lunedì 31 agosto 2009

il valore delle cose e l'eticità

Intervento di Giorgio Gregori sul blog "accordo.it", a proposito delle contraffazioni di chitarre

La settimana scorsa su "repubblica" c'era un articolo sulla civiltà del consumismo, nella quale ad un certo punto si perde la cognizione del valore delle cose e si passa invece ad un "prezzo" totalmente sganciato dal valore.
Sul "prezzo" e sul valore delle chitarre ci sarebbe molto da discutere, in particolare sulle contraffazioni: il problema non è solo la specuzione del marchiare "gibson" una splendida copia della stessa.
Che è cosa diversa dal "valutare" quanto vale, in soldoni, quella copia, che magari è bella come l'originale, suona magari uguale - spesso sono le dita che fanno la differenza, non le vernici.
Tradotto, cosa voglio dire: oggi esistono sul mercato splendide produzioni cinesi a prezzi bassissimi, qualitativamente eccellenti. Il problema dei prezzi bassissimi non è nella qualità del materiale, ma nelle tutele dei lavoratori: se la loro paga è bassa, e non ci sono protezioni adeguate (ad esempio nella verniciatura) e nella fabbrica inquinano l'ambiente, il prezzo basso deriva da questi risparmi o sfruttamenti.
Il fatto è che tutti, giustamente, vorremmo comperare ottime "cose" al prezzo più basso, e difficilmente allegato alle "cose" troviamo un certificato che attesti l'"eticità" della produzione (che è cosa diversa dall'onestà di chi vende copie contraffatte). E con questo chiamo in causa TUTTE le varie marche, più o meno blasonate, che producono in usa come in cina o in vietnam.
Sarebbe interessante fare una lista dei produttori "eticamente virtuosi", rispettosi dell'ambiente e dei diritti dei lavoratori, oltre che bravi.....

Come vivere al tempo del capitalismo con lo sconto

Abbiamo appreso attraverso esperienze dolorose che un mondo cheap - dove il cibo costa sempre meno, la benzina è a buon mercato, il credito bancario sembra erogato a tassi generosi, è un mondo dove anche le donne e gli uomini valgono sempre meno».

NEW YORK Qual è da molti anni la prima destinazione assoluta degli americani in vacanza? Non è Parigi né Roma, non il Messico e neanche i Caraibi. Sono gli outlet, i centri commerciali dove si vendono prodotti di griffe superscontati. E' un sintomo dell' ossessione nazionale per i saldi, gli sconti, le liquidazioni, i prezzi stracciati, la gara a chi offre sempre di più per sempre meno, una vertiginosa corsa al ribasso.
E' il capitalismo «cheap», nel doppio senso di «poco caro» ma anche «scadente».
Cheap: l' alto costo della cultura dello sconto è il saggio-inchiesta di Ellen Shell, docente alla Boston University, che Richard Bernstein sul New York Times celebra come una lucida diagnosi delle patologie del consumismo made in Usa. La rincorsa al costo più basso possibile in America ha raggiunto degli estremi sconosciuti nel resto del mondo: la sola catena di ipermercati WalMart, se fosse uno Stato-nazione, sarebbe il decimo partner commerciale della Cina.
«Cheap» è decadimento generale di qualità, valori, professionalità: i supersconti praticati da Wal-Mart si traducono in bassi salari, impoverimento di conquiste sociali, inquinamento e sprechi. I mutui subprime e la benzina sono altri esempi di un cheap solo apparente, che si prende vendette feroci sul debitore o sull' ambiente.

Dalle fabbriche in rovina del Midwest impoverito dalle delocalizzazioni, alle desolanti cittadine nate attorno a uno shopping mall come centro di vita sociale, la Shelldenuncia il volto nascosto della cultura cheape il modo in cui ha trasfigurato l'America.
Cominciando con un"outing" espiatorio, un'autodenuncia.
L'autrice confessa di essere lei stessa una vittima dell'irresistibile attrazione del cheap. «Questo legame pericoloso - dice la Shell -lo conosco perché lo vivo. In un mercato che straripa di beni abbondanti e apparentemente equivalenti, il prezzo diventa il criterio decisivo e finale. Io non resisto all'offerta compri-tre-pa-ghi-uno da Target, dove per 15 dollari mi porto a casa tre paia di slip. Non c'entra la virtù del risparmio, scatta qualcosa di ben più profondo. Il prezzo basso diventa un fine in se stesso, dà un senso di vittoria. Ahimé, è solo un'illusione. Intanto ci riempiamo le case di roba inutile: cantine, soffitte, garage sono intasati di cataste di oggetti che abbiamo perfino dimenticato di possedere, dopo la voluttà momentanea dell'acquisto».
La Shell si è fatta guidare da esperti di psicologia e studiosi di marketing per smascherare un'impostura: nulla è veramente economico, perché noi consumatori non abbiamo un'idea di quanto costi quel che compriamo. La politica dei prezzi usata dai colossi della grande distribuzione è una raffinata manipolazione della psiche umana, un malefico gioco delle illusioni.
Donald Lichtenstein, professore di marketing all'università del Colorado, ha analizzato come la posizione dei prezzi nel menu di un ristorante influenza ciò che mangiamo. La neuropsichiatria ha scoperto che l'aspettativa di un "buon affare" fa scattare una vera e propria tempesta di neuroni nei nostro cervelli. Le manovre sui listini e sulle etichette, gli annunci dei saldi e degli sconti, governano il nostro comportamento di spesa in modi che non sospettiamo neppure.
«In un supermercato -spiega Lichtenstein-è altamente probabile che noi acquistiamo un prodotto in offerta speciale anche se il prezzo scontato in realtà è inferiore al prezzo normale praticato da una catena concorrente. B' irrilevante, perché a far scattare la nostra voglia di acquisto è la visione della differenza esibita tra il costo pieno e quello ridotto. Nella mente umana quello sconto viene vissuto come un vero e pròprio guadagno».
E' la ragione per cui la proliferazione degli outlet fa leva sulle stesse molle psicologiche che spiegano l'eterno successo di Las Vegas: «L'orgia dei saldi in tutte le stagioni, degli sconti a volontà, ci dà l'impressione di poter sconfiggere l'industria e la grande distribuzione, così come la voluttà del giocatore è legata alla fiducia di poter sbancare il casinò».
Sul fronte del Big Business, il trionfo del capitalismo cheap ha coinciso con potenti cambiamenti nel paesaggio delle imprese. Dagli anni '90 in poi l'America ha subito una concentrazione senza precedenti nel settore distributivo. Migliaia di catene commerciali sono scomparse, fallite o inghiottite da un numero ristretto di giganti. All'inizio di questo decennio i dieci protagonisti dominanti della distribuzione ormai concentravano il 72% di tutte le vendite di moda, abbigliamento e accessori. Di conseguenza la politica dei prezzi è nelle loro mani.
Come rivela uno dei boss della grande distribuzione: "Il prezzo finale lo fissiamo noi e lo imponiamo alle due estremità: il produttore e il consumatore".
Le scelte dell'industria manifatturiera, sulla qualità e sui metodi di produzione, sui salari e sulle delocalizzazioni, sono dettate imperativamente da quel che impone il distributore. Le stesse griffe della moda che un tempo ritenevano di poter chiedere un sovrapprezzo grazie all'immagine di lusso dei propri prodotti, sono diventate schiave consenzienti della cultura cheap.
Gli economisti Anne Coughlan della Kellogg School of Management, e David Soberman dell'Insead di Fontainebleau, hanno studiato il fenomeno della proliferazione degli outlet. All'origine si trattava di spacci aziendali riservati ai dipendenti. Poi si misero a smerciare prodotti che avevano qualche piccolo difetto, scarti, o gamme fuori stagione. Adesso marche come Gap, Brook Brothers, Ralph Iauren, Donna Karan e Ann Taylor «producono direttamente per gli outlet, hanno creato delle linee di fabbricazione a minor prezzo e qualità inferiore, il culmine di quell'inganno di massa che sono i saldi 365 giorni all'anno».
Funzionale, indispensabile al capitalismo cheap è il suo corrispettivo finanziario: l'ipertrofìa del credito al consumo. 850 miliardi di dollari: è l'ammontare di debiti che gli americani hanno accumulato sulle loro Visa e Mastercard.
La Shell non nega che la corsa verso la riduzione dei prezzi ha avuto alle origini una funzione democratica, perfino rivoluzionaria. Il capostipite fu Henry Ford, che nel 1908 decise un taglio drastico nel prezzo di listino dell'autovettura più popolare, il Modello T. In un colpo solo passò da 850 a290 dollari, uno choc salutare che aprì l'era della motorizzazione di massa. Improvvisamente gli stessi operai che lavoravano alle catene di montaggio di Detroit furono in grado di comprarsi l'automobile, non era più un lusso per pochi.
Lo storico Charles McGovern sostiene che nella prima metà del XX secolo «gli americani iniziarono a concepire il consumo come una forma di cittadinanza, un rito fondante dell'identità nazionale. Nacque così una sorta di nazionalismo materiale che mise l'acquisto dei beni di consumo al centro della vita sociale». E' il fenomeno che un'altra storica, Lizabeth Collins di Harvard, ha battezzato «la Repubblica del consumatore». Di cui l'ultima reincarnazione è il fenomeno Wal-Mart, la simbiosi America-Cina, l'uso delle importazioni a basso costo che ha beneficiato i consumatori più poveri. «Ma ora quel modello ha toccato i suoi limiti-conclude la Shell-Abbiamo appreso attraverso esperienze dolorose che un mondo cheap - dove il cibo costa sempre meno, la benzina è a buon mercato, il credito bancario sembra erogato a tassi generosi, è un mondo dove anche le donne e gli uomini valgono sempre meno».
Quando il NewYorkTimes ha aperto un forum dei lettori sulle sfide dell'era Obama, un intervento ha colpito la Shell perché segnala l'attrazione di un nuovo modello di vita, il ritorno del consumo frugale. "Pretendo-ha scritto il lettore-di pagare più caro quello che compro . Voglio avere il diritto di spendere di più per avere un prodotto che duri più a lungo, che sia di qualità superiore, che non nasconda pericoli per la mia salute".

Federico Rampini
Repubblica — 25 agosto 2009 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA

Il telefonino come il pane

L'uso dei cellulari, infatti, è condizionato e incentivato da due aspetti. L'età e il livello di istruzione. I consumatori "pesanti" e al tempo stesso gli specialisti sono infatti i più giovani. Anzi: i giovanissimi. Gli adolescenti. I quali si distinguono dalle altre generazioni perché non usano il telefonino per telefonare. Infatti, è quasi impossibile coglierli mentre parlano con il cellulare all'orecchio. A differenza degli adulti che, armati di auricolare, per strada parlano da soli, in modo animato.


LA CRISI sta condizionando le strategie e i comportamenti di consumo delle famiglie. Al di là dell'impatto reale sul mercato del lavoro e sui redditi, ne ha ridefinito le priorità. Per cui non tutti i consumi sono stati ridotti nella stessa misura. Anzi: alcuni sono aumentati. In particolare: i telefoni cellulari. Le cui vendite sono cresciute del 15% nel 2008. Ma quasi del 200% negli ultimi 7 anni.

In altri termini: oggi i telefonini non sono più un consumo voluttuario, ma un bene di prima necessità. Di cui non è possibile fare a meno. Come il pane. Se il reddito si riduce, se le attese sul futuro prossimo sono grigie, allora le famiglie preferiscono tagliare altre spese. Risparmiano sui trasporti, sugli autoveicoli, sull'arredamento. Perfino su alcuni prodotti alimentari. Ma non sulle tecnologie della comunicazione. Sui telefonini, appunto. Ma anche sui computer, in particolare sui portatili e sui palmari.

D'altra parte, i telefonini di nuova generazione sono computer a ogni titolo. Servono a navigare su Internet, a controllare e a inviare la posta elettronica. E svolgono molte altre funzioni. Video e fotocamera, riproduttore musicale Mp3, navigatore satellitare. E, inoltre, sveglia, agenda. Perfino torcia elettrica. Tutto questo riassunto in un oggetto leggero e di piccolissime dimensioni. Portatile, appunto. E concretamente "portato" dovunque. Ci segue dappertutto, in ogni luogo e ad ogni ora. Visto che molte persone lo tengono acceso 24 ore su 24. Notte compresa. Lo appoggiano sul comodino, mentre si carica. Così da non perdere neppure una chiamata o un messaggio.

