martedì 30 giugno 2009

basta coi mozziconi (e non solo in spiaggia!)

Non c’è niente di più «usa e getta» della sigaretta e pare che a farne le spese sia il mare trasformato in un gigantesco posacenere. Ce lo racconta una ricerca dell’Unep (le Nazioni unite per l’ambiente) che ha catalogato i rifiuti marini per quantità. Risulta che il 40% del pattume tra le onde si compra in tabaccheria, tra mozziconi di sigarette, sigari e pacchetti vuoti.

Molto più della plastica, al secondo posto di questa poco invidiabile classifica con bottiglie, buste, posate, piatti e cannucce. E se è vero che «i rifiuti marini sono sintomo di un malessere globale» come afferma il direttore dell’Unep Achim Steiner, c’è da stare poco allegri.

Da Rimini parte però un segnale forte contro la sporcizia del mare. Con un sistema di vasche che raccolgono le acque piovane, si intercettano i rifiuti che la pioggia dilava dalle strade, compresi i famigerati mozziconi. «In questo modo - spiega il sindaco Alberto Ravaioli - evitiamo che in mare finiscano grandi quantità di immondizia, mentre sulle nostre spiagge, da anni, i bagnini raccolgono le «cicche» alla fine della giornata recuperando tonnellate di mozziconi». L’allarme delle Nazioni unite non appare nuovo a Legambiente, da anni impegnata con la «Goletta verde» a scandagliare il Mediterraneo mettendo in guardia dai pericoli di rifiuti e inquinamento. «Certamente i mozziconi sono un rischio che va stroncato anche perché i filtri trattengono quantità enormi di veleni» spiega il vicepresidente Sebastiano Veneri. «Nelle nostre campagne di pulizia periodiche sulle spiagge abbiamo però riscontrato che in assoluto il rifiuto quantitativamente più consistente è rappresentato dai ‘cotton fioc’col bastoncino di plastica non biodegradabile».

Il problema dei mozziconi, preoccupa anche i titolari dei bagni delle località costiere. Lo sa bene Giorgio Mussoni, 72 anni, presidente dei bagnini di Rimini, ex marinaio ed ex accanito fumatore. «Nel mare, si sa, c’è di tutto, anche i resti delle sigarette, ma da tempo noi ci siamo attrezzati» avverte. «Sotto gli ombrelloni abbiamo messo i posacenere e tutte le sere passiamo coi retini per raccogliere le ‘cicche’ di quelli che usano la sabbia per spegnere la sigaretta». Una bella campagna di prevenzione per evitare che i fondali dell’Adriatico soffochino sotto una coltre di rifiuti. Ma in spiaggia si comportano tutti in modo disciplinato? A questa domanda l’attore Alessandro Haber, fumatore incallito, alza le mani e si arrende: «Lo so, confesso, è tutta colpa mia» confida scherzosamente. «Se trovo un posacenere la metto lì, ma se non c’è… È vero, dovrei dare l’esempio e occorrerebbe che lo facessi, ma assicuro che per il resto - continua - sono ecologista: voglio bene agli alberi, alle balene e ai panda, però per favore lasciatemi fumare».

La soluzione non è certo proibire secondo l’ex direttore di Rai3 Angelo Guglielmi che premette di non essere un assiduo frequentatore di spiagge: «Ci vuole una grande campagna di educazione con altoparlanti in riva al mare che ripetano ogni ora di non buttare i mozziconi sulla sabbia. Dico questo perché sono antiproibizionista tranne che per le droghe». Giuseppe Montanari, responsabile del monitoraggio della motonave «Daphne» che controlla le coste romagnole, non nega il problema dei mozziconi, ma avverte che i pericoli vengono dai fosfati e dai nitrati che, in certi periodi dell’anno, provocano l’eutrofizzazione e la mancanza di ossigeno nel mare con conseguenze molto gravi. Oltre alle sigarette, ci sono gli scarichi industriali, civili e la zootecnia dell’intera valle padana. Anche Veneri mette in guardia dall’inquinamento chimico. «Nel Mediterraneo - spiega - c’è la più alta percentuale di catrame del mondo, 38 milligrammi per metro cubo, oltre a 85 mila tonnellate di metalli pesanti e 900 mila di fosforo»

Bernard de Ventadorn - Bianca Dorato

«Dicono che nella mia poesia dove prevale la montagna invernale ci sia un senso di fine, di desolazione: io non l'ho mai intesa così. L'inverno è la stagione del sonno, dell'attesa, del sogno. Tutt'altro che una stagione di morte, ma una promessa di vita che, invisibile aspetta il richiamo della primavera» (Bianca Dorato)

Bernart de Ventadorn, amico caro / come potete rinunciare al canto / quando sentite di notte e di giorno / l'usignolo ricominciare contento? Ascoltate la felicità che regala! Tutta la notte canta tra i fiori: / d'amore ne sa più di voi»: questi versi provenzali, nella traduzione e interpretazione di Piero Marelli, mi fanno tornare alla mente quel passo della Bhagavad Gita che risuona: «Quegli che ha raggiunto l'equilibrio nel Brahman gioisce di un'imperitura felicità». Giacché mi sembra chiaro che l'uomo nel seguire il percorso mentale dell'immaginazione ha perduto qualcosa persino della felicità naturale che suscitano le cose e le persone attorno a noi. So che Marelli ha lavorato per anni alla versione dei poeti di Provenza, e questo
di Bernart de Ventadorn è il primo di una serie di tre libri, e si avvale dell'intelligente prefazione di Carlo Armoni che, citando la celebre «Can vei la lauzeta mover», ricorda l'imitazione dantesca: «Quale al-lodetta che 'n aere si spazia / prima cantando e poi tace contenta / de l'ultima dolcezza che la sazia». E mi pare appropriata anche la definizione di «traduzione esegetica, nel senso che il canto nuovo non si misura con il canto antico, ma lo pone davanti allo specchio e ne dà un ritratto, perché poi si torni, si tenti di ritornare all'originale». Grazie dunque a questo poeta che, nato a Limbiate (Mi), ha dietro le spalle un lungo lavoro sulla poesia e la pubblicazione dei molti libri, da Stralusc, Scheiwiller, 1987, a Edipo a Verano Brianza, Scheiwiller, 1998.
E mi sembra opportuno appaiare a questo ritorno occitanico anche il bel libro di una stupenda poetessa scomparsa lo scorso anno, Bianca Dorato, a cui il Centro studi Biagio Marin per la cura sapiente di Anna De Simone ha voluto dedicare I lenti giorni, scelta antologica 1984-2006 con una prefazione di Giovanni Tesio. Scrive la De Simone: «Quando la Dorato mi mandò la sua prima raccolta di versi, Tzantelei-na, questo libro di straordinaria bellezza mi ha molto aiutata in un momento drammatico nella vita della mia famiglia, trasmettendomi la forza di una parola nuova, avvolta in una luce metafisica abbagliante».
E, a proposito della «lauzeta» di Bernart, a me pare un analogo sentire in questi versi diPassagi della Dorato: «Tanta dolcezzaha cantato intorno a te - Tanta dossor a l'ha cantate antorn» e inDrere 'd lus: «Sul culmine della vetta bevevamo la gioia / senza misura, gioia e luce insieme
- Sei co dla bécca i beivio la gòj / a l'argalada, gòje lus ansema». Non starò a ripetere la lunga sequenza di libri che questa poetessa ci ha offerto, avendone già tanto parlato da queste pagine. Ma forse per i lettori è più utile conoscere un brano del suo ultimo scritto intitolato Percorsi di vita e di poesia che è allegato al volume: «Dicono che nella mia poesia dove prevale la montagna invernale cisia unsenso di fine, di desolazione: io non l'ho mai intesa così. L'inverno è la stagione del sonno, dell'attesa, del sogno. Tutt'altro che una stagione di morte, ma una promessa di vita che, invisibile aspetta il richiamo della primavera». Basta leggerla la sua poesia per comprendere questa gioiosa promessa.
O Bernart de Ventadorn, «La dousa vota ai auzida - La dolce voce ho ascoltato», interpretazione di Piero Marelli, La vita felice, Milano, pagg. 258, € 13,50; O Bianca Dorato, «I lenti giorni, poesia 1984-2006», a cura dì Anna De Simone, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma, pagg. 76, s.i.p.

sole 24 ore, 26 ottobre 2008, Franco Loi

le rivoluzioni francese e americana

«We, the Revolution»
A differenza di quella francese che sfociò nel Terrore, la Rivoluzione americana pose le basi della democrazia moderna.
Non si ispirava alla Volontà Generale di Rousseau ma a Montesquieu e alla sua teoria della divisione dei poteri.

