso?"».