Chiamarlo telefonino, per questo, non è solo riduttivo, ma improprio. Non è un telefono più piccolo. D'altra parte, in quanto a diffusione, ha ormai sorpassato il telefono fisso. Lo possiede il 90% delle persone (circa il 20% più di uno). I gestori della telefonia mobile, d'altronde, offrono, con un solo contratto, non solo il telefono - a uso domestico e mobile - ma anche l'accesso a Internet (wi-fi) e alle reti televisive. Per questo la diffusione del telefono cellulare riflette, in realtà, il moltiplicarsi dei servizi che esso propone. Ma anche, soprattutto, il mutamento degli stili di vita e delle abitudini delle persone.

Anzitutto dei più giovani. L'uso dei cellulari, infatti, è condizionato e incentivato da due aspetti. L'età e il livello di istruzione. I consumatori "pesanti" e al tempo stesso gli specialisti sono infatti i più giovani. Anzi: i giovanissimi. Gli adolescenti. I quali si distinguono dalle altre generazioni perché non usano il telefonino per telefonare. Infatti, è quasi impossibile coglierli mentre parlano con il cellulare all'orecchio. A differenza degli adulti che, armati di auricolare, per strada parlano da soli, in modo animato.

I giovani, invece, messaggiano. Usano gli sms. Oppure segnalano la propria presenza ed esistenza agli amici con uno squillo muto. Una vibrazione, una schermata a colori personalizzata. E reagiscono ai messaggi degli altri subito. Dovunque essi siano. A casa, per strada, a scuola, in chiesa, al cinema, in riunione. Non importa. Il cellulare è sempre acceso e accessibile. Loro: sempre pronti a leggere i messaggi e a rispondere.

Negli ultimi anni, peraltro, la confidenza con il cellulare si è allargata anche agli adulti. Perfino a qualche anziano. E sono molte le persone che messaggiano. Dappertutto. Non solo: ricorrono agli sms per messaggi destinati a una larga cerchia di persone. Soprattutto in occasioni particolari. Festività, mobilitazioni, ricorrenze.

Si digita il messaggio, breve, e lo si invia alla lista - sempre più lunga - di numeri in agenda. Infine, l'accesso dei cellulari - in particolari i palmari - a Internet ha incentivato la possibilità di dialogo con gli altri (gli "amici" di una comunità elettronica) attraverso i social network. Come Facebook e soprattutto Twitter, concepito per essere consultato e aggiornato via sms. Quindi, con il cellulare.

Da ciò una ulteriore - decisiva - ragione che spiega la diffusione dei cellulari. A dispetto dell'andamento dei redditi e dei consumi. Riguarda il cambiamento sociale e culturale. I modi di comunicare e di stare insieme. E per questo coinvolge, per primi, i giovani più giovani. Demograficamente pochi. Protetti e controllati da famiglie pervasive. Vivono in un ambiente urbano devastato e informe. Frutto di politiche territoriali imposte dagli immobiliaristi.

Secondo logiche e interessi, ovviamente, immobiliari. I luoghi di incontro e di contatto fisico, per loro, si sono ridotti sempre di più. Non la domanda di stare insieme. Per cui hanno trasferito le relazioni dal territorio allo spazio tecnologico. I loro contatti non avvengono più - meglio: si verificano sempre meno - in un contesto di compresenza fisica. A casa, in piazza, sulla strada, a scuola, in oratorio.

Ma si realizzano, sempre più spesso, a distanza. Attraverso la rete e i cellulari. Così intrattengono relazioni sempre più frequenti. Sempre più fitte. E sempre più astratte. Sempre più personali e impersonali al tempo stesso. La società intera li segue, su questa strada. I fratelli maggiori. I genitori. Gli adulti. Si addentrano in questa terra senza terra. Dove gli altri sono un numero di cellulare o un indirizzo e-mail. Dove tutti comunicano senza vedersi e senza parlarsi direttamente. Nelle piazze e nelle comunità della rete. Proiettano la loro icona. Il loro avatar. Il loro profilo. E dialogano con altri avatar e altri profili. Un teatro di maschere. Un mondo di relazioni senza empatia. Dove il confine tra comunicazione ed esperienza, fra immagine e realtà: svanisce.

di ILVO DIAMANTI
La Repubblica, 23 agosto 2009

GOSLOW IL SALONE DEDICATO A CHI VA PIANO

A piedi si va ovunque e il divertimento inizia prima d'arrivare a destinazione.
GOSLOW IL SALONE DEDICATO A CHI VA PIANO
Elogio della lentezza

Monza Spazio eventi, Autodromo nazionale Dal 18 al 20 settembre Orario: 9-18.30 Tel: 039.832716 Web: www.bigsitaiia.it


Per andar sano e lontano, si diceva una volta, bisogna andare piano. Oggi, ai canonici vantaggi del movimento lento se ne sono aggiunti altri, forse più interessanti per noi cittadini del mondo ecoconsapevoli, che nel viaggio cerchiamo nuovi valori aggiunti: come la sostenibilità, intesa come rispetto per l'ambiente e le persone; o la dimensione contenuta, a garanzia di quiete e autenticità; o ancora modi e tempi in sintonia con i bioritmi, per un completo benessere fisico e spirituale. E, non ultimo, un impegno economico che, anche lui, risulti sostenibile per le nostre finanze in tempo di crisi. Tut-
ti valori, questi, tanto condivisibili dal Touring Club Italiano, che ha concesso all'iniziativa il proprio patrocinio. Per illuminare quanti ritengono che, anche nei viaggi, lento è meglio, è nata Bigs, la Borsa italiana go slow, dedicata soprattutto agli operatori, per i quali sono previsti appositi workshop, ma aperta a tutti quanti desiderino rallentare l'andatura.
Tema della prima edizione, e manifesto etico dell'iniziativa, è Mobilità dolce e sostenibile, per la quale sono in programma appuntamenti curati dall'associazione Go slow Italia: incontri con scrittori e viaggiatori che racconteranno le loro esperienze, le emozioni, le sensazioni del lento viaggiare; convegni e seminari per fare il punto sulla mobilità dolce in Italia.
E poi attività ludiche per i bambini (per coltivare fin da piccolo il viaggiatore slow), con pedalate ecologiche, tour a dorso d'asino e altre attività, che animeranno l'Autodromo, il centro storico di Monza e il parco urbano. Per finire, il III Premio Go slow-Comodo, per segnalare le amministrazioni pubbliche che hanno promosso sul proprio territorio interventi a favore della mobilità dolce, in rispetto delle caratteristiche dei luoghi.
ELENA DEL SAVIO dal mensile qui touring del TCI, settembre 2009

sabato 29 agosto 2009

le 10 domande di bossi a berlusconi

Dal Blog di Beppe Grillo altre domande che aspettano risposta...clicca su play per visionare il film





Roubini lancia l'allarme: a rischio una seconda recessione per l'economia mondiale

Il famoso economista ha pubblicato domenica scorsa un editoriale sul Financial Times nel quale ha chiarito la sua posizione sui temi e le modalità di uscita dalla crisi.


Anche agosto si avvia ormai alla conclusione e salvo sorprese particolari che si dovessero avere nelle prossime quattro sedute, i mercati azionari si apprestano a lasciarsi alle spalle un mese caratterizzato da un bilancio molto positivo. Le Borse stanno segnando proprio in queste sessioni nuovi massimi dell'anno, continuando a scommettere su una ripresa economica che dovrebbe avvenire nei prossimi mesi con maggiore grinta di quella prevista in un primo momento.

A propendere per un simile scenario sono i capi delle Banche Centrali, a partire dal numero uno della Fed, Bernanke, al quale si accoda anche lo stesso Jean Claude Trichet, che guarda al futuro con maggiore fiducia. E anche di fronte ai segnali d ripresa dell'economia globale, non mancano i pessimisti o quantomeno coloro che non nutrono le stesse speranze nella possibilità di assistere ad una ripartenza della congiuntura globale.
Nel corso dei pessimisti spicca senza dubbio la voce di Nouriel Roubini il quale è stato tra i pochi a prevedere la gravità della crisi finanziaria che ci accompagna ormai da oltre due anni. Il famoso economista ha pubblicato domenica scorsa un editoriale sul Financial Times nel quale ha chiarito la sua posizione sui temi e le modalità di uscita dalla crisi.
Il noto professore della New York University ha messo in guardia dal fatto che l'economia mondiale, è a rischio di una seconda battuta d'arresto, malgrado i segnali di ripresa visti nelle ultime settimane. Da una parte infatti la congiuntura sta uscendo dalla più grave crisi dai tempi della grande recessione, dall'altra però ci si chiede quando effettivamente si concluderà la fase recessiva e in che forma avverrà la ripresa.
Per Roubini l'economia ha toccato il fondo e si avvia a risalire la china nella seconda metà di quest'anno, ma tale cammino non sarà uguale per tutti i Paesi. In alcune realtà come Francia, Germania, Cina, Giappone e Brasile, la ripresa è già iniziata, mentre in altre tra cui compaiono gli Stati Uniti e l'Italia, la fase recessiva non si concluderà prima della fine dell'anno.
L'economista si aspetta un periodo di crescita mondiale “anemica” e tra i rischi che minacciano la congiuntura troviamo la debolezza del mercato del lavoro, dal momento che le aspettative sulla disoccupazione costituiscono una cattiva notizia per la domanda.
Un altro problema non da poco è rappresentato dal dilemma che i Governi dovranno affrontare relativamente alla exit strategy. Se infatti i Governi decidono di contenere il deterioramento dei conti pubblici tagliando la spesa e aumentando le tasse, corrono il rischio di compromettere ogni segnale di ripresa. Se invece consentono la crescita dei deficit pubblici potrebbero spingere l'inflazione, determinando l'aumento dei tassi di interesse a lungo termine e il blocco della ripresa.
Un altro fattore di rischio è dato dall'aumento significativo dei prezzi del petrolio e dei prodotti alimentari, che stanno aumentando più di quanto potrebbe essere giustificato dai fondamentali. Per Roubini difficilmente l'economia mondiale sarà in grado di fronteggiare un altro shock nel caso in cui la speculazione dovesse riportare le quotazioni del petrolio al di sopra dei 100 dollari al barile.
Parlando della ripresa, l'economista Roubini spiega che ci sono due diverse teorie in merito: da una parte si schierano coloro che credono in una ripresa a V con un rapido ritorno alla crescita, dall'altra invece ci sono quelli che vedono una ripartenza ad U, anemica e sotto tono per almeno due anni.
In questa seconda categoria rientra anche Roubini che a favore di questa argomentazione ha presentato tutti i fattori esposti prima. Anche alla luce di ciò l'economista parla di una possibile ripresa anemica, e sotto il tasso di crescita potenziale, puntando l'accento sul rischio di una seconda recessione.
Di Alberto Susic Martedì 25 Agosto 2009 http://it.biz.yahoo.com

chi è, allora, che affolla le aste e compra più Bot e Bund che può?