Il significato moderno di "rivoluzione", strettamente connesso con l'idea che il corso della storia ricominci improvvisamente dal principio, che stia per iniziare un'epoca interamente nuova, mai vissuta né narrata finora, era sconosciuto nel Seicento. In realtà esso nasce solo con le due grandi rivoluzioni della seconda metà del Settecento: la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese. Ma, a veder bene, fu la Rivoluzione francese e non quella americana - dice giustamente Hannah Arendt nel suo libro On Revolution - che mise a fuoco la parola, e di conseguenza fu dal corso della Rivoluzione francese, e non dal corso degli avvenimenti in America o dagli atti dei Padri Fondatori, che il nostro uso della parola "rivoluzione" ricevette le sue connotazioni e le sue sfumature. La verità, afferma ancora Hannah Arendt, è che la Rivoluzione francese, che terminò nel disastro, è diventata storia del mondo, mentre la Rivoluzione americana, che terminò col più trionfante successo, è rimasta un evento poco più che locale.
Fu la Rivoluzione francese a esercitare sullo spirito europeo un fascino straordinario, col suo mito della liberazione totale dalla povertà e dal bisogno, con la sua aspirazione palingenetica a ricostruire la società ab ìmis fun-damentis, col suo obiettivo di ricostruire un mondo interamente nuovo, senza più legami col passato. E dunque, è solo con la Rivoluzione francese che la parola "rivoluzione" si carica di tutti i significati emotivi e ideologici che la caratterizzeranno nell'Ottocento e nel Novecento (e che saranno fatti propri dal marxismo); è solo con la Rivoluzione francese che nasce quello "spirito rivoluzionario" nel quale si riconosceranno tutti! rivoluzionari europei (Lenin si richiamerà espressamente al giacobinismo).
Si potrebbe anche dire che la Rivoluzione americana fu una rivoluzione liberale (nel senso lockiano-montesquiviano di questa parola), mentre la Rivoluzione francese fu una rivoluzione democratica (nel senso rousseauiano-giacobino di questa parola). E ciò, in primo luogo.peridue punti di partenza socio-
politici, radicalmente diversi, delle due rivoluzioni. «È innegabile - dice Hannah Arendt -che la Rivoluzione americana ebbe una singolare fortuna. Avvenne in un paese che non conosceva la povertà di massa e fra un popolo che aveva un'ampia esperienza di autogoverno; senza dubbio una delle sue buone fortune, e certo non la minore, fu che la rivoluzione sorse da un conflitto con una monarchia costituzionale; In quel governo di re e parlamento da cui si staccarono le colonie non vi era potestas legibus soluta, non vi era potere assoluto al di sopra della legge». Completamente diversa la situazione nella Francia settecentesca, terribilmente oppressa dalla povertà, e in cui, una volta scoppiata la rivoluzione, questa sarà continuamente incalzata dal ribollimento della plebaglia delle grandi città, dalle rivendicazioni delle masse misere. Inoltre la Francia non aveva mai conosciuto libere istituzioni, era vissuta sempre sotto la cappa della monarchia assoluta. Ed è fin troppo naturale che una rivoluzione sia predeterminata dal tipo di governo che essa abbatté: «Nulla perciò appare più plausibile che spiegare il nuovo assoluto, la rivoluzione assoluta, mediante la monarchia assoluta che la precedette, e concludere che quanto più assoluto è il sovrano, tanto più assoluta sarà la rivoluzione che lo rovescia e lo sostituisce». Così a una monarchia assoluta succedette una dittatura dispotica; ovvero a una monarchia assoluta, che aveva collocato un elemento assoluto, la volontà del principe, nel cuore dello Stato, succedette un regime che si fondava (o diceva di fondarsi) su una volontà assoluta, quella del popolo. In questo quadro si spiega il fatto che la Rivoluzione americana si ispirò largamente a Montesquieu, mentre la Rivoluzione francese si ispirò largamente a Rousseau (che aveva ripreso la propria teoria della sovranità dalla concezione assolutistica di Hobbes). Su questo punto l'Autrice ha osservazioni molto fini: «Quella che gli uomini della Rivoluzione americana consideravano una delle più grandi innovazioni del nuovo governo repubblicano, ossia l'applicazione e l'elaborazione della teoria di Montesquieu sulla divisione dei poteri all'interno dello Stato, ebbe un ruolo assolutamente secondario nel pensiero dei rivoluzionari europei di tutti i tempi: fu respinto subito, ancor prima dello scoppio della Rivoluzione francese, da Turgot per rispetto della sovranità nazionale, la cui "maestà" - e majestas era stato il termine originale di Jean Bodin, che poi egli tradusse con souveraineté - esigeva manifestamente un potere centrale indiviso». Su questo punto gli uomini della Rivoluzione francese furono tutti d'accordo, non meno di quanto gli uomini della Rivoluzione americana furono d'accordo sulla necessità di limitare il potere del governo,
Anche sulla "volontà generale" rousseauiana, e sul ruolo che essa ebbe durante la Rivoluzione francese, l'Autrice ha osservazioni molto acute. La vecchia teoria, ella dice, che insisteva sul consenso popolare come requisito necessario per un governo legittimo, era inservibile per Robespierre e per i giacobini. La loro dittatura escludeva che essi potessero misurare realmente il consenso popolare; essi ritenevano di incarnare la volontà del popolo. Ora, tale volontà del popolo che essi ritenevano di incarnare era appunto la volontà generale teorizzata da Rousseau: ovvero una volontà che sostanzialmente escludeva ogni processo di scambio di opinioni e ogni eventuale tentativo di mediare fra opinioni diverse. La volontà, se deve agire, deve essere una e indivisibile («Il faut une volonté UNE!»).
Tutt'altra la posizione degli uomini della Rivoluzione americana: essi si opponevano alla pubblica opinione concepita come potenziale unanimità di tutti; essi sapevano che la vita pubblica, in una repubblica, era costituita da uno scambio di opinioni fra eguali,"e che questa vita pubblica sarebbe semplicemente scomparsa nel momento stesso in cui questo scambio fosse divenuto superfluo, in quanto tutti gli eguali si trovavano ad avere la stessa opinione. Nelle loro argomentazioni essi non si riferirono mai alla opinione pubblica nel modo in cui lo facevano invariabilmente Robespierre e gli uomini della Rivoluzione francese: ai loro occhi il dominio dell'opinione pubblica, concepita come un blocco compatto, era una forma di tirannia. ...
Dunque, per Hannah Arendt il faro di luce della storia moderna è la Rivoluzione americana, non la Rivoluzione francese. Perché la prima ha assicurato ai cittadini la libertà politica, mentre la seconda è finita nel disastro del Terrore.

Anticipazione dal libro di Giuseppe Bedeschi,
Liberalismo vero e falso, di imminente pubblicazione presso
la casa editrice Le Lettere di Firenze.

il sole 24 ore, 9 novembre 2008

Prigioniero di Facebook

Ecco perchè non mi sono (ancora.....?) iscritto a facebook.....gg

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Da settimane incontro soltanto persone che mi dicono disperate che vogliono uscire da Facebook ma non riescono a farlo. Lo dicono con gli occhi sbarrati e l'espressione di chi chiede aiuto da dietro le inferriate di una galera. Mi sembrano detenuti che dall'alto urlano a chi passa lì sotto, infilano le braccia oltre le sbarre a rimestare nell'aria. Hanno tutta la disperazione di chi sa che il secondino se n'è andato lanciando la chiave nel fiume. È strano pensare che quelle stesse persone fino a un mese fa mi dicevano che senza Facebook non ci potevano stare, che grazie a Facebook si sentivano meglio.

Soprattutto, mi ripetevano che dovevo provarla anch'io, quest'esperienza, perché essere dentro o essere fuori, era come prendere parte alla vita oppure essere morto. Essere «in» oppure essere «out». C'è stato un momento, che perdura, in cui era impossibile sfuggire a conversazioni che non avessero a che fare con Facebook. Qualunque fosse l'origine della discussione, qualunque fosse il fiume di parole che veniva giù dalle bocche delle persone, il mare in cui andava a finire era sempre quello di Facebook.

C'erano amici che quando mi incontravano per strada mi chiedevano «Ci sei su Facebook?». Che era come dire «È inutile perdere tempo qui sul marciapiede, con le macchine che passano, i clacson che non ci fanno parlare, il telefonino, la fretta». «Ci sei su Facebook?», e poi mi piantavano in asso. Li vedevo andar via di schiena, il cellulare tra l'orecchio e la spalla, in mano l'agenda e davanti gli altri che si aprivano come il Mar Rosso davanti a Mosè. Se parlavano di qualcuno, ne parlavano per dire che l'avevano incontrato su Facebook.

Un vecchio amico, un professore di liceo dimenticato, un ex vicino di ombrellone. Persino in questi giorni, quando si parla della vittoria epocale di Obama, si dice che è stata epocale anche perché c'era Facebook.

Così sono entrato «in» pure io. L'ho fatto un po' per sfinimento e un po' per riuscire a parlare con quegli amici che per strada mi piantavano in asso dandomi poi appuntamento su Facebook.

In strada erano sempre di corsa, su Facebook stavano a parlare per ore. Perché «in» è tutto molto più tranquillo. Il mio ingresso l'ho fatto una sera di un paio di mesi fa, seguendo con attenzione le procedure. Ci sono entrato con la leggera apprensione che mi imperla le tempie ogni volta che mi avvicino a un oggetto con funzionamento appena più complesso della televisione. Di Facebook sapevo quasi tutto quel che c'era da sapere. Sapevo che si trattava di aprirsi una pagina personale, di scegliere una foto, di inserire qualche informazione su di me, la mia data di nascita, il mestiere, le mie passioni. Lo sapevo perché un'amica mi aveva fatto vedere la sua pagina. Quando l'avevo vista avevo capito che si trattava di aprirsi una specie di loculo, una tomba con la foto che guarda in faccia i passanti, che appunto passano e se hanno voglia lasciano dei bigliettini, cambiano l'acqua dei fiori. Appena ha saputo che ero entrato anche io, la mia amica era contenta e orgogliosa. Era contenta di esserne stata un po' responsabile. Così non dovevamo più vederci per prendere un caffè in corsa, con i telefonini che suonano, le macchine, la fretta. I due mesi che ho trascorso su Facebook sono stati piuttosto movimentati. All'inizio mi arrivavano molte «richieste di amicizia» e io le ignoravo perché non sapevo chi fossero queste persone. Poi la mia amica mi ha detto che la regola di Facebook era di accettare le «richieste di amicizia», e che dunque la mia condotta era una condotta antisociale. Così da quel momento in poi ogni volta che mi è arrivata una richiesta io ho accettato. In due mesi sono diventato per così dire amico di quattrocento persone di cui non sapevo nulla, e di cui ora conosco la foto che hanno messo sul loculo e poco più. Mi sono trovato a conversare a notte fonda con uomini e donne che mi trattavano come se fossi il loro migliore amico, o mi maltrattavano come il peggior nemico. Mi sono visto tacciare di snobismo per non aver risposto, insultare per aver tardato ad accettare una così detta amicizia.

Ogni volta che ho fatto accesso alla mia pagina, qualche sconosciuto di cui avevo accettato la così detta amicizia si è affacciato da una finestrella dicendomi «Eccoti qui», come se fosse stato tutta la notte appostato dentro il mio androne aspettando di vedermi rientrare. Ho saputo di adulteri di persone più o meno famose scoperte grazie a Facebook, visto che su Facebook tutti vedono tutto quello in cui ciascuno è affaccendato. Sono stato contattato da compagni delle elementari, delle medie e delle superiori. Alcuni di loro hanno voluto a tutti i costi mandarmi delle fotografie per farmi vedere come eravamo. Se penso a tutti gli anni che ci ho messo, per riuscire a dimenticare come eravamo. Poi sono stato contattato da prime, seconde e terze fidanzate, che mi hanno detto «Ti ricordi?». Poi da amici di amici di amici persi a ragione e rimasti (a ragione) relegati in un passato lontano. Ho ricevuto inviti a unirmi a gruppi di ogni tipo, dall'«Obama party» al movimento «Antibimbominkia ». Di quest'ultimo movimento, che impiega il proprio tempo nel manifestare dissenso nei confronti dei seguaci dei Tokio Hotel, ho cominciato a ricevere ogni tipo di segnalazione: «No al bimbominkia su Facebook», «Il bimbominkia si è evoluto in orribile Sfigadulto », «Contro i Bimbominkia per un mondo migliore». Poi: sono stato contattato per ogni tipo di sottoscrizione, per comprare cd, libri, per partecipare a inaugurazioni di negozi, pedalate sociali, per provare prodotti cosmetici, unirmi a merende ambientaliste, ripensare alla rivoluzione maoista.

Ecco, dopo due mesi così ho chiesto disperato ai miei amici di uscirne. E loro disperati, con gli occhi sbarrati, mi hanno detto che non sanno come fare, che ci hanno provato ma non capiscono come si fa, quale procedura si debba seguire. Ne parliamo su Facebook, ciascuno dietro la propria inferriata, le braccia oltre le sbarre a rimestare nell'aria. E così, da qui, da dietro la mia grata mi è venuto in mente Michel Foucault, quando parla del Panopticon di Bentham. «Ogni giorno, anche il sindaco passa per la strada di cui è responsabile; si ferma davanti a ogni casa; fa mettere tutti gli abitanti alle finestre. Ciascuno chiuso nella sua gabbia, ciascuno alla sua finestra, rispondendo al proprio nome, mostrandosi quando glielo si chiede . Questa sorveglianza si basa su un sistema di registrazione permanente». All'inizio della «serrata» viene stabilito il ruolo di tutti gli abitanti presenti nella città, uno per uno; vi si riporta «il nome, l'età, il sesso, senza eccezione di condizione». È un sistema, dice Foucault, che ha un effetto sicuro: «indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il finzionamento automatico del potere perché l'essenziale è che egli sappia di essere osservato». Ne parlo anche con i miei così detti amici, di questo passo di Foucault. Gli dico che è dentro un libro che si intitola Sorvegliare e punire. Più che dirglielo, glielo urlo dalla finestra.

din Andrea Bajani l a domenica del sole 24 ore, 9 novembre 2008

Alghe, mucillagini, veleni: ecco il Mediterraneo

Alghe, mucillagini, veleni: ecco il Mediterraneo

Sempre più caldo e sempre più acido. Popolato da mucillagini e meduse che arrivano all’improvviso come ondate inarrestabili. Soffocato da un muro di cemento e asfalto che occupa già il 40 per cento delle coste. Inquinato da fiumi carichi di metalli pesanti, pcb, pesticidi, distruttori endocrini (le sostanze che alterano gli ormoni sessuali). è un estratto dal blog ecologista di Antonio Cianciullo http://cianciullo.blogautore.repubblica.it/