Bot a tasso zero, risparmiatori scottati e le banche li preferiscono ai prestiti


ROMA - Otto centesimi per un investimento di 100 euro. Il piccolo risparmiatore che si avventurasse sul mercato dei titoli pubblici, storico rifugio di pensionati e casalinghe, si troverebbe, oggi, di fronte all' inedito fenomeno del rendimento zero. Un' ipotetica liquidazione di 50 mila euro, investita nell' asta di mercoledì dei Bot a 6 mesi, comporterebbe, infatti, un guadagno complessivo di euro 40, appena sufficienti per un pugno di biglietti del superenalotto.
Il rendimento dello 0,55 per cento, dichiarato a fine asta, è, infatti, un minimo storico, ma è anche un rendimento lordo: al netto di commissioni e ritenuta alla fonte, il netto per il superstite dell'estinto popolo dei Bot è lo 0,08 per cento. Anche contro un' inflazione (a luglio) a zero, è un rendimento utile solo a parcheggiare i risparmi temporaneamente, in attesa di decidere cosa farne. Ma investire in titoli di Stato a più lunga scadenza non dà maggiori soddisfazioni: i Btp a 10 anni, indicizzati all' inflazione, andati all' asta ieri, offrono un rendimento (lordo) dell' 1,99 per cento, in netta discesa, rispetto al 2,62 per cento degli stessi titoli nell' asta di due mesi fa. Gli ultimi Btp decennali offerti dal Tesoro (non indicizzati, però) danno il 4,06 per cento, contro il 4,50 di giugno. All' estero, è la stessa storia: il re dei titoli di Stato, il ricercatissimo Bund tedesco a 10 anni, viaggia su un rendimento del 3,26 per cento. Quasi ovunque, i rendimenti dei titoli di Stato sono ai loro minimi storici. Eppure, all' asta dei Btp di ieri, la quantità richiesta è stata una volta e mezza quella offerta dal Tesoro.
Se il piccolo risparmiatore è scomparso, chi è, allora, che affolla le aste e compra più Bot e Bund che può? La risposta è: le banche e gli investitori istituzionali. Dopo la tempesta di questi anni, la grande finanza sembra aver imparato da pensionati e casalinghe. Secondo alcune stime, più di metà dei titoli di Stato emessi quest' anno nell' area euro sono stati finora acquistati dalle sole banche.
Per un verso, questa è una buona notizia per Stati pesantemente indebitati, come l' Italia, o che si sono pesantemente indebitati per far fronte alla crisi, come Germania e Francia. La folla di banche alle aste significa rendimenti bassi e, dunque, minori tassi di interesse da pagare. E, soprattutto, la ragionevole speranza che il mercato assorbirà, senza difficoltà, l' imponente mole di debiti pubblici che arrivano a scadenza nel 2010: secondo i calcoli di Société Générale, oltre 1.200 miliardi di euro in Europa, che si aggiungono ai 3 mila miliardi di dollari (oltre 2 mila miliardi di euro) di buoni del Tesoro in scadenza oltre Atlantico.
Ma le buone notizie finiscono qui. La corsa delle banche ai Bot è l' altra faccia della medaglia della stretta del credito. Le potenti iniezioni di liquidità degli ultimi mesi si sono fermate nelle casseforti delle banche, per lo più ormeggiate a investimenti in titoli pubblici.
Un indicatore è l' Euribor, il tasso interbancario, cioè l' interesse che le banche europee applicano nei prestiti fra loro. Applicando l' Euribor, una banca potrebbe prestare soldi ad un' altra banca, a tre mesi, ad un tasso superiore allo 0,80 per cento. Preferisce comprare Bot italiani allo 0,55 per cento. O accontentarsi anche di meno: ci sono 160 miliardi di euro, parcheggiati nei depositi presso la Banca centrale europea, dove spuntano solo lo 0,25 per cento. Non si tratta, però, solo di diffidenza verso le altre banche, ma di un cappio intorno al collo dell' economia reale. Pochi dei soldi, iniettati generosamente nel sistema dalla Bce, stanno raggiungendo aziende e famiglie. I dati diffusi ieri dalla stessa banca centrale europea danno un quadro raggelante della stretta al credito.
Di fatto, anziché avere più prestiti a disposizione, le aziende europee, a luglio, sono state costrette a rientrare dei crediti precedenti: complessivamente, hanno restituito alle banche 26 miliardi di euro. A giugno ne avevano già ridati 33 miliardi. Per i prestiti a un anno (meno 8,4 per cento, rispetto al luglio 2008) si può parlare quasi di caduta libera. Complessivamente, in un anno, la politica monetaria più espansiva degli ultimi decenni ha prodotto un aumento dei crediti alle aziende non finanziarie solo dell' 1,6 per cento. Per le famiglie, invece, non c' è stato un euro in più: il tasso di incremento dei crediti alle famiglie, rispetto ad un anno fa, è pari a zero. Gli unici ad incassare facilmente prestiti sono, appunto, i governi: più 10 per cento.

- MAURIZIO RICCI Repubblica — 28 agosto 2009 pagina 17 sezione: ECONOMIA


giovedì 20 agosto 2009

vesica electric guitar

Per chi è appassionato, una novità che potrebbe aiutare a fare i bending a centro tastiera... chissà come funziona!
http://www.vesicaguitars.com/home.php

martedì 18 agosto 2009

lezioni online per vari programmi

vai su
http://www.lezionionline.net/home/

In particolare di questitempi si occupa dellapiattaforma joomla, ma non solo....

Se Teresa e la Mabilia stanno in Parlamento

quali potrebbero essere gli inni lombardi: preferibile "Noter de Berghem, de Berghem de sura alla forchetta ghe dis ol pirù", o il bresciano "La me murusa l'è de Polpenasse e la sa grata el cul con le ganase", o meglio il milanese "O mia bela Madunina che te brillet de lontàn"?

Se Teresa e la Mabilia stanno in Parlamento
lettera a Repubblica , sabato 15 agosto 2009

EGREGIO Colaprico, leggo della proposta della Lega di inserire un comma nell'articolo 12 della Costituzione che riconosca i simboli identitari di ciascuna Regione: dunque, bandiere e inni "regionali". E mi sono chiesta quali potrebbero essere gli inni lombardi: preferibile "Noter de Berghem, de Berghem de sura alla forchetta ghe dis ol pirù", o il bresciano "La me murusa l'è de Polpenasse e la sa grata el cul con le ganase", o meglio il milanese "O mia bela Madunina che te brillet de lontàn"? Questo tanto per fare alcuni esempi. Che ne dite, fom en bel referendum popolare? Scartando naturalmente "Va pensiero" (scritto in italiano!) da uno che credeva nella politica unitaria di Cavour, da lui definito "Padre della Patria".
Gisella Bottoli – Brescia

Grazie a lettere come questa si può sorridere. Personalmente, quando una "visualizza" un concetto sbagliato, mostrandolo nelle conseguenze, resto impressionato. La fantasia corre: sino a immaginare una specie di zecchino d'oro padano ,ascoltare professori di Agrigento sforzarsi di usare i grugniti della Valcalepio e, perché no?,vedere anche i preti soffrire per stilare un'omelia degna di Carlo Porta. Nella Lega c'è, anche se inespressa politicamente, una corrente che amio modesto parere potremmo definire "dei Legnanesi". É come se la Teresa, il Giovanni e Ia Mabilia, i personaggi popolari nati dalla felice fantasia di Felice Musazzi e Tony Barlocco fossero usciti dal cortile della "ca ' de ringherà "per andare a sparare le loro pirlate sui banchi di un Parlamento che, non certo solo per colpa della Lega o di Berlusconi, è diventato molto più vicino a uno stadio, o a uno studio tv, che a un tinello dì una casa abitata da cittadini con un livello medio d'istruzione.
Dialetto, inni, confini, tutto diventa una commedia e il titolo di una vera, "Pover Crìst Superstar", mi pare uno slogan adatto ai tanti ex comunisti e abitanti delle periferie che, per disperazione, non solo per scelta, sono passati a vedere un mondo colorato di verde. E credono, arroccandosi, di poter resistere a un cambiamento epocale, del quale si parlerà nei librì di storia del 3mila dopo Cristo. Umberto Bossi, così come Roberto Maroni, come anche Matteo Salvini, "dietro le quinte" sanno essere ironici e conoscono la realtà. Ma fanno i loro calcoli, perciò la Lega, ufficialmente,spicca per la mancanza di autoironia. tanto, come scriveva Delio Tessa, "L'è eldì di Mort, alegher! Sotta ai topiett se balla, se rid e se boccalla".

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nota Greg:
Al di là delle ridicole sparate della lega, l'insegnamento del dialetto, come quello della religione (vedi intervista a Massimo Cacciari) io li vedo come indispensabili materie per un approfondimento culturale, antropologico.
Quando ero piccolo, alle elementari, avevo un maestro (il sig. Lucchese) che una volta tanto ci faceva conoscere il dialetto bresciano, tramite la lettura delle opere del poeta Canossi "Melodia e congedo", che descrivevano la vita nei campi, il punto di vista della gente. E io tuttoggi so leggere e scrivere in dialetto bresciano; invito a leggere, per chi apprezza la poesia, anche le opere di Elena Alberti Nulli, molto belle.
Ci faceva ascoltare anche i cori alpini, tramite dischi del "Coro della SAT". Quelli, sinceramente, mi piacevano molto meno; ho cominiato ad apprezzarli ascoltando i cori dal vivo, tutt'altra cosa!

lunedì 17 agosto 2009

Come si impara la guida ecologica

Come si impara la guida ecologica

Guidare ecologico si può. E permette, se abbinato a una manutenzione scrupolosa del veicolo, di risparmiare fino al 25% di carburante per le auto a benzina e fino al 20% per quelle a gasolio. Senza dimenticare che può ridurre di 15 g/km le emissioni di CO2. A costruire un provetto ecodriver contribuisce il corso teorico-pratico di una giornata realizzato nell'ambito del progetto Eco-guida, sviluppato da Euromobility (Associazione per la mobilità sostenibile) in collaborazione con l'Asc (Automotive safety centre) e co-finanziato dalla Fondazione Cariplo.

I corsi sono rivolti a chiunque - privato o dipendente d'azienda, guidatore esperto o neopatentato - voglia risparmiare carburante.
Per conoscerne le modalità di svolgimento è attivo il sito www.ecoguida.com.
L'effettivo risparmio viene monitorato da una dotazione di bordo che memorizza i dati delle le prove, consentendo di ottenere un riscontro immediato dei consumi.
È importante sottolineare come l'Ecoguida sia una realtà già consolidata in nove paesi europei. E la Commissione Uè ha un piano per ridurre le emissioni alle auto attraverso un utilizzo del mezzo privato incentrato sui comportamenti virtuosi alla guida. «I corsi - dice Daniele Merlini, direttore tecnico di Asc - rispondono a esigenze reali: una mobilità più sostenibile con i veicoli attuali, la. riduzione dello stress per i conducenti, l'incremento del comfort per i passeggeri».
Dal canto suo Carlo Iacovini, presidente di Euromobility, dichiara: «I corsi vogliono dare una risposta alle aziende che cercano una formazione specialistica, ma anche ai privati che vogliono risparmiare».
Bastano alcuni semplici accorgimenti per minimizzare il dispendio di carburante: viaggiare con i finestrini chiusi, rimuovere il portapacchi quando non serve, cambiare marcia a un regime medio-basso, rispettare la corretta pressione degli pneumatici, regolare il climatizzatore al minimo 0 utilizzare l'aria condizionata solo se necessario, evitare i classici colpi d'acceleratore da fermi.
Silvano Piacentini - il sole 24 ore lunedi 17 luglio 2009

Il cellulare usato si lascia in libreria

Il cellulare usato si lascia in libreria
Nei negozi della catena Libraccio a favore di Acra

È partita a luglio e proseguirà fino al febbraio 2010 la collaborazione tra la Ong Acra e la catena Libraccio a sostegno del sud del mondo.
In tutte le librerie del gruppo sarà possibile consegnare il proprio cellulare usato e sostenere l'organizzazione, presente con i propri progetti, tra l'altro, in Argentina, Bolivia, Brasile, Burkina Faso, Camerun, Ciad. Per ogni pezzo consegnato, Acra riceverà in donazione 2 euro da Redeem Italia, società che raccoglie e reimpiega telefonini usati nei paesi in via di sviluppo.
«Si tratta - commenta Angelo Locatelli, presidente di Acra - di un'azione concreta con un partner radicato sul territorio. Oltre al sostegno ai nostri progetti, consentirà di affiancare a una valenza di tutela ambientale una funzione di sensibilizzazione dei clienti Libraccio, molti dei quali studenti. Inoltre i cellulari rientreranno nel circuito commerciale dei paesi in via di sviluppo a un prezzo accessibile di 5-7 euro. Potranno così rappresentare un motore di sviluppo importante».
Per aderire sarà sufficiente compilare la scheda disponibile nelle librerie della catena e consegnarla insieme con il cellulare, che dovrà essere funzionante e completo di batteria.
«Già in passato - ricorda Locatelli - la collaborazione tra Aera e Libraccio aveva portato alla realizzazione di tre pozzi artesiani nel nord del Camerun, contribuendo a fornire acqua potabile a circa 3.500 persone». Chiunque voglia liberare i cassetti da qualche telefonino non più utilizzato e dare allo stesso tempo un aiuto concreto può trovare l'elenco delle librerie che aderiscono al progetto sul sito www.libraccio.it.

venerdì 14 agosto 2009

dittatura

Per chi non l'avesse visto, segnalo che andando su
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-9a4f4f9f-33b3-411b-ae88-c2c1479690e9.html?p=0

Si può vedere il programma della serie "la grande storia" dedicato alla nascita del fascismo, verso la dittatura. Quello che i documentari di regime non avevano detto.
Istruttivo, di questi tempi......di monopolio televisivo e di telegiornali "balneari" tutto l'anno.....

TED: L'editore delle visioni

"Idee che vale la pena diffondere".
E' una delle massime di Chris Anderson, ispiratoree curatore del progetto ted.
L'anno prossimo, Ted sarà concentrato sulle buone notizie. «Non per ottimismo. Per realismo» «Perché le notizie sui progetti visionari che funzionano e cambiano il mondo, non sono molto raccontate dai media tradizionali. Ma ci sono».

Michael Pritchard sale sul palco dell'Oxford Playhouse. È la settimana di Ted (www.ted.com), che propone il suo ricco programma di testimoni della ricerca, della tecnologia e del design nel teatro della città inglese.
Pritchard presenta la Lifesaver Bottle, una bottiglia che promette di filtrare dall'acqua ogni organismo patogeno: batteri, funghi, virus. Se diffusa potrebbe salvare la vita a 2 milioni di bambini l'anno. E lo vuole dimostrare, a Ted. L'inventore riempie una bacinella con l'acqua del River Cherwell, il fiume che attraversa Oxford, l'arricchisce con la fanghiglia raccolta in un depuratore, aggiunge liquidi scuri e maleodoranti. Mescola. Con l'orribile intruglio riempie la sua bottiglia purificatrice. La mette in azione. Completa la procedura in pochi secondi e ne tira fuori un liquido apparentemente limpido con il quale riempie un bicchiere. Stoicamente, beve. E lo offre di sorpresa a Chris Anderson, il fondatore di Ted. I 700 spettatori trattengono il fiato. Anderson, titubante, beve. Poi commenta: «Hai portato la mia fiducia nella comunità di Ted a un nuovo livello». Distensione. Risa. Applausi. (Rivisto il giorno dopo, Anderson stava bene).
Fiducia. Teatro. Ricerca. Tecnologia. Visioni. Comunità. Divertimento intellettuale. Partecipazione. Ritmo. Persone. L'esperto di aforismi e matematica della metafora, James Geary. La neuroscienziata liberal Rebecca Saxe che rifiuta di farsi assumere al Pentagono.
Paul Romer, teorico dell'innovazione radicale.
William Kamkwamba, inventore di mulini a vento fatti di rifiuti.
Bjarke Ingels, architetto che costruisce una città sostenibile su un'isola deserta dell'Azerbaijan. Itay Talgam, direttore d'orchestra esperto di stili di leadership.
Decine di personaggi straordinari. Ted è un fenomeno. Conferenze esclusive a pagamento (6mila dollari per la versione californiana e 4.500 euro per quella europea). Tutti i video online, visti da 300mila persone al giorno (centinaia di volontari li stanno traducendo NDR ci sono sottotitoli anche in italiano)). Una proliferazione di conferenze locali. Attività di community come i premi ai progetti più visionari e il sostegno alla loro realizzazione. Tutto non profit. Tutto per cambiare il mondo.
La prima versione europea, curata da Bruno Giussani, è stata un successo, palpabile in sala e confermato dai commenti su Twitter. Non è un caso. Ogni particolare è studiato. Ogni intervento è discusso e preparato in largo anticipo. In linea con la ricerca che Ted sta conducendo da tempo nei territori aperti dalle grandi visioni del futuro, ponendosi domande fondamentali, dalla sostenibilità dello sviluppo alle conseguenze dell'innovazione radicale, Giussani sceglie gli argomenti e gli oratori, definisce con essi i contenuti, dà consigli su come raccontarli nel modo più efficace, nei limiti dei 18 minuti previsti. Sicché tutto converge in un grande storytelling generale. Che nel caso di Oxford è stato soprattutto concentrato sul cambiamento climatico, il superamento delle grandi cause della povertà, la riprogettazione delle città e l'accelerazione del l'innovazione internettiana.
Scienziati, tecnologi, artisti, designer, attori, filosofi, si sono assoggettati alle logiche del grande contenitore, sapendo con quanta passione sia seguito da migliaia di fan disposti a pagare per essere fisicamente presenti al l'evento e da milioni di spettatori via internet. E sapendo che le loro proposte avranno un seguito: perché Ted è anche e soprattutto una cassa di risonanza per progetti umanamente sensati e molto difficili da realizzare. Ma che, se riescono, possono liberare le forze culturali e imprenditoriali necessarie ad affrontare in modo radicalmente nuovo problemi enormi.
«Se c'è qualcosa per cui sono disposto a morire è l'educazione dei bambini africani» afferma accorato Emmanuel Jal, artista hip hop ed ex bambino-soldato sudanese. «Il mio progetto è costruire una scuola. La mia musica è per contribuire a questo obiettivo. E del resto, per noi in Africa, la musica è lo strumento con il quale i giovani si trasmettono le informazioni».
Ma che cos'è, dunque, Ted? Probabilmente sta diventando una sorta di risposta originale alla crisi dell'editoria tradizionale. «Sì – conferma Giussani –. La piattaforma fisica consente di raccogliere il fatturato necessario a sostenere l'insieme delle attività, con i biglietti d'ingresso e le sponsorizzazioni. Il web è il moltiplicatore della notorietà e della diffusione dei contenuti. Le iniziative danno un senso di concretezza alle idee che vengono lanciate e fondano una comunità molto coesa. La crescita è fondata su quella comunità e sulla qualità delle scelte.
Il modello di business è sostenibile. Tutto quello che fatturiamo è investito». Ted resta non profit, assicura. Anderson conferma. E Giussani chiosa: «Ted ha molto più senso se è non profit». L'anno prossimo, Ted sarà concentrato sulle buone notizie. «Non per ottimismo. Per realismo» dice Giussani. E Nòva non potrebbe essere più d'accordo. «Perché le notizie sui progetti visionari che funzionano e cambiano il mondo, non sono molto raccontate dai media tradizionali. Ma ci sono». Parlarne amplia i limiti del possibile. E libera la progettualità. Sulla base dei fatti.

DA OXFORD LUCA DE BIASE Giovedì, 23 luglio 2009.
(Altre notizie su: lucadebiase. nova100.ilsole24ore.com)

oro verde carboidrati al posto degli idrocarburi è l'alba di una nuova chimica

Biopolimeri, biopesticidi, biofuel fatti con la Natura, senza ridurre la produzione di cibo
La rivoluzione degli enzimi


George Washington Carver sapeva come fabbricare vernici, cosmetici, sapone, plastiche e combustibili. Non tramite gli idrocarburi, come si fa abitualmente, ma tramite i carboidrati. Non grazie alla chimica inorganica dei combustibili fossili, ma grazie a quella organica dei prodotti vegetali.
Nato nel 1864 da una famiglia di schiavi nel Missouri (pochi giorni prima dell'abolizione della schiavitù), da piccolo viene rapito e rivenduto con l'intera famiglia. Fortuna vuole che Moses Carver, il suo ex padrone, lo ritrovi, lo adotti e lo faccia studiare. Più tardi, in qualità di scienziato, Carver si occuperà delle misere sorti dei contadini del Sud, alle prese coi terreni impoveriti dalla monocoltura del cotone, proponendo di adottare arachidi, patate e legumi. E non solo per fini alimentari.
Cinque anni prima che Carver nascesse, il colonnello Edwin Drake aveva scoperto in Pennsylvania il primo pozzo di petrolio della storia: fra meno di un mese, il 27 agosto, saranno 150 anni dall'inizio dell'Età del petrolio. Un secolo e mezzo durante il quale la ricchezza del mondo si è moltiplicata senza posa, grazie all'abbondanza di greggio a basso costo. Oggi - al ritmo di 85 milioni di barili al giorno - lo bruciamo per sempre per l'elettricità e i trasporti, ma anche per lubrificanti e fertilizzanti, plastica e medicinali.
SÌ dice che, fra gli anni 20 e 30, Carver avesse trovato il modo di realizzare trecento diversi prodotti, ricavandoli da tuberi e noccioline. Ma il petrolio era ormai abbondante e più che conveniente. E le lobby dell'industria petrolchimica è andato in tutt'altra direzione.
Il bello è che oggi, sta tornando su quella strada. A detta dell'Agenzia internazionale per l'energia, già nel prossimo decennio la produzione di petrolio non riuscirà a tenere il passo della crescente domanda, e ancora meno nei decenni a venire, con inevitabili tensioni sui prezzi. La combustione degli idrocarburi va limitata, per evitare pericolosi cambiamenti del clima. E la ricerca biotecnologica fa passi da gigante. La congiunzione astrale di questi tre elementi, ha riportato inevitabilmente le intuizioni di George Washington Carver sul palcoscenico, stavolta globale.
La rivoluzione dell'oro verde al posto dell'oro nero, è cominciata con i biocarburanti: sostituti del petrolio fabbricati con il mais o la canna da zucchero. L'anno scorso, sono stati prodotti 64,5 miliardi di litri di bioetanolo: una goccia, net l'oceano dei consumi mondiali di carburante. E poi le bioplastiche: si stima che l'anno prossimo ne verranno prodotte 1,5 milioni di tonnellate (contro i 220 milioni di plastiche a base di idrocarburi).
Ma il fatto straordinario è che l'industria - tanto i pochi colossi della chimica che una miriade di startup di belle speranze - ha avviato un grandioso passo avanti nella ricerca, suggellato da 2omila brevetti all'anno, solo nel bio-tech. E i primi segni della semina, si vedono.
La danese Novozymes, leader mondiale negli enzimi, inclusi quelli che accendono le trasformazioni chimiche che portano dal mais all’etanolo, lancerà l’anno prossimo un prodotto che genera carburante dagli scarti agricoli , senza dover usare il cibo per far muovere i Suv.
La Mazda promette, entro il 2013, di debuttare con l'auto in bioplastica (ma Henry Ford l'aveva già fatto) La Dow, la Solvay e la brasiliana Braschem si preparano a produrre 700mila tonnellate l'anno di bioetilene, col quale fabbricare il biopolietilene. L'americana Novomer sta commercializzando un processo per fabbricare materiali plastici avanzati usando scarti alimentari e anidride carbonica. La Mctabolix sta già producendo al una plastica biodegradabile tramite una versione modificata del panicum virgatum, una pianta erbacea non edibile che abbonda in Nordamerica e che lì chiamano switchgrass, in collaborazione con il colosso agroalimentare Archer Daniels Midland. Il rivale Cargill invece, controlla la NatureWorks, la quale sta già vendendo alla grande distribuzione alimentare una bioplastica ricavata dall'amido di mais. Tutte queste plastiche, sono ovviamente biodegradabili. Ma alla Polytechnic University di New York ne hanno inventato una che, quando si degrada, diventa un biodiesel
Come dire:
le possibilità sono pressoché infinite. Peccato che Carver non abbia lasciato nulla di scritto, sui suoi metodi per fabbricare vernici, cosmetici, plastiche e carburanti dal mondo vegetale. Ma del resto, anche Rudolph Diesel (l'inventore dell'omonimo motore) e Henry Ford (l'inventore della motorizzazione di massa) credevano che le automobili sarebbero andate con l'olio di arachidi o di soia, non con il petrolio. L'oro nero ha stravinto la prima mano della partita. Aspettiamoci una rivincita dell oro verde.

DI MARO MAGRINI
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nova sole 24 ore 30 luglio 2009

giovedì 13 agosto 2009

l'ora di religione e' fondamentale. Dovrebbe diventare obbligatoria in tutte le scuole superiori.

Sono perfettamente d'accordo con Cacciari!!!!
greg
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Giusto non calcolare la materia ma io la vorrei obbligatoria
Intervista con il Sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, di Carlo Brambilla

"Certo l'ora di religione e' fondamentale. Dovrebbe diventare obbligatoria in tutte le scuole superiori. Una materia d'insegnamento, come l'italiano, storia e filosofia. Attenzione, pero' con i professori scelti sulla base di titoli, concorsi capacita'. Come tutti gli altri, e non indicati dalla Curia".

Professor Cacciari, cosa pensa della sentenza del Tar che esclude gli insegnanti di religione dagli scrutini?