E’ il Mediterraneo bellezza. Non che gli altri mari stiano molto meglio, ma qui, in questo angolo di storia che occupa meno dell’1 per cento della superficie dei mari e ospita tra il 5 e il 15 per cento della biodiversità marina, si concentra una straordinaria quantità di problemi, in buona parte previsti ma poco contrastati. L’ultimo rapporto di Greenpeace li elenca. Ecco i principali.
Temperatura. L’aumento medio registrato nel Mediterraneo nord-occidentale è stato di 1 grado negli ultimi 30 anni e l’ondata di calore del 2003 è stato l’evento più caldo registrato sott’acqua negli ultimi 500 anni. Purtroppo non si sta scaldando solo lo strato superficiale: il global warming non risparmia gli strati più profondi di un mare semi-chiuso e di piccole dimensioni ma con fosse abissali che superano i 6 metri. Tutto ciò ha un effetto devastante non solo sulla ricchezza del mare in termini di biodiversità (il 20-30 per cento delle specie animali e vegetali è a rischio di estinzione con un aumento delle temperature globali oltre i 2 gradi) ma anche su attività produttive come le pesca: l’abbattimento degli stock di acciughe in Adriatico negli anni ’80 (sono crollate da 640 mila a 16 mila tonnellate) è probabilmente collegato ai cambiamenti nelle condizioni idroclimatiche.
Acidità. L’alterazione della concentrazione atmosferica della CO2 ha effetti micidiali anche sulla chimica degli oceani. Le acque del mare infatti assorbono circa un quarto dell’anidride carbonica che immettiamo nell’atmosfera e ciò provoca un aumento dell’acidità degli oceani (la CO2 in acqua diventa acido carbonico e abbassa il pH). Il livello di acidità è arrivato al punto di costituire una minaccia per gli organismi marini dotati di uno scheletro o di un guscio calcareo: l’effetto rischia di somigliare a quello che si produce versando una goccia di succo di limone su un guscio d’uovo. Dall’inizio della rivoluzione industriale l’acidità degli oceani è aumentata del 30 per cento: un cambiamento 100 volte più rapido di quello avvenuto negli ultimi milioni di anni.
Invasioni tropicali e alghe killer. L’aumento delle specie tropicali, che spesso sottraggono spazio alle specie autoctone, è inarrestabile. La caulerpa taxifolia è la più famosa del gruppo di alghe che modificano drasticamente gli equilibri marini. In Italia un nucleo consistente è stato individuato al confine con la Francia, un’altra presenza è stata accertata a Livorno, altre chiazze all’Isola d’Elba e in Sicilia nel parco delle Egadi.
Soluzioni. Oltre alle azioni mirate a ridurre la pressione del caos climatico, Greenpeace suggerisce di creare una rete di riserve marine che copra il 40 per cento del Mediterraneo, per proteggere le specie e gli habitat costieri più sensibili al cambiamento climatico.

domenica 28 giugno 2009

turismo medico

Prima c'erano (e ci sono) i cosiddetti viaggi della speranza. Poi ha preso piede il turismo procreativo. Adesso è in via di sviluppo il turismo abortivo. Non si tratta di scelte ideologiche compiute da migliaia di persone, ma di viaggi obbligati, dettati in larga misura da uno stato di necessità. Le cause sono varie: un sistema sanitario che non riesce a coprire sempre al meglio i bisogni di assistenza e cura dei pazienti: leggi inique; norme inapplicate e comportamenti discutibili dei responsabili sanitari e dei camici bianchi. Tutto ciò. non solo è ingiusto: è anche dannoso per le tasche dei cittadini e per l'economia del Paese.

I viaggi della speranza. Ad essere sinceri, non sono tanti come nel passato. E, in larga parte, sono poco giustificabili. Perché oggi in Italia abbiamo altissime professionalità, buone strutture e una discreta organizzazione sanitaria. Le situazioni positive le riscontriamo però soltanto in alcune regioni (Toscana, I Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia), mentre il resto si presenta come un quadro a macchia di leopardo. Eppure, anche nelle zone del Sud infestate dalla criminalità, possiamo trovare isole di efficienza e di professionalità. E infatti i viaggi della speranza avvengono di più all'interno del territorio nazionale. Tuttavia c'è un buco nero che accomuna l'intero Paese: i tempi di attesa. Talvolta si è costretti ad andare all'estero perché la malattia non aspetta.
Il turismo procreativo è invece un fenomeno degli ultimi anni, che si è aggravato dal momento dell'approvazione della legge 40, sulla procreazione assistita. Difficilmente si può trovare, nel nostro ordinamento, una legge più balorda, che ha costretto migliaia e migliaia di coppie ad andare altrove, per cercare di far nascere un figlio. Questa legge è costata troppo, dal punto di vista umano ed economico, e ha fatto soffrire donne e uomini, grazie all'ideologismo esasperato che ha permeato l'impianto legislativo. Ora, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato alcuni punti della 40, limitativi per la fecondazione, molti sono convinti che il turismo procreativo diminuirà. Lo speriamo. E speriamo che il governo non voglia ribaltare in qualche modo la sentenza della Consulta: sarebbe un nuovo attentato alla salute delle donne.

Il turismo abortivo. Colpisce esclusivamente le donne, costrette spesso a vivere in solitudine questo dramma. Come sta avvenendo con i viaggi in Canton Ticino, dove nel 2008 è stato registrato un aumento vertiginoso degli aborti, determinato dalle italiane: l'anno scorso sono state 221 su un totale di 682 che hanno fatto ricorso all'interruzione di gravidanza. Come mai questi passaggi oltrefrontiera così frequenti? In Italia la RU 486, la pillola abortiva, che si usa da quasi dieci anni in tutta Europa, è ferma da moltissimo tempo all'Aifa, l'Agenzia Italiana del Farmaco. Per averla, bisogna richiederla all'estero, come fanno in alcuni (pochi), ospedali. Anche l'aborto chirurgico è faticoso, perché i tempi di attesa possono essere lunghissimi (e pericolosi). La causa? Troppi anestesisti e medici obiettori. Appena tre su dieci non lo sono.
Con il dovuto rispetto verso chi, per motivi etici, dichiara di non poter eseguire un aborto, dico che ci dovrebbe essere altrettanto rispetto verso le donne, perché c'è una legge, la 194, che le tutela e che non viene attuata. Il governo e le Regioni devono salvaguardare l'obiezione di coscienza e garantire che la 194 venga applicata in tutte le strutture. Se questo non accade è per responsabilità di qualcuno che se ne frega della salute delle persone.
g.pepe@repubblica.it 7 maggio 2009

sabato 27 giugno 2009

filmato sulle vicende berlusconiane

Un filmino sintetico sulle vicende berlusconiane.
Ma al di là di tutto, uno domanda: è opportuno che vengano messe in lista ed elette signorine di dubbia moralità, attrici cantanti e ballerine varie, che poi saranno chiamate a votare al parlamento (europeo o italiano) leggi quali fecondazione assistita, fine vita, ecc.?

Per vedere il film prosegui..........



la lettura silenziosa

La lettura silenziosa

La più autentica rivoluzione, nel campo della lettura, in realtà credo non sia quella cui stiamo assistendo oggi, ma quella che avvenne due millenni e mezzo fa.
Può sembrare buffo, ma Aristotele veniva canzonato apostrofandolo come il «Lettore», per il semplice fatto che fu uno dei primi a leggere in silenzio, in un angolo appartato della biblioteca Ad Aristotele dobbiamo anche questo: l'invenzione della lettura silenziosa, riflessiva filosofica. Un'invenzione geniale, che oggi troppo alla leggera tendiamo a dare per scontata.
Un passaggio dall'oralità alla scrittura non è stato una passeggiata. Ai tempi di Aristotele, ogni lettura andava declamata Veniva così del tutto compromesso ogni intimo e libero confronto con l'autore del libro. E chissà che confusione regnava in biblioteca! Per non parlare di altri, non trascurabili, inconvenienti. Un mito ricorda che la fanciulla Cidippe fu costretta a sposare il suospasimante respinto Aconzio perché questi, durante un banchetto, le porse un pomo su cui era iscrittal a solenne promessa di matrimonio. L'ingenua Cidippe, prese ilpomo e lesse subito ciò che c'era scritto sopra ad alta voce e davanti a tutti, com'era uso. Cidippe, per sua sfortuna non conosceva la lettura silenziosa,
Per fortuna nostra Aristotele comprese invece che la scrittura e la lettura di conseguenza sono innanzitutto un fatto intimo e privato, che non ammette interferenze. Proprio lui che pensava che per essenza l'uomo è un «animalepolitico»! Ma non c'è contraddizione in questo. Tutt'altro.Il silenzio,anzi, diventa complice e garante della libertà. In silenzio si instaura fra il lettore e l'autore, un legame dialogico fertile, un flusso continuo di idee e di passioni. Oggi, aldilà di ogni supporto cartaceo o informatico, sarebbe inconcepibile una lettura che non sia di questo tipo. Una lettura che ci permetta di riflettere liberamente e dunque forse, di essere cittadini migliori e di contribuire almeno un poco a tenere in vita le nostre fragili democrazie.
Armando Massarenti, sole 24 ore 17 maggio 2009

Le mancate risposte di Silvio Berlusconi

Le dieci nuove domande al Cavaliere

Le mancate risposte di Silvio Berlusconi: dalle veline a Noemi Letizia, fino alle accuse di Patrizia D'Addario
di GIUSEPPE D'AVANZO repubblica 26 giugno 2009

La sera del 26 aprile Silvio Berlusconi festeggiava Noemi a Casoria. È giunto il tempo, due mesi dopo, di tirare le somme. Bisogna annotare con cura le bugie ascoltate; interrogarsi sulle ragioni dei troppi silenzi; afferrare il filo rosso che da una storia (le «veline») ci ha condotto in un’altra (Noemi) e in un’altra ancora (le prostitute a Palazzo Grazioli) fino alla soglia di una quarta (le feste del presidente)..................

Giorno dopo giorno, si è definita sempre meglio la «licenziosità» del capo del governo, «la scelta sciagurata degli amici di bisboccia, la sciatteria in certe relazioni e soprattutto la caratterizzazione ostentatoria di tutti i suoi comportamenti privati» (Giuliano Ferrara, Panorama, 26 giugno). Quel filo si riannoda intorno a un «grandioso sé», lascia nudo un potere e un abuso di potere che si immagina senza contrappesi e irresponsabile.

Da due mesi, Berlusconi parla senza dire. Ci scherza su alquanto imbarazzato e come ossessivo, ma tace l’essenziale. Il tempo non è passato invano, però. Le dieci domande che Repubblica ha ritenuto di rivolgergli il 14 maggio hanno trovato più di una risposta, nonostante il loquace mutismo del presidente del consiglio. A volte, anche i silenzi sanno parlare. C’è oggi materia viva per eliminare qualche interrogativo e proporne altri, nuovi e dunque necessari e urgenti.

«Chi è incaricato di una funzione pubblica deve chiarire», dice Silvio Berlusconi (Porta a Porta, 5 maggio). All’alba di questa storia, il premier sembra sapere che il significato etico e politico di accountability presuppone trasparenza; impegno a dichiararsi; rendiconto di quel che si è fatto e si fa; assunzione di responsabilità; censurabilità delle condotte riprovevoli – anche private – perché è chiaro a tutti che non ci può essere una radicale contrapposizione «tra il modo in cui un uomo di potere tratta coloro che gli sono vicini (la sua morale) e il modo in cui governa i cittadini e risponde a loro (la sua politica)»(Carlo Galli, Repubblica, 22 giugno).