"Mi sembra una decisione giusta, del tutto logica. Ovvia dal punto di vista giuridico. Una materia facoltativa non puo' essere ritenuta fondamentale in fase di scrutinio. Ma il punto e' un altro. E' arrivato il momento di cambiare quella parte del concordato che riguarda l'ora di religione. E pensare alla nascita di una nuova materia di studio"

Obbligatoria?

"Ma certo. E' assolutamente indecente che un giovane esca dalla maturita' sapendo magari malamente chi e' Manzoni, chi e' Platone e non chi e' Gesu' Cristo. Si tratta di analfabetismo. La scuola deve alfabetizzare. Quando i ragazzi vanno in giro a fare i turisti vedono delle chiese e dei quadri con immagini sacre. Ma cosa vedono, cosa capiscono? Spesso riconoscono a malapena Gesu' bambino. Non sanno nulla delle nostre tradizioni. La religione e' un linguaggio fondamentale. Come la musica".

Perche' non pensare a un insegnamento, piu' democratico, di storia delle religioni, che affronti le diverse tradizioni nei diversi Paesi?

"Non ha nessun senso insegnare Storia delle religioni. Cosi' come si insegna Storia della letteratura italiana e non storia delle letterature mondiali, storia dell'arte italiana e storia dell'arte cinese, non vedo la necessita' di insegnare il buddismo zen o la religione degli aztechi. Chi suggerisce di studiare tutte le storie delle religioni finisce per volere, in pratica, che non se ne studi nessuna. E' necessario, invece, sapere bene almeno cosa dicono le grandi tradizioni monoteistiche."

I vescovi attaccano la decisione del Tar. Parlano di "bieco illuminismo che vuole la cancellazione di tutte le identita'".

"La Chiesa dovrebbe liberarsi delle sue paure. E battersi perche' nella scuola pubblica venga insegnata religione da docenti come gli altri. Chi vuole che vada a insegnare religione, se non una persona particolarmente motivata da questo tipo di studi? Di cosa hanno paura? Che vada il matematico Piergiorgio Odifreddi?"

E le scuole private?

"Le scuole private facciano quello che vogliono".

Nuove Musiche Rolf Lislevand

ECM Records - Distr. Ducale (2006)
A me è piaciuto molto!
Greg
vedi recensione e lista brani


Specializzato in musica rinascimentale, il chitarrista e liutista norvegese Rolf Lislevand sceglie per il suo esordio per la ECM un approccio particolare alla letteratura musicale del Seicento. Richiamandosi alla rivoluzione neoclassicista promossa dal gruppo della Camerata Fiorentina in opposizione alla polifonia imperante all'epoca, che diede origine alle composizioni di Monteverdi, Frescobaldi, Caccini, Kapsberger e altri nello stile detto "Nuova musica", Lislevand vuole superare i principi di base relativi all'interpretazione della musica di quel periodo finora comunemente accettati. Resosi conto della contraddizione di fondo insita nel tentativo di ricreare la musica rinascimentale e barocca (è impossibile per un musicista contemporaneo far finta che la musica non abbia continuato a svilupparsi dal 1600 a oggi, e negarne la presenza nel proprio bagaglio culturale), Lislevand abbandona qualsiasi tentativo precodificato di esecuzione filologicamente corretta dei brani, cercando piuttosto di ricrearne lo spirito attraverso l'improvvisazione, presente nel corredo tecnico di ogni strumentista, e componente fondamentale di ogni esecuzione di questa musica.

La musica di Kapsberger, Pellegrini, Piccinini, de Narvaez, Frescobaldi e Gianoncelli scorre continua come un'unica suite, e alle varie passacaglie e toccate originali si mescolano i risultati delle improvvisazioni nate in studio, come la Passacaglia andaluz dal sapore di flamenco, perfettamente integrata con le composizioni di quattro secoli addietro. Il chitarrista è coadiuvato da un gruppo di musicisti tra cui si notano l'arpista e cantante Arianna Savall (figlia di Jordi Savall, nei cui gruppi come Hesperion XX ha militato anche Lislevand) e Bjorn Kjellemir (bassista già a fianco di Terje Rypdal nei Chasers), il cui apporto ritmico è fondamentale nelle improvvisazioni di gruppo.

Anche se i tradizionalisti potranno rimanere perplessi di fronte a questo approccio decisamente anticonvenzionale, il risultato è affascinante. Lislevand riesce a rinnovare la musica antica rimanendole fedele, ottenendo l'effetto di farla uscire dai musei virtuali nei quali era stata rinchiusa a causa dell'impiego di pratiche esecutive troppo rigide.
di Mario Calvitti
Valutazione: 4 stelle

Elenco dei brani: 01. Arpeggiata addio - 7:17; Passacaglia antica I - 2:09; 03. Passacaglia andaluz I - 2:35; 04. Passacaglia antica II - 2:03; 06. Passacaglia cromatica - 1:52; 06. Passacaglia antica III - 1:48; 07. Passacaglia cantus firmus - 2:33; 08. Passacaglia celtica - 2:00; 09. Passacaglia spontanea 4:13; 10. Passacaglia andaluz II - 2:15; 11. Toccata - 5:31; 12. Passacaglia cantata - 4:13; 13. Corrente - 2:18; 14. Corrente - 1:47; 15. Toccata - 2:38; 16. Ciaccona - 2:57; 17. Toccata cromatica - 3:45.

Musicisti: Rolf Lislevand (arciliuto, chitarra barocca, tiorba); Arianna Savall (tripla arpa, voce); Pedro Estevan (percussioni); Bjorn Kjellemyr (colascione, contrabbasso); Guido Morini (organo, clavicordo); Marco Ambrosini (nichelarpa - viola d'amore a chiavi); Thor-Harald Johnsen (chitarra battente).

Birmania: processo farsa


“Dagli oppositori – spiega Giulietti - attraverso Cecilia Brighi, la coraggiosa sindacalista del sindacato internazionale, è arrivata la richiesta ad organizzare una catena di aiuti per far funzionare tre emittenti capaci di trasmettere nel territorio birmano; l’Italia potrebbe accogliere questa richiesta coinvolgendo le principali aziende del settore, la federazione degli editori e quella dei giornalisti”.

“Tra le varie iniziative vogliamo ricordare quella dell’11 settembre prossimo nell’ambito della Biennale del Cinema in collaborazione Cinecittà Luce per una sezione dedicata al tema dei diritti umani negati, dalla Russia, alla Cina, dall’Iran alla Birmania di Aung San Suu Kyi”.



Nella Birmania di oggi che processa San Suu Kyi.
"Il panorama è irreale: case colorate di azzurro o rosa, prati all'inglese, strade a sei corsie. Ma non un'anima Solo camion militari..."
di Raimondo BULTRINI
Fonte:REPUBBLICA.it
NAY PYI DAW (BIRMANIA) - A volte capita di avere fortuna viaggiando in un Paese governato da dittatori e di poter visitare indisturbati il centro del loro potere. Nel caso della Birmania un cuore politico nuovo di zecca, trapiantato quattro anni fa nei terrapieni del nord, meno umidi e piovosi della vecchia capitale Rangoon, creando il microclima ideale per il governo-ospizio dei generali ultrasettantenni al potere.

Visitare Nay Pyi Daw, o la Città dei Re, è ormai relativamente semplice, ma solo per le Ong autorizzate e per i sempre più presenti partner commerciali (a dispetto dell'embargo). Praticamente impossibile andarci da giornalista. Ma anche solo come turista, per di più alla vigilia dell'attesa sentenza contro la leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi, non è certo facile. C'è molta tensione e poche incerte indiscrezioni alla vigilia del verdetto più volte rinviato con il quale oggi i giudici condanneranno quasi certamente The Lady.
L'unico premio Nobel in cella, è accusata di aver ospitato un misterioso americano, John Yettaw, giunto a nuoto nella sua casa sul lago Ynya. Rischia altri 5 anni di carcere o, nella migliore delle ipotesi, agli arresti domiciliari. Chiusa nella prigione di Insein, Aung San Suu Kyi costituisce ancora la principale minaccia per i generali.

Lo stratagemma per raggiungere la loro città è - paradossalmente - quello di volersi recare alle rovine di un'antica città imperiale dove sono conservate le spoglie dell'unica imperatrice donna della Birmania. Ma le autorità locali, preoccupate che uno straniero possa pernottare nella stessa zona in cui due anni fa un terremoto fece crollare alcuni bunker nucleari, preferiscono che la sosta venga fatta proprio a Nay Pyi Daw. L'unico resort che ospita a prezzi esosi stranieri anche non autorizzati appartiene al tycoon del regime, Tai Za, un ex playboy, proprietario di 7 Ferrari e molto vicino alla figlia del generalissimo Than Shwe.

Il viaggio in treno da Rangoon attaversa una giungla di palme, acquitrini e baracche di bambù sfondate dal peso dei monsoni. Ma una volta giunti alla stazione della nuova capitale il panorama cambia, e si presenta come irreale. Nel verde pastello dell'erba piantata a prato inglese, la città assume l'aspetto di un modellino plastico senza esseri umani: lunghe file di edifici, colorati di celeste e rosa, si estendono in linee equidistanti. Uomini, donne e bambini vivono sicuramente lì dentro, ma non vanno a passeggio: di fronte hanno solo superstrade di collegamento a quattro e sei corsie. L'accesso ai carri armati è garantito da vaste arterie laterali dove il traffico è riservato ai mezzi militari che vanno e vengono dalle caserme e dalle residenze attorno al segretissimo quartier generale del governo. Uno dei primi e rari reporter a visitarla scrisse che il regime non aveva programmato di prevenire nella capitale una possibile rivoluzione attraverso le armi, ma a colpi di "geometrie e cartografie".

Sulla collina dei ristorantini un guardia-macchine che mastica betel rosso invita a guardare in basso, dove sono allineate le palazzine degli alloggi per ufficiali e dipendenti governativi. "Very beautiful", dice con la bocca impastata dalle foglie eccitanti. I parametri di bellezza in Birmania sono valutati sulla base della quantità di cemento usata al posto della paglia e del bambù. E a Nay Pyi Daw non si è badato a spese per gli alloggi dei generali, mentre manovali, camerieri e garzoni di bottega confessano di dormire tra gli edifici in costruzione, o sotto i tavoli e gli scaffali dei negozi.

L'ipotesi di una fine prossima del regime non è presa in considerazione seriamente da nessuno. L'attuale comandante, Than Shwe, con un tumore sotto controllo di tanto in tanto a Singapore, riceve a suo agio i dignitari cinesi, russi, indiani, nella pomposa Bayintnaung Yeiktha, il Palazzo simile a quello che ospitò le nozze miliardarie di sua figlia.
Il generalissimo non si cura troppo delle proteste interne e internazionali, tanto meno di quelle dei suoi dipendenti, trasferiti in massa a Nay Pyi Daw dall'oggi al domani secondo date precise dal sapore mistico e rituale: i primi 11 uffici ministeriali traslocarono quattro anni fa l'11 novembre alle 11 del mattino con un seguito di 1100 militari da 11 battaglioni. Ora i funzionari cominciano ad abituarsi, come quelli che si incontrano sulle carrozze "superiori" del treno Rangoon-Nay Pyi Daw, destinati a vivere e a far crescere i loro bambini in un'oasi controllata e distante dal resto del Paese. Interi capitoli delle vicende nazionali, come il massacro degli studenti dell'8 agosto '88, le elezioni vinte da Aung nel '90, sono sconosciute a gran parte delle nuove generazioni. "Nei corsi di specializzazione più dell'80% chiede computer, nessuno vuol saperne di Storia", ci dice una professoressa che aiuta i disastrati dal ciclone Nargis.

Il volontariato senza collegamenti internazionali è il cuore tenero di Myanmar (dall'89 nome ufficiale per la Birmania). I suoi collaboratori per recarsi nei villaggi da assistere attraversano due enormi corsi d'acqua a tratti grandi come il Gange. Tra questi il Pyanmelok, o "Fiume del non ritorno", in cui le piccole imbarcazioni spesso spariscono per le frequenti burrasche. Ma qualcuno deve portare gli aiuti anche lì, sebbene non sempre bene accetti dal regime.

"Molti sentono di essere stati abbandonati dallo Stato, per questo non escluderei la possibilità di una nuova protesta in occasione della condanna di un'icona popolare come Aung San Suu Kyi" ci dice un ex monaco che dopo le rivolte di due anni fa ora fa la guida turistica. "Del resto ben pochi, oltre ai soldati, oggi saprebbero come tenere in pugno il Paese.

Nemmeno la nostra Lady immagina più, se non per sentito dire, com'è fatta la sua Birmania: 800 kyatt al mercato per il riso, il salario di un giorno; 20mila dollari per una macchina scassata, le file dei mendicanti, degli orfani e dei bambini di strada che bussano nei conventi per ricevere un po' di educazione dai monaci, a loro volta sotto stretto controllo del regime". Se la corrente elettrica viene razionata fino a 12 ore in tutte le città e ancor di più in campagna, la rete dei cellulari funziona solo a tratti. Ma per ora è un problema che riguarda meno del 3% della popolazione. Nel resto del Paese è ancora pieno Medioevo.

Solo i tecnici cinesi, russi e indiani si sentono a casa a Nay Pyi Daw, dentro auto scure attraversano le vaste arterie semideserte. Con i generali fissano il prezzo delle pietre, dell'uranio e del gas prodotto al largo di Sittwe. Che siano risorse dell'intero popolo birmano è un dettaglio che non li riguarda. Chi ha scelto di fare affari con la Giunta non vuole nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi di un cambiamento, per di più incerto. L'alternativa è una donna rimasta isolata per vent'anni tra casa e prigione.



"Pena ridotta", così il regime ha eliminato The Lady dalla politica.
La condanna a tre anni, commutata a 18 mesi per Aung San Suu Kyi è un modo attento per ridurre al minimo le reazioni popolari in Birmania. Nel 2010 non potrà partecipare alle elezioni per il 30% dei seggi non riservati ai militari

di Raimondo BULTRINI
Fonte:REPUBBLICA.it

DI RITORNO DALLA BIRMANIA - La pioggia incessante per giorni si era mossa a raffiche e raccoglieva anche l'acqua del lago Inya sulle cui rive fradiciano senza manutenzione le vecchie mura della casa di Daw Aung San Suu Kyi. Anche dall'esterno del cancello su University Avenue si poteva notare che da più di due mesi non ci viveva nessuno, nemmeno le due domestiche trasferite nel carcere di Insein assieme a The Lady, la leader dell'opposizione ai generali che tra poco tornerà a vivere tra gli oggetti che le appartengono.

John Yettaw, l'americano che con la sua nuotata attraverso il lago fino alla casa degli Aung San ha provocato il processo e la condanna della Lady per violazione degli arresti domiciliari, ha ottenuto la pena più alta, sette anni di carcere con lavori forzati, sempreché con un accordo di estradizione non sarà rimandato negli Stati Uniti.

Più mite il verdetto per Aung San Suu Kyi, tre anni, sempre ai lavori forzati, trasformato dal generalissimo Than Shwe in persona a diciotto mesi agli arresti domiciliari "grazie a un'amnistia", come ha subito commentato in positivo l'agenzia cinese Xinhua ripresa dalla tv di Pechino. La riduzione ha sicuramente il solo scopo di concedere qualcosa alla comunità internazionale e anche al dissenso interno, così da evitare clamorose proteste semmai ne fossero state programmate. Del resto un anno e mezzo è giusto il tempo necessario per tenere Aung San Suu Kyi lontano dalla competizione elettorale del 2010, quando la Road map per la democrazia stabilita dai generali praticamente a tavolino prevederà una minima rappresentanza di "società civile" nel nuovo Parlamento.

Per il popolo dissidente, che non sembra avere la forza di scendere di nuovo in piazza a sfidare i fucili del tadmadaw, si riapriranno quantomeno finalmente le finestre della casa simbolo delle loro uniche speranze, anche se queste sembrano sempre più vane man mano che le settimane, i mesi e gli anni passano, con la residenza della Lady come sempre trasformata in prigione, nonché la sua eliminazione da ogni competizione elettorale e ogni ruolo attivo in politica.

All'indomani della sentenza per il reato di aver violato - dopo 20 anni di mansueta routine - le regole degli arresti domiciliari, filtrano ancora ben poche indiscrezioni a Rangoon sulle vere condizioni di salute e anche mentali di Aung San Suu Kyi. I rarissimi giornalisti autorizzati e diplomatici che l'hanno vista durante il processo, durato due mesi con poche udienze aperte compresa l'ultima, ci avevano detto che The Lady sta bene ed è in buon spirito. Conoscendo la realtà della giustizia e della politica tra i dittatori, tutti si auspicavano - come è successo - che i generali le concedessero almeno di tornare a casa. Una piccola vittoria sentimentale più che pratica, capace senz'altro di mitigare la rabbia dei supporter.

Non erano al minimo solo le speranze di vincere una sfida giudiziaria: ora che il dado è tratto - ovvero The Lady è legalmente e di fatto fuori dalla corsa al nuovo Parlamento - saranno ben poche anche le opportunità di sfruttare da parte della Lega nazionale per la democrazia e i suoi simpatizzanti la quota minoritaria del 30 per cento lasciata dai generali ai candidati senza stellette e quelli che saranno "regolarmente" eletti nel Parlamento a sovranità limitata del 2010.

Quanto alle reazioni della Lady, qualcuno dei suoi amici intimi, da anni interdetti dal farle visita, ci spiega che il segreto della forza di Aung San Suu Kyi è nella meditazione, nell'abbandonare ogni forma di attaccamento alla realtà come essa appare. Ma tra le immagini che la Nobel della Pace ha proiettato per oltre due mesi su quel muro di Insein dov'è stata reclusa, non potrà mancare di certo il volto paonazzo e imbarazzato del 53enne americano che l'ha messa consapevolmente o meno nei guai: quel John Yettaw, arrivato una sera a casa sua con le contrazioni dei crampi alle gambe e le sue ridicole pinne improvvisate, capaci però di fargli completare a maggio la lunga traversata del lago Inya fino alla casa proibita degli Aung San.

Yettaw ha passato due giorni nel piano inferiore di University Avenue, ricevendo rifugio e cibo dalle due domestiche - madre e figlia - che condividono l'isolamento della Lady. "Ogni vero buddhista - ci dice un anziano monaco che insegna la filosofia agli stranieri - si sarebbe dovuto comportare allo stesso modo e concedere ospitalità. Anche i generali lo sanno, perfino i poliziotti che l'hanno arrestata e i giudici che hanno emesso la sentenza. Per questo mi aspetto che la condanna provocherà comunque quantomeno una ulteriore ondata di sdegno in tutto il Paese, che sia visibile o meno...".

Già all'inizio di agosto, quando era prevista in origine la lettura del verdetto, l'esercito aveva nemmeno troppo discretamente pattugliato gli incroci principali della ex capitale e di Mandalay, il centro del più largo dissenso monastico al regime. Ma l'11 agosto - giorno dell'annunciato verdetto - la presenza dei tadmadaw era ancora più massiccia, specialmente a bordo delle camionette che hanno scorazzato attraverso tutte le arterie principali cittadine, a cominciare dal distretto dove si trova Insein.

Il regime è determinato a non ripetere l'errore del 1990 quando la Lega nazionale della democrazia guidata in piazza da Aung San Suu Kyi vinse la stragrande maggioranza dei seggi. Per garantirsi il potere, i militari hanno non a caso posto stavolta delle clausole che garantiscono all'esercito il settanta per cento dei seggi nel nuovo Parlamento, qualunque sarà il risultato del voto. Nella stessa logica, la condanna per violazione dei termini di arresto - e l'amnistia graziosamente concessa dal generale Than Shwe - sono unanimemente considerati dei semplici espedienti legali per assolvere Rangoon di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Qui siedono tre dei più grandi alleati di Rangoon, la Cina, la Russia e l'India, tutti interessati al gas, alle strade e ai porti birmani, e forse anche all'uranio delle colline a sud di Taunggyi, dove secondo fonti locali lavora anche una grande impresa italiana tradizionalmente presente in Asia.

Di fronte a questi scenari sembrano improvvisamente ridicole le eco del caso Yettaw, comprese le ormai celebri "visioni" mistiche del mormone sui pericoli per la vita della Lady. I sospetti che possa essersi trattata di una trappola del regime, visto com'è andato il processo, sono sempre più forti. Ma nessuno sembra poterci fare niente, tanto meno The Lady, più lontana, evanescente e isolata che mai. Al punto che la sua stessa figura di leader alternativa ai generali sembra ogni giorno sempre più in forse.



La Birmania conta sul silenzio cinese.
Federica CANTORE
Fonte:EUROPA quotidiano

Il mondo protesta per la condanna di Aung San Suu Kyi nell’indifferenza di Pechino

La condanna a tre anni di lavori forzati per violazione degli arresti domiciliari inflitti dalla magistratura birmana ad Aung San Suu Kyi, segna un nuovo capitolo della lunga vicenda della leader dell’opposizione non violenta nel Myanmar. Se il mondo occidentale protesta con forza, è il silenzio di Pechino a ipotecare la liberazione della numero uno della Lega nazionale democratica.

Quella della Repubblica popolare è infatti l’unica voce che potrebbe avere un peso reale presso la giunta militare birmania, visto che sono cinesi l’87 per cento degli investimenti stranieri nel paese.

Ma la Cina, in Asia come in Africa, non è solita intervenire nelle questioni interne degli altri paesi, sia per motivi di interesse economico, sia per non rischiare di essere ripagata con la stessa moneta ed essere a sua volta attaccata in materia di diritti umani, Tibet e Xnjiang.

C’è poi un altro importante fattore che rende Pechino sostanzialmente impermeabile alle critiche internazionali, soprattutto statunitensi. La Repubblica popolare sa, infatti, che avendo investito il 70 per cento delle riserve cinesi in titoli americani (e soprattutto in obbligazioni governative), nemmeno Washington può esercitare pressioni oltre un certo limite.

Subito dopo la sentenza, però, Maung Oo, ministro degli interni birmano, ha annunciato che il generale Than Shwe, capo della giunta, ha deciso di ridurre la pena a un anno e mezzo di arresti domiciliari. Maung Oo ha dichiarato che è stato tenuto conto del fatto che Suu Kyi è la figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana Aung San, e della «necessità di preservare la pace e la tranquillità della comunità e di prevenire eventuali deviazioni dalla road map verso la democrazia».

Ed è proprio sul voto del 2010 che si gioca la partita. Con questa condanna, infatti, il regime birmano si è assicurato l’esclusione dalle corsa elettorale di Aung Suu, la numero uno della Lnd, che aveva vinto le ultime elezioni libere svolte del 1990 e immediatamente annullate dai militari.

C’è addirittura chi ritiene che dietro la rocambolesca avventura di Yettaw, il pacifista americano condannato a sette anni di lavori forzati, che nel maggio scorso ha raggiunto a nuoto la villetta del premio Nobel facendole infrangere così i domiciliari, ci sia proprio la giunta. Ad ogni modo è sicuro che Than Shwe ha approfittato dell’episodio per liberarsi di una scomoda rivale, nonostante la costituzione scritta dal regime (e fatta ratificare dalla popolazione nel bel mezzo della devastazione del ciclone Nargys) garantisca ai militari il 25 per cento dei seggi del nuovo parlamento.

«È una condanna ingiustificata, priva di ragioni e legittimità» ha commentato Piero Fassino, inviato speciale dell’Unione europea in Birmania. E dalla comunità internazionale arrivano forti critiche alla giunta. Hillary Clinton ha chiesto di rilasciare il premio Nobel e gli oltre duemila prigionieri politici. Il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki moon, ha espresso «delusione» e condannato «con fermezza» il verdetto, mentre l’Unione europea ha minacciato pesanti sanzioni, alla quale hanno fatto seguito Gordon Brown, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy che ha domandato di prendere di mira «le risorse dalle quali il regime trae profitto diretto, come i legnami pregiati e quello dei rubini».

Secondo alcuni analisti, la sentenza di ieri dimostra che la strategia di isolare la giunta a livello internazionale non sta funzionando e che si dovrebbe cambiare tattica cercando di puntare sulla costruzione di rapporti diplomatico-commerciali.