Berlusconi, in apparenza, è animato da buone intenzioni, dunque. Deve, presto e in fretta, liberarsi di tre grattacapi che gli vengono dalla famiglia (con le accuse di Veronica Lario), dalla sua area politica (con i rilievi critici di farefuturo). Gli rimproverano di voler candidare alle elezioni per il parlamento di Strasburgo “veline”, giovani o giovanissime donne che egli ha già promosso nello spettacolo e gli tengono compagnia con assiduità nel tempo libero, a Villa Certosa, a Palazzo Grazioli. Gli si contesta la frequentazione di minorenni e un’ossessione per il sesso che pregiudica il suo equilibrio (Veronica Lario, Repubblica, 3 maggio). Gli si chiede dei rapporti con la minorenne di Napoli di cui ha voluto festeggiare il 18° anno (Repubblica, 28 aprile).

Berlusconi è tentato dal rovesciare il tavolo, come gli è abituale. Parla di “complotto”. Di fronte all’evidenza che il fuoco è “amico”, lascia perdere e appronta una difesa che vuole essere conclusiva. Concede due interviste ufficiali (Corriere, Stampa, 4 maggio, 4 maggio). Chiacchiera ufficiosamente e in libertà (ancora Corriere e Stampa, nei giorni successivi al 4 maggio). Si confessa alla tv pubblica francese durante il tg delle 20 (France 2, 6 maggio). Rifiuta – è vero – un’intervista a Repubblica (13 maggio), ma promette di «spiegare tutto» (Cnn International, 25 maggio).

Berlusconi è categorico, quasi minuzioso nella ricostruzione delle sue mosse. «Non avevamo messo in lista nessuna velina» (Corriere, 4 maggio). «Io frequenterei delle diciassettenni? E’ una cosa che non posso sopportare. Io sono amico del padre [di Noemi], punto e basta. Lo giuro!» (Stampa, 4 maggio). «Sono andato a Napoli per discutere di candidature con il padre di Noemi» (Porta a Porta, 5 maggio), con cui «ho un’antica amicizia di natura politica», peraltro «Noemi, la figlia dei miei amici, l’ho vista tre, quattro volte, sempre accompagnata dai genitori» (France 2, 6 maggio).

Le affermazioni del capo del governo non reggono alla verifica dei fatti.

Repubblica scopre (21 maggio) che il 19 novembre 2008, a Villa Madama, la minorenne Noemi siede al tavolo presidenziale, in occasione della cena offerta dal governo alle griffe del made in Italy, raccolte nella Fondazione Altagamma. La ragazza è sola, non accompagnata da alcun familiare, accanto al presidente del consiglio e a Leonardo Ferragamo, Santo Versace, Paolo Zegna, Laudomia Pucci. Sola e minorenne – e non accompagnata dai suoi genitori ma da un’amica minorenne (Roberta O.) – Noemi è anche a Villa Certosa, a ridosso del Capodanno, tra il 26/27 dicembre 2008 e il 4/5 gennaio 2009. Lo rivela a Repubblica (24 maggio) Gino Flaminio, un operaio di 22 anni legato sentimentalmente a Noemi dal 28 agosto 2007 al 10 gennaio 2009.

Gino, in contrasto con le dichiarazioni del Cavaliere, svela anche quando Berlusconi si mette in contatto con la minorenne Noemi. Che sia la prima volta glielo racconta lei stessa. Accade nell’autunno del 2008 (ultimi giorni di ottobre, primi di novembre). Soltanto otto mesi fa. Berlusconi telefona direttamente alla ragazza alle prese con i compiti di scuola. Nessuna segreteria. Nessun centralino. Nessun legame con la famiglia della ragazza. Berlusconi (che ha davanti una collezione di foto di Noemi) le dice parole di ammirazione per la sua «purezza», per il suo «volto angelico». Dopo quel primo contatto, ne seguono altri (Gino ascolta la voce del premier in tre o quattro telefonate) fino all’invito a trascorrere dieci giorni – senza i genitori – a Punta Lada.

Le rivelazioni raccolte da Repubblica costringono il premier a correggere precipitosamente il tiro. Non può negare la presenza di Noemi a Villa Madama. Ammette che la minorenne, anzi le due minorenni hanno festeggiato il Capodanno con lui, non accompagnate dai familiari. Non può confessare però che – uomo di 73 anni, con impegnative responsabilità pubbliche – trascorre il pomeriggio a telefonare a minorenni che conosce soltanto attraverso book fotografici fornitigli dagli uomini di Mediaset (nel caso di Noemi è Emilio Fede, dice Flaminio). Appresta allora una nuova favoletta per spiegare come, quando e perché ha conosciuto il padre di Noemi, Elio Letizia, e cancellare l’imbarazzante ma decisivo ricordo di Gino.

E’ la quarta versione che, nel corso del tempo, ci viene proposta. Ricordiamo le precedenti.


* 1. «Era l’autista di Bettino Craxi» (Ansa, 29 aprile, l’agenzia di stampa rimuoverà poi la pagina dall’archivio in rete);

* 2. «Elio è un mio amico da tanti anni, con lui ho discusso delle candidature europee« (Porta a Porta, 5 maggio);

* 3. «Conosco i genitori, punto e basta» (France 2, 6 maggio).



Anche la quarta ricostruzione di quell’amicizia viene cucinata in malo modo.

Berlusconi scarica su Elio Letizia l’onere del racconto. Elio Letizia liquida per intero lo sfondo politico dell’amicizia. Non azzarda a dire che è stato un militante socialista né conferma di aver discusso con il presidente del consiglio chi dovesse essere eletto a Strasburgo. Dice Letizia che la «vera conoscenza [con Silvio] ci fu nel 2001». Elio sa – racconta – che a Berlusconi piacciono «libri e cartoline antiche» e nelle sale dell’hotel Vesuvio di Napoli (maggio 2001) gli propone di regalargliene qualche esemplare. Nasce così un legame che diventa un’affettuosa amicizia quando Anna e Elio Letizia sono colpiti dalla sventura di perdere il figlio Yuri in un incidente stradale. Berlusconi si fa vivo con una «lettera accorata e toccante». Letizia decide di presentare la sua famiglia al presidente del consiglio nel «dicembre del 2001»: «A metà dicembre io e mia moglie andammo a Roma per acquisti e, passando per il centro storico, pensai che fosse la volta buona per presentare a Berlusconi mia moglie e mia figlia» (il Mattino, 25 maggio). Dunque: il capo del governo «per la prima volta vide Anna e Noemi» nel dicembre del 2001 non in pubblico ma nella residenza privata del premier, a palazzo Grazioli, o a Palazzo Chigi. Noemi ha soltanto dieci anni.

Il ricordo di Elio Letizia non coincide con quello di Silvio Berlusconi. Nello stesso giorno, la memoria del capo del governo disegna un’altra scena decisamente differente da quella che ha in mente Elio Letizia. Quando Berlusconi ha incontrato per la prima volta Noemi? «La prima volta che ho visto questa ragazza è stato a una sfilata», risponde il premier (Corriere, 25 maggio). Quindi, in un luogo pubblico e non nei suoi appartamenti pubblici o privati. Non nel 2001, come dice Elio, ma più avanti nel tempo perché Noemi avrebbe avuto l’età adatta per «sfilare» (quattordici, quindici, sedici anni, 2005, 2006, 2007).

Le «bugie bianche» di Berlusconi (il Foglio, 25 maggio) non possono nascondere qualche sconcertante punto fermo. È vero, il capo del governo «frequenta minorenni», come ha detto Veronica Lario e dimostrato Repubblica. Il presidente del consiglio non riesce con qualche attendibilità a dire come ha conosciuto i Letizia cosicché le parole di Gino Flaminio acquistano più credibilità e maggiore verosimiglianza.

Il quadro compromesso e degradato dell’accountability del capo del governo è confermato addirittura dal racconto di Noemi, mai smentito (e oggi è troppo tardi per farlo).

«[Berlusconi, “papi”] mi ha allevata (…) Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo a Roma, a Milano. Resto ad ascoltarlo. Ed è questo che desidera da me. Poi, cantiamo assieme. (…) [Da grande vorrò fare] la showgirl. Mi interessa anche la politica. Sono pronta a cogliere qualunque opportunità. (…) Preferisco candidarmi alla Camera, al parlamento. Ci penserà papi Silvio» (Corriere del Mezzogiorno, 28 aprile).

Noemi conferma non solo l’abitudine di Berlusconi a frequentare minorenni, ma rafforza anche l’altra questione decisiva di questa storia: la pretesa di «far uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno nulla a che fare». Manovra che denota «l’impoverimento della qualità democratica di un Paese» (FFWebMagazine, periodico della fondazione Farefuturo). Come – per fare solo tre nomi – Angela Sozio (Grande Fratello), Chiara Sgarbossa (miss Veneto), Cristina Ravot (cantante ammiratissima da Berlusconi che la voleva imporre al festival di Sanremo prima che al parlamento di Strasburgo), Noemi ritiene di poter ottenere da Berlusconi l’opportunità di fare spettacolo o, in alternativa, di essere eletta in parlamento. Televisione o seggio in parlamento, uguali sono. Le aspettative di Noemi, sollecitate dalle promesse di Berlusconi, sono in linea con le riflessioni critiche della signora Lario («Ciarpame senza pudore»). È documentata, allora, anche la seconda accusa che colpiva il capo del governo: per lui il corpo delle donne è «un gingillo» utile per «proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento» politico. S’invera lo «scarso rispetto per le istituzioni e per la sovranità popolare» del leader del Popolo della Libertà (Fondazione farefuturo).

Di fronte a due punti fermi (è vero, frequenta minorenni; è vero, candida nelle assemblee elettive i «bei corpi» che gli sono stati vicini), incalzato da domande a cui non può rispondere, Berlusconi si corregge di nuovo per tirarsi fuori da una catastrofe politica e comunicativa, domestica e internazionale. A Palazzo Chigi, dunque in un luogo che più ufficiale non si può, dice: «Non ho detto niente» (Ansa e Agi, 28 maggio). Pretende che gli si creda. Lo abbiamo sentito dire, spiegare, ricordare in pubblico, in voce e in video – e sempre mentire. Ora, con quattro parole («Non ho detto niente»), intende resettare la storia così come egli stesso ce l’ha raccontata. Esige che il potere delle sue parole sia, per noi, indiscusso. Comanda di dimenticare ciò che ricordiamo e ci impone di credere vero ciò che egli dice vero (e noi sappiamo bugiardo). «Non ho detto niente» dovrebbe ripulire dalla lavagna le sue menzogne. Gli interessa ora andare al sodo per salvare la faccia e – forse – un destino politico che vede compromesso (compromessa appare la sua ascesa al Quirinale). Vuole rispondere soltanto a una domanda: ha avuto «rapporti piccanti» con Noemi? Se la pone da solo. Risponde: «Assolutamente no, ho giurato sulla testa dei miei figli e sono consapevole che se fossi uno spergiuro mi dovrei dimettere, un minuto dopo averlo detto» (Radiocor, 28 maggio). Non chiarisce che cosa siano i «rapporti piccanti», per il lessico e la fantasia erotica di uomo come lui.

Sesso e politica. Politica e sesso. “Privato” che si fa “pubblico”. “Pubblico” che deve subire gli abusi di potere di un privato. Di questo impasto ci parlano le pratiche del Cavaliere che rinviano con immediatezza al suo dispositivo di governo, e quindi alla cosa pubblica e non soltanto ai comportamenti privati di un uomo. Lo “scandalo” dell’affare è in queste relazioni scorrette compensate da promesse di incarichi pubblici, è nelle accertate menzogne che screditano chi governa e il Paese che da lui è governato. Di questo dovrebbe rispondere il premier in pubblico se davvero avesse compreso che accountability è l’esatto contrario di arbitrio e menzogna.