Ma senza Pechino i giochi sono fermi.

mercoledì 12 agosto 2009

delitto d'onore...giordania e italia

GIORDANIA
Delitto d'onore: uccisa dallo zio perché era stata stuprata
Ha sparato nove volte a una 16enne violentata dai cugini

Nuovo delitto d'onore in Giordania, il 14esimo dall'inizio dell'anno: un uomo ha ucciso una nipote di 16 anni, sparandole nove volte, per difendere l'onore della famiglia perchè la ragazza era stata violentata, secondo la stampa locale, dai suoi stessi cugini. Da quello stupro due mesi fa era nato un figlio dato alla luce con l'assenso e il sostegno dei genitori. Un affronto che però lo zio, venuto a conoscenza della vicenda solo quattro giorni fa, ha deciso di non lasciar correre: è entrato in casa della nipote con una pistola in pugno, si è diretto nella sua stanza e senza dire una parola, davanti al padre, le ha sparato mentre dormiva. Adesso, l'assassino dovrà scontare 15 giorni di carcere in attesa che il giudice formalizzi le accuse contro di lui. In galera sono anche i due responsabili dello stupro della ragazza. Nessuno dei tre però, se condannato, dovrà scontare una pena severa.

Ogni anno in Giordania, Paese in cui secondo l'Ong Human Rights Watch almeno il 50% delle donne è vittima di violenza domestica, vengono commessi in media 15-20 delitti d'onore che in base alla legislazione locale sono puniti con una pena che va da 3 mesi a massimo un anno di carcere. Mogli, madri, sorelle, figlie uccise dai propri parenti perchè sospettate di tenere comportamenti "sfrontati" o vittime di violenze sessuali, una storia che si ripete nella moderna Amman come nelle zone rurali. Una pratica contro la quale si sono impegnati in prima persona anche re Abdallah e la regina Rania, che per combattere i "delitti d'onore" ha lanciato un appello su YouTube. Ma i loro sforzi per modificare gli articoli 98 e 340 del codice penale giordano, che garantiscono le attenuanti ai colpevoli di questi crimini, sono finora falliti.

Delitto d'onore

Codice Penale, art. 587 Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.
Questo articolo della legge italiana è stato soppresso il 5 agosto 1981, solo 28 anni fa.

Cani: contano e sanno 200 parole come i bambini di due anni

Alla parola i cani sono arrivati già. Secondo un ricercatore canadese questi animali conoscono una media di 165 termini con picchi di 250 per gli esemplari più scaltri e riconoscono i numeri in sequenza fino a cinque.
«Per intelligenza, possiamo paragonarli a un bambino di due anni, due anni e mezzo» ha detto.
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E allora, pensiamo a cosa significa legare un bambino di due anni ad un palo a bordo strada, al sole e senza acqua, e lasciarlo lì mentre l'auto parte per le vacanze....Oppure farlo camminare in autostrada da solo in mezzo ai camion....
(greg)

QUANDO il padrone indica l' osso, il lupo guarda il dito mentre il cane corre verso l' osso.
«L' evoluzione e la convivenza con l' uomo hanno reso questi animali più intelligenti» sostiene Stanley Coren, psicologo dell' università canadese della British Columbia.
«Se potessi tornare sulla terra fra due secoli vedrei uomini e cani parlare insieme» ha detto sabato al congresso annuale dell' Associazione degli psicologi americani a Toronto.
Alla parola i cani sono arrivati già. Secondo il ricercatore canadese questi animali conoscono una media di 165 termini con picchi di 250 per gli esemplari più scaltri e riconoscono i numeri in sequenza fino a cinque.
«Per intelligenza, possiamo paragonarli a un bambino di due anni, due anni e mezzo» ha detto.
«E le loro sorprendenti scintille di creatività e brillantezza ci fanno capire che forse non sono degli Einstein, ma si avvicinano agli umani molto più di quanto non crediamo».
L' esperimento del dito che indica l' osso è stato eseguito effettivamente nel 2004 all' università di Harvard (con l' accortezza di usare dei cuccioli per evitare che i lupi preferissero mangiare i ricercatori invece degli ossi). Ed è dagli anni ' 90 che Coren raccoglie dati sui comportamenti dei cani per stilare la classifica delle razze più intelligenti.
I primi a parlare con noi, secondo i dati del ricercatore canadese, sarannoi border collie. Secondi per quoziente intellettivo sono risultati i barboncini, veri e propri outsider in una classifica dominata dalle specie che hanno affiancato l' uomo nel lavoro con le greggi. Al terzo posto ci sono infatti i pastori tedeschi seguiti da golden retriever, dobermann, shetland collie, labrador, i piccoli e antichi papillon, rottweiler e pastori australiani.
Nella classifica in negativo delle razze meno intelligenti spiccano invece levrieri afgani, bulldog, chow chow e pechinesi.
Oltre a riconoscere le parole, trovare il percorso più breve all' interno di un labirinto e riuscire ad aprire un semplice chiavistello se dietro li attende un premio,i cani secondo Coren sanno anche essere dei simpatici imbroglioni. «Durante il gioco, sono capaci di ingannare gli altri cani e i padroni pur di ottenere una ricompensa. Riescono a tendere all' uomo dei tranelli tanto intelligenti quanto quelli che l' uomo escogita per loro» spiega il ricercatore canadese, autore di una dozzina di best seller tradotti anche in italiano fra cui "L' intelligenza dei cani" e "Capire il linguaggio dei cani".
Al paragone coni bambini, il ricercatore è arrivato adattando dei test comportamentali usati per i cuccioli d' uomo e facendosi assistere da un gruppo di giudici di concorsi per animali. In comune con la nostra specie, secondo Coren,i cani hanno coscienza del proprio sé, sanno interpretare gli stati d' animo degli altri (sia a due che a quattro zampe) e i loro sogni sono popolati da personaggi e avventure della vita quotidiana, con gli animali di taglia più piccola che hanno un' attività onirica più ricca rispetto a quelli di stazza superiore.
«Per quanto riguarda l' intelligenza - dice ancora l' esperto canadese - il nostro modello è stato Rico, un esemplare di border collie che ha dimostrato di padroneggiare duecento termini e aveva una capacità di apprendimento straordinaria, simile solo a quella degli uomini e dei primati superiori».
Rico, un cane tedesco nato nel 2004, divenne oggetto di una serie di esperimenti al Max Planck Institute per l' antropologia evoluzionistica di Leipzig, pubblicati sulla rivista Science. «Se solo avesse un apparato vocale simile al nostro - ripetevano i suoi addestratori - non si limiterebbe a riconoscere duecento parole, ma saprebbe anche dialogare con noi». -

Repubblica — 10 agosto 2009 pagina 29 sezione: CRONACA ELENA DUSI

martedì 11 agosto 2009

che cosa non dice il prezzo del cibo?

A volte pensiamo che il cibo costi troppo. Eppure è il prodotto più importante: è l'unico che mettiamo nel nostro corpo. Ed è incredibile che il suo valore appaia inferiore a quello di altri oggetti di consumo.

Se osservate un ragazzo che acquista un lettore dvd o un i-Pod, ad esempio, lo vedrete molto concentrato a capire: lo interessano il produttore per la qualità e l'assistenza, i componenti, le funzionalità offerte, la flessibilità di utilizzo, il luogo di produzione, il prezzo (ma non come criterio principale).
Col cibo questa attenzione si rovescia. Quello stesso consumatore così attento alla tecnologia, quando si tratta di fare la spesa, cioè quando deve soddisfare "il" bisogno primario, sceglie soprattutto in funzione del risparmio, senza farsi troppe domande su cosa porterà dentro il suo corpo. È un paradosso che vediamo ogni giorno. Né la crisi può valere come giustificazione: la consapevolezza di aver fatto una spesa buona, pulita e giusta può davvero farci star bene nel corpo e nello spirito.
Credo che sia, fondamentalmente, una questione di messaggio. La comunicazione sull'hi-tech, per esempio, è più efficace di quella sugli alimenti, ferma a un modello noioso e stereotipato. Quando nel 1973 Paul Bocuse scrisse La cuisine du marche, fece una rivoluzione. Se da un lato introdusse due elementi di semplicità - cucino ciò che di fresco mi offre il mercato stamani e riduco i tempi di cottura - dall'altro curò la creatività e la comunicazione: presento il piatto in modo emozionale e descrivo accuratamente gli ingredienti.
Chi lo riceve ha il diritto e il dovere di conoscere gli ingredienti, come è stato preparato e perché si privilegia quel metodo rispetto a tutti gli altri possibili. Oggi percepisco un vuoto di racconto, di narrazione: qualcuno deve raccontare nuovamente la storia delle patate coltivate a 1.500 metri. Far sapere che a quella quota la dorifora, temibile parassita combattuto a colpi di quintali di anticrittogamici, non sopravvive. Spiegare la differenza tra grano tenero e grano duro o che il tonno rosso, quello buono, viene dal Mediterraneo. 0 ancora, precisare che quel pane costa di più perché chi lo fa, sempre allo stesso modo da generazioni, usa lievito madre, farine biologiche macinate a pietra e forni a legna. Così ci accorgeremo che nel cibo la differenza di prezzo tra alta qualità e standard non è alto come pensiamo. Anzi: è addirittura più basso rispetto ad altri settori, come abbigliamento o automobili. Mangiare meglio ci costa meno che indossare una maglietta più soffice o guidare un'auto più affidabile.

Oscar Farinetta
Imprenditore, è l'inventore di Eataly, supermercato di gastronomia italiana, e autore di Coccodè, Giunti editore

La repubblica delel donne 8 AGOSTO 2009

domenica 9 agosto 2009

Fernando Meirelles - Blindness

Ogni volta che Fernando Meirelles, regista brasiliano 52enne, gira un film fa scalpore.
È stato così per l'ottimo City of God (2002), per The Constant gardener -La cospirazione (2005), lo è per Blindness - Cecità, che ha aperto il Festival di Cannes 2008 e ora approda in sala.
Il nuovo, discusso film è ispirato al capolavoro del Nobel portoghese José Saramago, una sorta di thriller filosofico, uscito nel '95, dove un'epidemia che provoca la cecità si diffonde di colpo in una città senza nome, sbriciolando alle fondamenta quella società.

Per vincere la sua sfida, Meirelles ha puntato sull'interpretazione dei bravissimi Julianne Moore (The Hours). e Gael Garcia Bernal (Babel). Lo Tsunami nel 2003, l'uragano Katrina 2 anni dopo, le emergenze sanitarie nel subcontinente africano: l'incessante serie di catastrofi planetarie l'ha spinta a raccontare il flagello descritto da Saramago? «Da tempo volevo procurarmi i diritti del libro. Ma Saramago non era daccordo, riteneva che fare un film dal suo libro sarebbe stato mal recepito dall'opinione pubblica. La cosa che m'ha affascinato la prima volta che l'ho letto è stata la percezione della fragilità della specie umana allo stadio attuale dalla nostra civilizzazione. Ci sentiamo solidi e forti, ma un solo evento catastrofico basta a farci tornare agli isitinti dell'età della pietra. Sconvolgente ma vero».
Bel rischio cimentarsi con un testo letterario di quel livello, non crede? «Confesso d'aver avuto dei dubbi: partendo da così in alto, il rischio di fallire è fortissimo. Wilder diceva: "Se devi fare un film ispirato a un romanzo, cercane uno scarso...". Invece ho rischiato. E quando, dopo anni, m'è arrivata la sceneggiatura da Don McKellar, mi sono tuffato nel progetto. I
dubbi iniziali sono tornati dopo, quando ho realizzato che il romanzo di Saramago ha influenzato milioni di lettori, nel mondo».
Cosa ci dice, nel profondo, il romanzo? «Ti porta alla consapevolezza di quanto sia vicino il rischio che il nostro mondo imploda su se stesso. Come ci comporteremmo se all'improvviso perdessimo la vista? 0 se qualcosa ci riportasse a un'esistenza in cui i soli istinti che contano sono il sesso e il cibo? Il tema è: un gruppo di esseri umani che in circostanze eccezionali riesce a sopravvivere e impara a vedere la vita con occhi nuovi. Un'allegoria sulla nostra cecità».
Ha parlato con Saramago mentre girava? «Una sola volta, a cena, a Lisbona. Per prima cosa gli chiesi perché la moglie del dottore è l'unica a non diventare cieca. Mi rispose: "Non lo so". Mi fece capire benissimo che non voleva essere coinvolto».
La grazia del romanzo corre sul filo sottile teso tra l'orrore della situazione disumana e l'ironia amara di certe sequenze. Come ha gestito questo equilibrio? «La prima volta che lessi il romanzo mi colpi l'elemento drammatico e claustrofobico della vicenda. Poi mi sono saltati agli occhi gli elementi comici che Saramago sparge qua e là nella storia: dove racconta il comportamento del governo il romanzo trabocca di sarcasmo. Se rigirassi il film, aggiungerei molta più ironia. Comunque ci sono già un paio di scene decisamente buffe».
Quando Bernal canta Stevie Wonder... «Quello era nato come uno scherzo durante una pausa, tutto improvvisato. La troupe è rimasta di sasso, poi è scoppiata a ridere: ho pregato Gael in ginocchio per farlo cantare di nuovo a cineprese accese...».
All'inizio, la scelta dell'attore per il personaggio dell'anonimo dottore era Sean Penn, ma lui s'è tirato indietro. Perché? «Mi disse: non posso lavorare su una figura senza nome, senza una storia alle spalle. Ma Saramago ha creato i personaggi senza riferimenti biografici e io ho rispettato la
scelta: la storia funzione bene, saperne di più su di loro sarebbe del tutto superfluo».
Gli altri attori hanno avuto problemi? «Ho chiesto a Bernal se per lui era un problema interpretare un personaggio senza storia. A lui non interessano gli sfondi biografici. "Quando inizio a girare", m'ha detto, 'l'unica cosa che m'interessa è cosa vuole il mio personaggio, dove pensa d'andare».
Nelle reazioni del pubblico ha notato differenze riconducibili a diversità culturali?
«Il film è uscito in Canada, Brasile e Usa: solo lì il pubblico s'è sentito "oltraggiato" perché la moglie dei dottore, Julianne Moore, non uccide il despota dopo la prima violenza carnale. La violenza carnale è un fatto orrendo ma solo per gli americani è naturale ammazzare subito il colpevole».
Nel romanzo i personaggi diventano ciechi all'improvviso, e senza motivi apparenti. «Difficile creare al cinema una situazione cosi, gli spettatori devono sentirsi come persi in un labirinto. Ci sono tanti trucchi per far perdere l'orientamento al pubblico. Quando i protagonisti sono chiusi nell'istituto dopo che hanno perso la vista, per 15 minuti in cui i dialoghi sono fuori campo, il pubblico prova le stesse sensazioni dei ciechi davanti allo schermo: sentono parlare delle persone senza poterle vedere».
La sua pellicola è una sfida ai sensi... «All'inizio abbiamo reso lo straniamento con lenti sfocate, poi un gioco di specchi mostra in contemporanea i personaggi da punti di vista differenti, deformando le immagini. È un effetto un po' cubista».
Ha provato come si sta senza vedere? «Mi sono bendato gli occhi 2 volte per 5 ore, mi muovevo toccando i muri con la testa. Provi a bendarsi a tavola, con gli amici. La conversazione cambia subito, se si sa dì non essere visti da altri. Ti ritrovi a raccontare cose intime, che mai diresti davanti ad altri. Come quando bevi un po' troppo».
1 AGOSTO 2009, la Repubblica delle donne

foto naturalistiche

un bel sito segnalatomi da Roberto & Cristina (grazie!)
http://www.juzaphoto.com

e anche questo:

www.simonetossani.it

Battiato: Sud, un vulcano che esploderà

"...in tutto il Sud c’ è un’ economia sommersa di natura criminale, mafiosa, che non solo fattura cifre pazzesche, ma che poi va a reinvestirle, appunto, proprio al Nord".


Battiato: Sud, un vulcano che esploderà
Qui è la mafia a dare posti di lavoro

ROMA - «D’istinto, di pancia, mi verrebbe da dire che non esiste alcuna differenza tra Nord e Sud. Perché quando salgo a Milano trovo gli stessi poveri di Palermo, e poi anche la stessa arroganza di tutti gli altri, la stessa deriva tribale, violenta, la voglia di sopraffare, di sfoggiare muscoli e ignoranza, trovo l’ identica insofferenza al giusto, al bene comune…».
Lei è un intellettuale, provi a non rispondere di pancia. «Allora le dico che il Sud è seduto su un vulcano, un vulcano non di natura geologica, ma sociale. E sebbene questo vulcano stia per esplodere, i politici fanno finta di nulla, anzi si appassionano in discussioni sostanzialmente inutili, come è in fondo anche quella scatenata dagli ultimi dati forniti da Bankitalia».
(Questa intervista a Franco Battiato - geniale autore sempre in bilico tra sperimentazione e leggendari album da milioni di copie, e poi regista, scrittore, studioso di meditazione orientale e persino capace, nonostante l’ aspetto austero, di slanci di purissima ironia - era cominciata con lui che, gentilmente, chiedeva di non essere chiamato maestro. «Sa, fossimo in Francia, il termine avrebbe un senso: ma qui…»).
Lei è siciliano e vive a Milo, tra il mare e l’ Etna. I politici che… «Che commentano pomposi lo studio della nostra Banca centrale secondo cui al Sud la vita costa il 16,5% in meno? Ah! Ma non uno che dica quanto qui conti una certa solidarietà familiare, dove il padre aiuta il figlio disoccupato, e soprattutto zitti, tutti zitti sull’ aspetto più eclatante della faccenda: e cioè che in tutto il Sud c’ è un’ economia sommersa di natura criminale, mafiosa, che non solo fattura cifre pazzesche, ma che poi va a reinvestirle, appunto, proprio al Nord».
Scenario complesso. «Complesso? Colluso».
Questa è un’ affermazione pesante. «Questa è la verità».
Battiato, la spieghi. «Chi è che governa il Sud? Loro. Chi è che incassa le tasse? Loro. Chi è che poi i soldi delle tasse non li tramuta in beni pubblici, tipo autostrade, ospedali, scuole? Loro… e allora io le chiedo: questi politici sono credibili?».
Intanto esponenti del Pdl e del Mpa di Lombardo pensano di fondare un partito del Sud. «Pensano a una Lega del Sud. No, l’ idea mi fa orrore».
Promettono di interessarsi concretamente ai problemi del Meridione… «Sono centocinquanta anni, è dal giorno in cui l’ Italia fu unita su un pezzo di carta che il Sud o viene dimenticato, oppure usato. Sa perché sono a favore del Ponte sullo Stretto? Solo perché darebbe la sensazione materiale di unire».
Lei è pessimista. «No. Sono realista. Per capirci: leggo che il ministro Tremonti starebbe pensando a una Banca per il Mezzogiorno…»
Tremonti pensa potrebbe aiutare lo sviluppo delle imprese meridionali… «Senta, possono fondare tutte le banche che vogliono. Prima però devono riuscire a far vincere gli appalti agli imprenditori onesti, e non alle cosche. Prima devono garantirci che le case, in Abruzzo, non verranno ricostruite dalle stesse ditte che, nei pilastri, invece del cemento, misero la sabbia».
Lei è assolutamente pessimista. «Io la sera accendo la televisione e ascolto i tigì. Poi, al mattino, acquisto i giornali. E cosa trovo? Trovo questi signori che non parlano mai del Paese reale, che soffre, che non arriva alla fine del mese… non gli sento mai dire che al Sud il numero dei disoccupati è diventato enorme e che se non ci pensassero mafia, camorra e ‘ ndrangheta a fornire posti di lavoro, sarebbe un guaio».
Come ne usciamo? «Io credo che l’ intero Paese vada rieducato». Rieducato? «Senta, è del tutto evidente che qui non è più un problema di destra e sinistra. Il punto politico è recuperare etica, morale, dignità, senso dello Stato».
Gli studenti più bravi sembra siano al Sud. Si sospetta però aiutati da insegnanti indulgenti nei giudizi. «Lei cita statistiche, inutili statistiche. Come si fa a capire se un professore è largo di manica? L’ unica certezza è il lessico usato dai leghisti: ecco, quello testimonia, detto tra noi, che al Sud, probabilmente, si studia meglio».

Fabrizio Roncone

Corriere della Sera, 6 agosto 2009

Le vite incomprese

LE VITE INCOMPRESE
guardo intorno e tutto ciò che riesco a vedere sono una scuola e un mondo che possono andare avanti anche senza di me. Sono venuta al mondo per caso. La mia morte, ne sono sicura, non tarderà. E non potete far finta di non vedere. (Nota lasciata, da una quindicenne suicida).

Le scrivo perché un ragazzo di un liceo cittadino si è suicidato. Non lo conoscevo, ma immagino che fosse un ragazzo come tutti quelli della sua età, e i suoi amici me l'hanno confermato: estroverso, sensibile, luminoso, ricco di curiosità e interessi. Il giorno prima ha spento il cellulare. Ha scritto alcune lettere. La mattina presto è uscito di casa come se si fosse trattato di un giorno qualunque. A scuola non è mai arrivato. Ha parcheggiato ordinatamente il suo motorino e ha raggiunto la torre del castello. Oggi i suoi compagni e amici, accomunati da un pianto composto e silenzioso, hanno lasciato nella camera ardente una poesia che Alberto, così si chiamava, aveva scritto la scorsa estate. La trascrivo fedelmente: "Sono riuscito a legare con tutti. Sono riuscito a nascondere emozioni verso persone. In realtà c'erano. Sono riuscito a esprimere cose di me. In modo negativo. In parte anche positivo. Sono timido. Una timidezza che riesco a combattere. Dicendo cose non tanto sensate. Non le capiva nessuno. Sicuramente neanche io. Non mi davano ascolto. Altri invece capivano. Riuscivo a fare un discorso. Senza ridere. Credo sia riuscito a lasciare qualcosa di me. In ogni persona del gruppo. Positiva o negativa. Come loro. Mi hanno lasciato alcune cose". Maria Carla Scorza, Brescia mcscorza@tlscali.lt

Chi sono questi ragazzi che. senza nulla dire, se ne vanno per sempre con la stessa semplicità con cui escono di casa? In Italia, infatti, tra i giovani sotto i 25 anni, il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti automobilistici, che solo per un differente livello di coscienza possiamo tenere distinti dai suicidi veri e propri.
So che la prevenzione al suicidio degli adolescenti non rientra nei programmi ministeriali della nostra scuola, ma non sono pochi i giovani che si tolgono la vita o tentano di farlo. Ci provano più di frequente le ragazze, riescono a farlo con più determinazione i ragazzi.
Quando non se ne vanno muti, per la sfiducia nell'ascolto da parte degli adulti, una sfiducia che hanno sperimentato nella loro breve esistenza, abbandonano messaggi come questo, dove in apparenza non traspare nulla di drammatico, se non l'assoluta irrilevanza della propria vita, passata inosservata a quanti sono così assorbiti dalla loro vita da non scorgere minimamente lo scollamento della vita altrui. Invito i genitori che si accorgono di avere dei figli solo quando questi deragliano dalle loro attese, e i professori che pensano di aver davanti una "classe" e non "tante facce diverse", da guardare davvero a una a una, senza nascondersi dietro la scusa che non si è psicologi, a riflettere su questa pagina che Freud scrisse nel 1909: "La scuola deve fare qualcosa di più che evitare dì spingere i giovani al suicidio. Essa deve creare in loro il piacere di vivere, e offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo a allentare i legami con la casa paterna e la famiglia. Mi sembra incontestabile che la scuola non faccia ciò. e che per molti aspetti rimanga al di sotto del proprio compito, che è quello di offrire un sostituto della famiglia e di suscitare l'interesse per la vita che si svolge fuori, nel mondo. Non è questa l'occasione di fare una critica della scuola nella sua attuale struttura. Mi sia tuttavia consentito di mettere l'accento su un singolo punto. La scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non sì deve assumere la prerogativa dì inesorabilità propria della vita; non deve essere più che un gioco di vita".
Non si travisi questa pagina di Freud come un invito alla nostra scuola a rinunciare alla disciplina e all'istruzione per privilegiare la cura psicologica dei nostri ragazzi. Ma il modo di disciplinare e istruire richiede quell'attenzione alle differenze individuali che già i medici, per esempio, adottano nell'applicare i loro protocolli, modificandoli a seconda della particolare condizione patologica del paziente. E se questo vale per i corpi, perché non deve valere per i percorsi delle esistenze giovanili, oggi così precarie, incerte, confuse, prive di riferimenti, al punto da prevedere anche la morte autoinflitta, in quella primavera della vita che dovrebbe far sbocciare fiori, invece di vederli reclinare nella de-motìvazione e nella depressione, fino a quel punto irreversìbile dove la morte sembra preferibile a una vita incompresa, cui nessuno ha prestato davvero attenzione.

Umberto Galimberti, la repubblica delel donne, 1 agosto 2009