Il capo del governo vive un clima psichico alterato. È la terza accusa della moglie: «[Silvio] non sta bene» (Repubblica, 3 maggio). La patologica sexual addiction di Berlusconi si sfoga in festicciole viziose. Anima “spettacolini” affollati da venti, trenta, quaranta ragazze: “farfalline” coccolate mentre il “sultano” indossa un accappatoio di un bianco accecante; “tartarughine” travestite da Babbo Natale; “bamboline” che mimano, in villa e tra i fiori, il matrimonio con «papi» (Repubblica, 12 giugno). Frequente la presenza di “squillo”, “escort”, “ragazze immagine” abituate a incontrare sceicchi sulle rive del Golfo Persico.

La scena, accennata esplicitamente da Veronica Lario, ancora sfumata nei contorni con Noemi, si definisce con nitore quando prende la parola Patrizia D’Addario, “escort di lusso”, un modo per dire prostituta di caro prezzo. Il palcoscenico, anche acusticamente esplorato, è illuminato a giorno, ora. Si possono vedere con chiarezza i gesti, sentire le parole, ascoltare le voci anche nelle stanze più intime e protette (il bagno, la camera da letto) del palazzo presidenziale. Il linguaggio si fa esplicito, crudo. Come, senza sottintesi, sono le condotte, le logiche, gli esiti.

Patrizia è ingaggiata (2000 euro) da un amico del Cavaliere che ingrassa i suoi affari e la sua influenza pagando “squillo” da accompagnare alle feste del presidente a Roma, in Sardegna.

Patrizia varca, per la prima volta, la soglia di Palazzo Grazioli il 15 ottobre 2008.

Patrizia, «una volta entrata in una stanza affrescata all’interno della residenza del presidente del Consiglio, si trova davanti venti ragazze e il suo primo pensiero è: ‘Ma questo è un harem!’». (Sunday Times, 21 giugno).

Patrizia osserva, curiosa: «Mentre la gran parte di noi, come ci era stato detto, indossava abiti neri corti e trucco leggero, due ragazze che stavano sempre vicine, avevano pantaloni lunghi (...) Erano due escort lesbiche che lavorano sempre in coppia» (Repubblica, 25 giugno).

Patrizia, quella sera, non resta a Palazzo. Ci ritornerà, il 4 novembre. «Sono tornata dopo un paio di settimane, esattamente la sera dell’elezione di Barack Obama» (Corriere, 17 giugno).

Patrizia registra quel che sente. Fotografa – appena può – quel che vede. Lo fa sempre, con tutti, da sempre. Questa volta, la seconda volta da Berlusconi, Patrizia rimane a Palazzo per una notte di sesso con il capo del governo. Il Cavaliere – dopo cena, visione dei film che lo mostrano accanto ai potenti della Terra, le solite canzoni e la ola – chiede alla donna di aspettarlo nel «letto grande» (Repubblica, 20 giugno).

«Berlusconi mi ha telefonato la sera stessa, appena sono arrivata a Bari. E qualche giorno dopo Gianpaolo mi ha invitata a tornare. Ma io ho rifiutato (…) Gianpaolo ha voluto il mio curriculum perché mi disse che volevano candidarmi alle Europee (…) Quando sono cominciate le polemiche sulle veline, il segretario di Gianpaolo mi ha chiamata per dirmi che non era più possibile (…) [mi è stata allora] proposta la lista “La Puglia prima di tutto” [per il rinnovo del consiglio comunale]. Io ho accettato subito» (Corriere, 17 giugno).

I ricordi di Patrizia sono confermati dalle due «ragazze-immagine» (qualsiasi cosa significhi l’eufemismo) che sono con lei: Lucia Rossini (Repubblica, 21 giugno) e Barbara Montereale. Che dice: «Sapevano tutti a quella cena che lei [Patrizia] era una escort. Presumo anche il presidente». (Repubblica, 20 giugno). Le due ragazze ridono, scherzano, si fotografano allegre nella toilette del presidente del consiglio, come padrone del campo.

Le parole, le testimonianze incrociate, le immagini, i documenti fonici non possono più confondere quel che abbiamo sotto gli occhi. Quel che la signora Lario chiama “malattia”, l’effetto distruttivo di un narcisismo sgomento dinanzi alla vecchiaia, un’autostima che esige sempre, a ogni occasione l’ammirazione riservata alla giovinezza, alla celebrità, al fascino rendono vulnerabile e gravemente indifeso il capo del governo e l’autorevolezza del suo ufficio. C’è un fondo di onnipotenza nei suoi comportamenti, come se ogni azione gli fosse consentita. È circondato da prosseneti che lucrano vantaggi personali cercandogli in angoli d’Italia ragazze sempre nuove, sempre più giovani, sempre più rapaci e spregiudicate, spesso sostenute nella loro cinica ambizione dalle famiglie, da mammà e papà. Vogliono un successo dove che sia, in tivvù o nella politica. Il premier può concederglielo con una telefonata, se vuole. Gli danno pressione. Lo pretendono. E’ il quadro che ha già proposto Veronica Lario. «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile» (Repubblica, 3 maggio).

La difesa di Berlusconi, di fronte a questa rappresentazione di se stesso e della fenomenologia del suo potere, è violenta fino alla spietatezza contro i testimoni della sua vita; è prepotente contro l’informazione che non sceglie la taciturnità imposta al servizio pubblico radiotelevisivo e accettata - con l’eccezione del Tg3 - di buon grado. E tuttavia, quando affronta le circostanze che sono emerse, quella manovra è maldestra.

Niccolò Ghedini, avvocato del Cavaliere, nell’ansia di sfuggire al reato ora che una prostituta parla di tariffe, trattative e pagamenti, ammicca complice agli italiani che si sentono “puttanieri” irredimibili, anche se spesso soltanto fantasiosi, nella convinzione che quel peccato possa essere presto perdonato urbi et orbi. Il lemma che adopera (gli appare il più onesto e concreto) peggiora il clima e deteriora ancor più l’immagine del premier. «Ancorché fossero vere le indicazioni di questa ragazza [Patrizia], e vere non sono, il premier sarebbe, secondo la ricostruzione, l’utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile». (Affari italiani, 17 giugno).

Come se l’affare fosse legale e non politico. L’errore dell’avvocato convince Berlusconi a muovere in prima persona. Lo fa secondo le sue prassi consolidate. Dai fogli patinati di un settimanale di famiglia, nega quel che è accaduto. «Non c’è nulla nella mia vita privata di cui io mi debba scusare (…) Non ho [di Patrizia] alcun ricordo. Ne ignoravo il nome e non ne avevo in mente il viso. Non mi ero reso conto [che fosse una prostituta]» (Chi, 24 giugno). Tace che ancora il 27 gennaio, il suo amico di Bari chiama Patrizia per dirle (la telefonata è registrata): «[Il presidente] ti vuole vedere la prossima settimana a Roma» (Corriere, 21 giugno). Vedere lei, proprio lei: Patrizia, con quella faccia che ora non ricorda, con quel nome che ha dimenticato, forse ripensando soltanto al suo corpo.

Questa volta - direttamente e non attraverso i suoi giornali e attaché (lo ha fatto per Gino Flaminio) - scatena l’ordinaria menzogna distruttiva contro Patrizia D’Addario: «[Le è stato] dato un mandato molto preciso e benissimo retribuito» (Chi, 24 giugno). Dovrebbe offrire un riscontro anche labile della sua accusa anche perché ha avuto il tempo e ha le risorse per raccoglierlo. Non lo fa. Dovrebbe comprendere che la denunzia, anche se inventata, conferma la sua vulnerabilità. La mostra, la dimostra. Se c’è un ricattatore dietro le parole di Patrizia D’Addario, la responsabilità è soltanto di chi dissennatamente le ha aperto le porte di casa. Dice: «Può capitare di sbagliare ospiti» (Ansa, 25 giugno), ma il punto è proprio questo: quanti sono gli “ospiti sbagliati” che si sono seduti alla sua tavola? E che intenzioni hanno?

Il fatto è che il Cavaliere si tiene lontano da fatti che, per la loro solidità, possono fulminarlo. Preferisce scavare nella differenza tra sé e gli altri, tutti gli altri che soltanto ricordano quel che ha detto e giurato o le menzogne che ha sottoscritto con la sua faccia, i suoi discorsi. Non pare curarsene. Dice: «Io sono fatto così. E gli italiani così mi vogliono. Ho il 61 per cento. Io sono buono, generoso, leale, (attenzione) sincero, mantengo le promesse, sono un mattatore, un intrattenitore» (Ansa, 25 giugno).

Soltanto un malvagio può non amarlo. In fondo, la politica è questo per il capo del governo: la legittimità del suo potere lo autorizza - crede - a creare un’ostilità interna, un conflitto permanente tra chi è con lui e chi, perché lontano da lui o critico, deve essere considerato “estraneo”, “nemico”, ”eversore”. È «odio e invidia» (Ansa, 24 giugno) chiedergli conto delle sue condotte pubbliche, del suo stato di salute, di una vita spericolata, delle contraddizioni radicali del suo agire: ha prostitute nel suo letto, ma legifera per punire chi frequenta le prostitute; invoca per sé la privacy ma vuole scrivere le norme della nostra privacy, dalla procreazione al “fine vita”.

È un «progetto eversivo» contro il suo governo e contro il Paese chiedergli di essere trasparente. «Le calunnie contro di me, le veline, le minorenni, Mills (è un testimone che ha corrotto salvandosi da una condanna), i voli di Stato (che utilizza per trasferire amiche, musici, ballerine) , hanno costituito una campagna di scandalo molto negativa all'estero per il nostro paese e credo sia un comportamento colpevole da chi l'ha pensato e organizzato, [credo che sia] un progetto eversivo perché la finalità è quella di costringere a far decadere un presidente del consiglio eletto dagli italiani (...). Se questa non è eversione, ditemi voi cos’è». (Adnkronos, 13 giugno).

La sola soluzione che intravede alla crisi che lo affligge è la riduzione al silenzio o la rovina economica della stampa che non racconta come vere le sue fiabe. «Bisognerebbe non avere dei media che tutti i giorni cantano la canzone del catastrofismo e credo che anche voi [imprenditori] dovreste operare di più in questa direzione. Per esempio: non date pubblicità a chi si comporta così» (Asca, 13 giugno).

Il rosario di incoerenze, menzogne, abusi di potere di Silvio Berlusconi sollecita a rinnovargli alcune domande che possono essere conclusive:


* 1. Quando, signor presidente, ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia? Quante volte ha avuto modo d’incontrarla e dove? Ha frequentato e frequenta altre minorenni?

* 2. Qual è la ragione che l’ha costretta a non dire la verità per due mesi fornendo quattro versioni diverse per la conoscenza di Noemi prima di fare due tardive ammissioni?

* 3. Non trova grave, per la democrazia italiana e per la sua leadership, che lei abbia ricompensato con candidature e promesse di responsabilità politiche le ragazze che la chiamano «papi»?

* 4. Lei si è intrattenuto con una prostituta la notte del 4 novembre 2008 e sono decine le “squillo” che, secondo le indagini della magistratura, sono state condotte nelle sue residenze. Sapeva che fossero prostitute? Se non lo sapeva, è in grado di assicurare che quegli incontri non l’abbiano resa vulnerabile, cioè ricattabile – come le registrazioni di Patrizia D’Addario e le foto di Barbara Montereale dimostrano?

* 5. È capitato che “voli di Stato”, senza la sua presenza a bordo, abbiano condotto nelle sue residenze le ospiti delle sue festicciole?

* 6. Può dirsi certo che le sue frequentazioni non abbiamo compromesso gli affari di Stato? Può rassicurare il Paese e i nostri alleati che nessuna donna, sua ospite, abbia oggi in mano armi di ricatto che ridimensionano la sua autonomia politica, interna e internazionale?

* 7. Le sue condotte sono in contraddizione con le sue politiche: lei oggi potrebbe ancora partecipare al Family Day o firmare una legge che punisce il cliente di una prostituta?

* 8. Lei ritiene di potersi ancora candidare alla presidenza della Repubblica? E, se lo esclude, ritiene che una persona che l’opinione comune considera inadatta al Quirinale, possa adempiere alla funzione di presidente del consiglio?

* 9. Lei ha parlato di un «progetto eversivo» che la minaccia. Può garantire di non aver usato né di voler usare intelligence e polizie contro testimoni, magistrati, giornalisti?

* 10. Alla luce di quanto è emerso in questi due mesi, quali sono, signor presidente, le sue condizioni di salute?




(26 giugno 2009)

venerdì 26 giugno 2009

la resistenza della carta

La presentazione del libro di Jean-Claude Carrière e Umberto Eco, «Non sperate di liberarvi dei libri».
Sono d'accordissimo: quello che ancora resiste nel tempo sono le cose "definitive" e (apparentemente) semplici come i libri su carta. Un libro, graffiato, bucato, bruciacchiato, unto, lo leggi ancora. Un dvd che contiene una biblioteca......è da buttare!!!


La resistenza della carta
di Cesare De Michelis
Immaginate di assistere a una conversazione tra Umberto Eco e Jean-Claude Carrière, lo sceneggiatore dei più importanti film di Bunuel a partire dagli anni Sessanta, e sentirli discorrere del destino dei libri in questo tempo di sorprendenti innovazioni tecnologiche che annunciano il tramonto del libro di carta e l'avvento dell'e-book, con quel che ne segue.
Sin dal titolo i nostri sono apodittici: Non sperate di liberarvi dei libri dichiarano forte, senza se e senza ma; Eco è perentorio: «il libro è come la ruota, una volta inventato, non si può fare di più» o, che è lo stesso, «le ruote di oggi sono ancora quelle della Preistoria», e questa definitività è propria anche di altre umane invenzioni, dal cucchiaio al martello, alle forbici.
C'è qualcosa di affascinante in questa paradossale difesa del libro, c'è la misura del limite che a un certo punto ferma il progresso, dal confine che arresta la corsa della storia. Non è vero che tutto si trasforma in un movimento vorticoso, alcune cose resistono definitivamente eguali a se stesse e tra queste c'è il libro.
Non siamo sulla soglia di una rivoluzione prima culturale e poi tecnologica: sarà più facile che si disintegrino tutti i libri del mondo, quelli sfuggiti agli innumerevoli incendi, casuali e intenzionali, che li perseguitano, piuttosto che gli uomini si decidano a farne a meno sedotti da qualche marchingegno che ne può contenere in memoria quanti mai se ne vogliono.
Le ragioni di questa assoluta fiducia nella resistenza del libro cartaceo sono altrettanto paradossali di ogni altra considerazione dei nostri profeti che sanno bene che l'avvenire è diverso da come lo si attende e in ogni caso è destinato a sorprenderci impreparati, ma sanno anche - come diceva Karl Valentin- che «l'avvenire era meglio un tempo». D'altronde il supporto che ci ha tramandato nei secoli e nei millenni i libri e la loro sapienza è più volte mutato nel tempo, dal papiro alla pergamena, alla carta di stracci, a questo straccio di carta che ora sfarina tra le nostre mani, e con esso è anche cambiato il nostro modo di possederli e di leggerli; Ivan Illich ricorda che fino a quando non si impose la stampa si leggeva a voce alta perché il testo era uno solo è doveva servire a molti ai quali toccava di memorizzare quel che ascoltavano per poterne profittare in seguito.
A memoria, è evidente, si potevano conoscere soltanto pochi libri eccellenti, ora invece ciascuno può raccoglierne a migliaia nella sua stessa casa o può accedere a biblioteche che ne posseggono milioni: la nostra libertà e la nostra possibilità di conoscere si è infinite volte moltiplicata con la conseguenza che la scelta è sempre più rischiosa e diffìcile.
Eco e Carrière sono sicuri: non è necessario leggere i libri per sapere quello che dicono, anzi «siamo profondamente influenzati dai libri che non abbiamo letto». Quel che conta è l'ordine secondo il quale disporli, e tutti noi lo affrontiamo smarriti, sognando gerarchie e regole perdute per mettere ordine nella nostra biblioteca, nel nostro sapere e nella nostra esistenza. Allora sì potemmo decidere di non leggere quello che non ci importa.
La cultura è un filtro che seleziona tutto quello che deve resistere, ma se il setaccio non funziona può fare danni ben più grandi dei vantaggi che offre; la memoria anch'essa sceglie quel che non va dimenticato: il centro della civiltà sta lì, sul discrimine tra il ricordo e l'oblio, e ì libri non sono la regola ma gli accidenti sempre nuovi che capitano.
Eco ha avuto un nonno tipografo e socialista: il libro, quindi, ha imparato ad amarlo prima della crisi, quando l'ordine ancora c'era e si poteva persino sognarne uno "nuovo"; a noi tocca di vivere in un mondo che potrebbe conservare davvero tutto nella sua memoria informatica, ma non sa come metterlo in ordine per trovare nel caos quello che serve. Lui ha costruito negli anni una "sua" collezione di libri antichi «che hanno a che fare con cose erronee o false», noi siamo sommersi di libri nuovi che pretendono di raccontare cose vere e giuste, ma non siamo più in grado di verificarle.

O Jean-Claude Carrière e Umberto Eco, «Non sperate di liberarvi dei libri», a cura di Jean-Philippe de Tonnac, traduzione di Anna Maria Lorusso, Bompiani, pagg. 272, € 18,00.

Eco per la stampa
La mattina di giovedì 30 aprile, all'aeroporto, ho letto una recensione all'ultimo libro di Umberto Eco e di Jean-Claude Carrière, Non sperate di liberarvi dei libri.
Ho mandato una mail all'ufficiò stampa Bompiani. Il pdf mi è arrivato prima che mi imbarcassi, e ho incominciato a leggerlo in aereo, poi al cambio di aereo a Madrid. In tre giorni di convegno ho avuto tutto l'agio di completare la lettura, perché il bello dei computer è che non ti fanno scoprire, anche se ho corso un bel rischio la sera del r2 maggio, quando mi sono addormentato a letto leggendo il pdf, con il computer sulla pancia: sarebbe bastato che mi rigirassi, e addio computer. Oggi è la mattina di domenica 3 maggio, sono tornato a casa, e sto scrivendo la recensione.
Vicenda banale, ma inimmaginabile anche solo quindici anni fa, e figuriamoci quando Eco ha incominciato a scrivere sui nuovi media, che ai tempi erano la televisione, a metà del secolo scorso. E non solo perché parlo di un libro che fisicamente (o meglio, cartaceamente) non ho ancora visto. No, c'è ben altro.
Allora, negli anni Cinquanta, tutti avrebbero giurato che nel terzo millennio i libri sarebbero scomparsi, insieme alla scrittura, inghiottita dalla radio, dalla televisione, dal telefono. Invece è successo esattamente il contrario. Abbiamo assistito a una esplosione della scrittura, che ha reso improbabile la figura dell'analfabeta di ritorno. Ovviamente c'è stato chi, a questo punto, si è affrettato a dire che, quantomeno, sarebbe scomparsa la catta, sostituita dai supporti informatici, e invece, anche qui, è successo tutt'altro, e siamo stati sommersi da un diluvio di giornali gratuiti, libri a prezzi stracciati, per non parlare delle infinite pagine che le stampanti sfornano al solo tocco della opzione "print".
Eco e Carrière ricordano i motivi della tenacia della carta, che per esser letta non richiede strumenti tecnologici più sofisticati degli occhiali, e che può essere annotata. Soprattutto, elogiano quella invenzione insostituibile che sono i libri, che non si rompono se cadono dal letto, e sopravvivono ai cambi tecnologici, visto che ora possiamo leggere libri di secoli fa, ma non file vecchi di quindici anni. Le opere esoteriche di Aristotele, che per
più di duecento anni sono rimaste in una cassa senza che nessuno le degnasse di uno sguardo, si sarebbero perse se fossero state registrate su dischetti ateniesi, e così addio Metafisica, addio Etica Nicomachea, e addio anche alla Poetica nella parte sulla tragedia. Quella sulla commedia si è persa comunque, perché in effetti anche i libri si perdono.
Per non parlare dei roghi (accidentali come quello raccontato nel Nome della rosa, o intenzionali, come quelli voluti da Goebbels) o del deterioramento delle pagine. Anche questa infatti è una ossessione di Eco: i libri di Vrin e Gallimard degli anni Cinquanta dì cui si era servito per la tesi di laurea adesso gli si sbriciolano tra le mani.
Ricordo che quasi trent'anni fa, poco prima dell'avvento dei computer, mi aveva parlato di un servizio speciale in America, dove passavano i libri in un bagno deacidificante, che salvava le pagine. E, per ironia della sorte, se anche i libri si salvano possono essere cancellati da altri libri, come è successo proprio agli scritti essoterici di Aristotele scomparsi dopo il ritrovamento degli scritti esoterici.
E chiaro che in questa preoccupazione per la salvezza della memoria c'è un aspetto escatologico. Una dozzina di anni fa, nei Cinque scritti morali, Eco immaginava l'immortalità sostenibile'come il trasferimento di un archivio informatico da una memoria all'altra. Adesso la prospettiva è un po' cambiata. Certo, Eco confessa che, se gli andasse a fuoco la casa, cercherebbe di trarre in salvo l'hard disk esterno di 250 giga di memoria in cui ha registrato tutte le sue opere dal 1983 in avanti. Ma cosa succederebbe nel lungo periodo? Rifacendo il verso al marito della signora Robinson nel Laureato si potrebbe dire: «Il futuro è nella carta».
La salvezza sta nella memoria vegetale, non in quella digitale, che alimenta solo la vanitas vanitatum delle citazioni su Google. Ecco il senso di questo dialogo tra uomini che, simili nella curiosità ma diversi nel mestiere (Carrière è, oltre che scrittore, sceneggiatore e autore per il cinema, il teatro e la televisione), e dunque non rivali, racconta il senso della cultura, l'importanza del passato per il presente, le gioie della bibliofilia e dell'esercizio della memoria, e poi ancora tratta delle religioni del libro e delle forme che può prendere la censura, della intelligenza e della idiozia, e delle risposte da dare a quelli che vedendo una casa stipata di libri ti chiedono «li ha letti tutti?».
Soprattutto, si parla del senso del lasciar tracce e del problema dell'invecchiamento, che ci riguarda a ogni età, ma che a una certa età incomincia a riguardarci un po'troppo. Cose che nelle mani di chiunque altro avrebbero un esito tragico-iettatorio, e che invece qui offrono motivi di ragionevole consolazione. Quando invece non li offrono, lasciano apprezzare la sincerità e l'umiltà di due uomini fortunati e riconosciuti, e che indubbiamente anche per questo pensano con più fastidio di altri all'avvicinarsi della morte. Per esempio, che fare della biblioteca? Eco ha dato disposizioni affinchè non si disperda. Ma anche sui libri scritti da lui può stare tranquillo, ci penseranno i lettori futuri e le loro biblioteche. Io lo so che questa, almeno per Eco, non è una consolazione, perché anche in questo libro ci propone il suo rimedio per non essere troppo tristi in punto di morte: pensare che ci si lascia dietro un mondo popolato da coglioni. Ma verrebbe da dirgli che siamo coglioni, sì, ma non al punto da misconoscere la sua grandezza.
di Maurizio Ferraris La Domenica del Sole 24 ore 17 maggio 2009

Cosa fanno i nostri rappresentanti in Parlamento?

Cosa fanno i nostri rappresentanti in Parlamento?
Lavora di più chi siede all'opposizione, mentre gli esponenti della maggioranza si scoprono presenzialisti al momento di votare. Tra i gruppi parlamentari, in assoluto il più attivo è l'IdV, tanto alla Camera che al Senato: nei lavori delle commissioni, in aula e nella redazione di proposte di legge intervengono più dei colleghi di opposizione del Pd. I "fannulloni"? Su tutti, il deputato Denis Verdini del PdL e il collega di partito, senatore Marcello Pera.
vai su www.cittadinanzattiva.it per dettagli

giovedì 25 giugno 2009

Assalto alla democrazia

Assalto alla democrazia
L'accusa del filosofo americano Sheldon Wolin: in Usa e in Occidente la commistione tra politica e affari e l'alleanza tra Stato e grandi corporations ha prodotto un «totalitarismo rovesciato» basato sulla smobilitazione delle masse
di Remo Bodei Domenica Sole 24 ore 5 aprile 2009

Nel suo ultimo libro, Demo-cracy incorporated. Managed Democracy and the Spectre of Inverted Totalitarianism (Princeton and Oxford, Princeton University Press, pagg. 356, $ 29,96), Sheldon S. Wolin offre non solo una precisa diagnosi della democrazia americana, ma anche utili indicazioni sulla deriva che questo regime subisce in altre parti del mondo. Apparso poco prima dell'uscita di scena di George W. Bush, il volume contiene alcune tesi che le recenti scelte di Obama potrebbero rendere obsolete, ma il suo pregio e i suoi insegnamenti rimangono intatti.

Wolin (classe 1922) è, per certi aspetti, l'analogo americano di Norberto Bobbio. Già professore di teoria politica a Berkeley e a Princeton, autore di studi fondamentali su continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale e di monografie su diversi classici della sua disciplina, rappresenta tuttora, per lucidità e onestà intellettuale, la coscienza critica della democrazia americana.
Del Tocqueville di La démocratie en Amérique, uno dei suoi testi preferiti, condivide l'idea che la democrazia possa fisiologicamente degenerare in un dispotismo mite, che lascia i cittadini in un perpetuo stato di minorità, preoccupandosi di assicurarne benessere e, al limite, di «levar loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere».
Nega però la radicata convinzione che gli Stati Uniti siano la culla della democrazia moderna.
In origine la costituzione americana è, infatti, elitaria: ci sono voluti tre quarti di secolo prima di abolire formalmente la schiavitù e molto di più per assicurare il diritto di voto ai Neri e alle donne e quello di associazione ai sindacati.
Se il New Deal è considerato l'unica parentesi democratica nella storia americana, a partire dalla Grande depressione e fino a oggi la democrazia viene per Wolin progressivamente svuotata dall'interno. La diminuzione del tasso di eguaglianza e di partecipazione dei cittadini ai processi decisionali - assieme alla trasformazione del Paese in Superpower, entità personificata alla stregua di Superman - ha prodotto quello che egli chiama il totalitarismo rovesciato o, meglio, rivolto verso l'interno (inverted totalitarianism).
Questa nuova creatura si basa non sulla mobilitazione, ma sulla smobilitazione delle masse e, soprattutto, sulla commistione tra sfera pubblica e sfera privata, tra politica e affari: in particolare sulla robusta rete di alleanze tra stato e grandi corporations, tra governo e chiese evangeliche, tra centri di ricerca e un poderoso apparato militare-industriale che ha speso, solo nello scorso anno, 623 miliardi di dollari, ossia quanto erogano per gli stessi scopi tutte le altre nazioni della Terra messe insieme.
Non mediante rivoluzioni, bensì per spontanea evoluzione, la democrazia stessa genera quindi dal proprio seno questo mutante, che dirotta la paura provata nei confronti dei totalitarismi novecenteschi su nemici ubiqui, sta esterni, come i terroristi, che interni, come i delinquenti (un altro primato mondiale degli Stati Uniti è costituito dalla percentuale dei detenuti, 751 per ogni centomila abitanti).
Ovviamente, nei paesi di inverted totalitarianism non esistono né campi di concentramento, né persecuzioni di massa, né abolizione del diritto di voto (esso serve anzi a legittimare quella che Michelangelo Bovero ha definito «autocrazia elettiva»). I cittadini vengono in ogni caso indotti all'indifferenza o spinti ad assistere più che a partecipare alla vita politica. Del resto la promessa reaganiana di «liberare il popolo del peso del governo» va proprio in tale direzione.
Ampliando il raggio del discorso oltre Wolin, si può osservare come questo tipo di potere abbia avuto in Occidente il suo humus più fertile in un consenso ibrido, che in parte precede, in parte affianca la politica, abituata ad alimentarsene parassitariamente. Esso poggia sui miti e sulle aspettative di una cultura che privilegia 0 principio di piacere rispetto al principio di realtà, i desideri e i sogni di massa rispetto alla sobria analisi dei vìncoli imposti e delle possibilità suggerite dalle condizioni storiche effettive. Ciò favorisce la propensione di chi comanda a plasmare la realtà secondo la propria interessata visione del mondo, ad accrescere cioè sistematicamente la quantità e la qualità delle menzogne da sempre utilizzate per governare.
Il potere di persuasione, con i relativi apparati, rappresenta pertanto l'arma più potente dell'inverted totalitarianism, capace di far credere - a lungo quanto basta - alla presenza di armi di distrazione di massa in Irak, alla collusione di Saddam Hussein con Osama bin Laden o alla perfetta salute del sistema finanziario globale.
A tale sofisticata strategia contribuisce la ripresa di rozzi ma collaudati strumenti di manipolazione del consenso, quale l'appello al popolo inteso quale blocco omogeneo e compatto che diffida dei politici di professione, ma si fida di chi si autoproclama suo genuino interprete ed è in grado di travestire le decisioni che scendono dall'alto in esigenze che salgono; dal basso.
Comune a tutte le democrazie occidentali è il fenomeno del crescente abbandono della divisione dei poteri, avvertita come un intralcio, a favore dell'esecutivo (con la conseguente strisciante riduzione del parlamento a cassa di risonanza delle scelte del governo e la limitazione delle prerogative del giudiziario), una tendenza che, per alcuni versi, l'attuale crisi economica accentua nel conferire allo stato funzioni salvifiche nei confronti del mercato.
Anche se bisognerebbe capire a fondo le ragioni di una tale diffusa acquiescenza nei confronti delle oligarchie nascoste dietro paraventi democratici e quelle della concentrazione dei poteri nelle mani dell'esecutivo, da diversi segni sembra che - complice la crisi finanziaria ed economica - molti cittadini si stiano svegliando dal letargo politico. Lo scontento e la collera di quanti sono stati colpiti dal fallimento della Parmalat 0 della Enron, la rovinosa caduta del governo islandese e il furioso assalto di pochi giorni fa alla sede della Royal Bank of Scotland nella City di Londra sono tutti sintomi dell'incrinarsi del totalitarismo rovesciato.
Forse non si tratta, come si è scritto (anche sui muri della capitale britannica) di un ritorno della lotta di classe in versione inedita, ma di una chiara condanna della connivenza tra una politica che non ha voluto porre regole certe e controlli rigorosi ai mercati e le persone e le istituzioni che hanno accumulato ingenti fortune mediante spericolate operazioni finanziarie e che, invece di essere punite, continuano ad apparire come miracolate.
Le disuguaglianze estreme (e un'indagine di febbraio dell'Ocse mette gli Stati Uniti al quinto posto e l'Italia al sesto per differenze di reddito tra i più ricchi e i più poveri) vengono sempre meno tollerate e inducono a un maggior protagonismo politico e a una rivalutazione dell'ideale di eguaglianza, che la caduta del comunismo di stile sovietico aveva trascinato con sé.
Il rischio è che, dopo aver dettato legge, godendo di un'ampia delega pubblica, le oligarchie finanziarie ed economiche, rinegoziando le quote di potere con la politica (talvolta più debole dei potentati economici), mantengano il loro effettivo, seppur ridotto potere, in fogge sempre più "camaleontiche".
Inoltre, quanto durerà e come si evolverà da parte dei cittadini la voglia di partecipazione ai processi decisionali collettivi e al monitoraggio delle istituzioni?
Sarebbe evidentemente auspicabile che ciascuno apprendesse a dirigere la propria vita in maniera più autonoma, a sopportare il peso delle scelte scaricate su di lui da una democrazia matura ed esigente, dai non sempre piacevoli processi di modernizzazione o dalla necessità di riposizionarsi incessantemente in un contesto mondiale che muta incessantemente. Ma come contrastare in molti il disorientamento e la conseguente emorragia di senso da cui scaturisce la richiesta di certezze assolute, cercate spesso più nelle religioni e nei governi forti che non nella pratica e nel rafforzamento dei principi ispiratori della democrazia (eguaglianza, dignità e libertà dell'uomo, diritti)?

E se cambiassimo punto di vista?

Se, non dico in ogni ora del giorno, ma almeno talvolta adottassimo questo punto di vista che relativizza il significato e l'importanza della vicenda umana nell'economia dell'universo, forse tanta violenza, tanta ansia di potere, tanta sopraffazione, che da sempre caratterizzano la storia dell'uomo, non penso che sparirebbero, ma certamente troverebbero una loro misura, e soprattutto si scoprirebbe forse l'amore, che è poi l'unica cosa che giustifica l'esistenza umana nel breve attimo in cui le è dato di vivere.


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E SE CAMBIASSIMO PUNTO DI VISTA?
Scrive Platone nelle Leggi (903 e) "Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso. E, anche se tu non ti accorgi, non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica".


Per me l'uomo va visto e va definito stando d'altra parte dell'universo; va collocato e idealmente confrontato con il tempo e la dimensione del cosmo! Sì, perché qualsiasi descrizione si voglia fare, a una distanza Intermedia, non sarebbe mai idonea perché parziale, limitata, orba. Ancor meno è sensata una descrizione antropocentrica.
Che attendibilità, infatti, ha una descrizione del mondo fatta dal chiuso della propria casa? Perciò, una volta arrivati d'altra parte, e solo allora, ci si potrà disporre finalmente a ricercare e a ritrovare quell'uomo perduto e lontano, quell'uomo sperso e ormai praticamente invisibile: "Egli sarà pure da qualche parte, in una direzione qualsiasi, forse nascosto dallo splendore di una stella nascente o da una qualche nube galattica...?".
Mi ripeto: è da lì, e solo da li, di fronte a quello spettacolo d'immane e maestosa grandezza, a quell'esplosione del "tutto", che si dovrà finalmente iniziare II ritorno. Solo allora l'uomo potrà finalmente vedersi nella sua reale dimensione e apprezzarsi come quello straordinario sussulto che, a suo modo, "brilla" al pari, se non più, dì un'intera galassia.
Solo allora potrà sinceramente amarsi senza presunzione e tracotanza sia nella sua estrema fragilità e finitezza che nella sua fantasmagorica avventura esistenziale. Solo dopo essersi "terapeuticamente" umiliato, marginallzzato e aver portato allo stremo ogni possibile rivoluzione copernicana, l'uomo potrà veramente rifondare la sua esistenza e riappropriarsi del suo destino.
Dice Kant: "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me". E io, uomo d'oggi, molto (!) modestamente aggiungo che iI cielo non è solo sopra di me perché io sono nel cielo. Noi siamo gocce di cielo nel cielo e il cielo è iI nostro mare! È così che penso che partendo da questo profondissimo sentire, possa rinascere una nuova e potentissima morale più rispettosa dell'uomo e del suo meraviglioso mondo "celeste" e dell'uomo, in quanto "goccia", nel mondo, in quanto "mare". Carlo Mattei, Napoli

Risponde Umberto Galimberti:
Quello che lei disegna è il senso dell'uomo sulla Terra, al di là di tutte le rappresentazioni religiose che fanno dell'uomo il centro dell'universo.
Tutti infatti conoscono quella frase orgogliosa di Pascal (Pensiero 264): "L'uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. E anche quando l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire, mentre l'universo non sa nulla".
Nessuno, invece, si prende mai cura di ricordare quell'altra considerazione abbastanza angosciata sempre di Pascal (Pensiero 205): "Gettato nell'infinita immensità degli spazi che ignoro, e che non mi conoscono, provo spavento". È lo spavento, in una visione cosmica, dell'insignificanza dell'uomo sulla Terra, a cui Platone in parte allude nella frase che abbiamo citato in apertura e su cui torna Nietzsche in Verità e menzogna in senso extramorale: "In un angolo remoto dell'universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c'era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia del mondo: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire.
Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell'intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell'intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui".
Se, non dico in ogni ora del giorno, ma almeno talvolta adottassimo questo punto di vista che relativizza il significato e l'importanza della vicenda umana nell'economia dell'universo, forse tanta violenza, tanta ansia di potere, tanta sopraffazione, che da sempre caratterizzano la storia dell'uomo, non penso che sparirebbero, ma certamente troverebbero una loro misura, e soprattutto si scoprirebbe forse l'amore, che è poi l'unica cosa che giustifica l'esistenza umana nel breve attimo in cui le è dato di vivere. Questo pensiero ci sfiora in occasione della morte di quelle persone, a noi vicine, che davano senso alla nostra vita. Custodiamo questo pensiero.

Repubblica delle donne, 20 giugno 200

Cucine solari

La missione è diffondere nel mondo l'uso delle cucine solari come strumento di aiuto umanitario e insieme ecologico, promuovendo un metodo di cottura del cibo a costo zero e a zero impatto ambientale:

per questo, la Solar Cookers International, organizzazione non profit californiana, collabora da anni con l'ONU, l'UNESCO e una costellazione di ong nel mondo, compresa l'italiana Don Bosco. Fra i progetti di punta, oltre a quello nei campi nel sud del Nepal, la fornitura delle eco-cucine in Ciad, nei campi dei profughi in fuga dal conflitto Sudan-Oarfur. Il programma consente alle donne di non allontanarsi dalle proprie abitazioni per il rifornimento di legna, esponendosi in questo modo al pericolo di violenze sessuali e omicidi da parte della fazione avversa. Anche in Kenya è stato avviato un progetto di fornitura delle cucine per combattere la deforestazione avanzante, in un Paese dove solo il 3% delle foreste è rimasto intatto. È inoltre allo studio un ulteriore utilizzo di questa tecnologia pulita: usare il surplus di energia generata dalle cucine solari per alimentare lampadine e fonti luminose, nelle zone ancora prive di energia elettrica, in Kenya, Ciad e Nepal, Solar Cookers International lavora in cooperazione con l'agenzia ONU per i rifugiati Netherlands Refugee Foundation, olandese. Sul siti di entrambe le organizzazioni, www.solarcookers.org e www.vluchteling.org, è possibile effettuare donazioni direttamente online a sostegno dei programmi. Per donazioni finalizzate solo al campo profughi nepalese di Beldanji, si può anche contattare la Vajra Foundation Nepal (www.vajra.nl): lavora sul territorio occupandosi dei training per la manutenzione e la pulizia delle "paraboliche", organizza corsi di cucina e sta cercando di avviare produzione e assemblaggio delle cucine in loco, in modo da creare nuovi posti di lavoro.
La repubblica delle donne, 20 giugno 2009

india: un sito positivo

Nel nostro mondo del benessere è difficile immaginare che l'invenzione di una banale pentola possa salvare delle vite umane.
Ma per cinquantamila donne indiane la pentola Envirofit rappresenta una svolta.
Questo apparecchio prodotto da un'associazione non profit si sta diffondendo a gran velocità negli Stati del Kerala, Karnataka, Tamil Nadu. Usando una semplice tecnologìa chiamata "a combustione totale", e gli scarti di legno come combustibile, la pentola offre vari vantaggi. Riduce del 40% i tempi di cottura rispetto alle tradizionali stufe in pietra usate da millenni nei villaggi indiani.
Un altro aspetto è ancora più importante per la salute: al risparmio di carburante si accompagna una riduzione dell'80% delle emissioni carboniche dannose. Ogni anno in India 400.000 persone muoiono per l'uso domestico dei combustibili chiamati "biomasse solide", come appunto il legno, la paglia, o gli escrementi animali essiccati. Bruciandoli nei forni in pietra tradizionali, le loro esalazioni sono tossiche. A volte uccidono sull'istante, quando di notte le casupole dei contadini poveri si trasformano in micidiali camere a gas. Altre volte la morte è lenta, attraverso malattìe respiratorie e cardiocircolatorie provocate dalla costante inalazione dei gas.
Una sola pentola può rappresentare il confine tra la vita e la morte, tanto più in un Paese dove centinaia di milioni di abitanti non hanno accesso ad acque potabili e pulite, e quindi la bollitura è essenziale per ridurre le epidemie di infezioni gastrointestinali.
Dove ho trovato queste informazioni? La "notizia dietro la notizia" è questa: esiste un sito Internet, www.thebetterindia.com, che si è specializzato nel divulgare fatti positivi che accadono in India.
Non è propaganda governativa. È un punto di raccolta e di comunicazione di micro-esempi del cambiamento, storie di eroine e di eroi sconosciuti, gente che attraverso gli sforzi quotidiani sta cambiando la propria esistenza e la comunità in cui è nata. The Better India non vuole spandere ottimismo ingenuo, il tono del sito non è stucchevole. È un'operazione semplice e trasparente: dà visibilità a tante vicende positive che altrimenti resterebbero sotto la linea d'ombra, sfuggirebbero ai radar dei mass media. The Better India non va a caccia di grandi scoop, di svolte epocali, si accontenta di collezionare episodi di "progresso incrementate", quei miglioramenti graduali che messi assieme fanno massa critica e creano le premesse dì un futuro migliore.
Un'altra di queste storie ha per protagonista la tribù Sahariya. È un gruppo etnico nomade, una delle tante "minoranze tribali" che in india stanno un gradino ancora più in giù rispetto alla casta degli intoccabili (perché le caste-inferiori almeno hanno un ruolo nella religione induista, mentre i tribali sono solitamente non-indù).
Le donne Sahariya sono così povere che spesso sono costrette a prostituirsi. Ora una speranza esiste anche per loro. Si chiama Tara (Technology and Action for Rural Advancement), è un'iniziativa non profit che ha creato un'officina artigianale per la produzione di carta fatta a mano. L'impianto pilota sì trova a Orchha, nello Stato del Madhya Pradesh, e dà lavoro a 60 donne.
Il principio è semplice: i promotori dì questo progetto hanno notato la grande abilità manuale delle donne Sahariya, sviluppata nel raccogliere, sminuzzare e legare ì ramoscelli di legno che vendono nei villaggi. Questa manualità è stata applicata alla lavorazione della carta. Riciclando scarti di cotone, di tessuto denim dei jeans, di fibre e carta usata, l'officina di Orchha sforna carta da lettere, buste, quaderni di buona qualità. Adesso queste donne Sahariya non solo si sono liberate dallo spettro della miseria, ma hanno formato una cooperativa che fornisce corsi di alfabetizzazione e istruisce altre giovani apprendiste. 29 villaggi della zona sono diventati "soci" di questa cooperativa che è diventata anche un centro prezioso per la raccolta del risparmio e il microcredìto, uno strumento contro quell'usura che spesso minaccia i più poveri.
di Federico rampini, La repubblica delle donne, 20 GIUGNO 2009

mercoledì 24 giugno 2009

galileo galilei e la musica

Sviluppare la sfera emotiva è importante per l'apprendimento in generale e per la formazione intellettuale dell'individuo. Lo dimostrano recenti studi di neuroscienze cognitive. «Dunque, poiché la sfera emotiva si sviluppa prevalentemente con le discipline artistiche, in particolare con la musica, l'insegnamento di tali materie, della musica in particolare, dovrebbe diventare fondamentale nelle scuole di ogni ordine e grado»

dice Stefano Fantoni, direttore della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste.
Se è vero che la musica è una costruzione percettiva di chi è capace di trasfigurare con l'ascolto le vibrazioni dell'aria in suoni musicali, è altrettanto vero che è anche costruzione di armonie e di strutture formali. E che dentro gli strumenti e le opere musicali c'è tanta scienza. Non è un caso che scienziati come Galileo, Cartesio, Keplero e Newton abbiano dedicato alla musica molte delle loro energie.
«Il fatto che musica e scienza, due dimensioni della cultura ritenute troppo spesso agli antipodi e non comunicanti – dice Pietro Greco, direttore del master in Comunicazione della scienza alla Sissa –, possano essere collegate tra loro da fili piuttosto robusti era già stato intuito nel 1600 da Vincenzo Galilei, musicista, padre di Galileo».
Vincenzo Galilei, secondo lo storico della scienza Stillman Drake, ha dato dall'interno della musica un grande contributo alla rivoluzione scientifica. Non si è limitato, infatti, a introdurre Galileo alla matematica di Pitagora e alle regole dei rapporti musicali elaborate due millenni prima dal filosofo-matematico greco. «Perché l'armonia dei suoni musicali sembra seguire le astratte leggi matematiche di Pitagora – aggiunge Greco –, ma deriva dalle vibrazioni fisiche dell'aria. E non è possibile, pertanto, elaborare una teoria della musica affidandosi solo all'autorità di Pitagora o di chiunque altro senza tener conto di come, in pratica, si generano tali vibrazioni fisiche». Perciò Vincenzo Galilei non si è limitato a studiare e ad applicare le regole musicali di Pitagora. Ma, con veri e propri esperimenti, ha verificato se e come nella realtà fisica quelle regole funzionino e ha elaborato una teoria musicale studiando la fisica del suono.
Sta in questo, secondo Greco, il suo merito maggiore, cioè nel l'aver fornito al figlio un imprinting epistemologico, lo stesso che è alla base della scienza moderna. E ha dimostrato che il processo di trasmissione culturale tra arte e scienza è bidirezionale: il passaggio può avvenire dall'una all'altra e viceversa, secondo percorsi imprevedibili. La scienza influenza l'immaginario artistico. Ma anche l'arte influenza l'immaginario scientifico di tutti, scienziati compresi. E questa influenza, nel caso di Vincenzo e Galileo Galilei riguarda addirittura il processo di acquisizione della conoscenza.
«Galileo, che aveva ricevuto dal padre un'educazione musicale completa – dice Gianni Zanarini, professore di acustica musicale al l'Università di Bologna –, per primo ha impostato l'acustica in termini scientifici, riconducendo le altezze dei suoni alla frequenza di vibrazione delle corde che li producono e quindi alla frequenza delle vibrazioni dell'aria che giungono al l'orecchio».
Per dare almeno un'idea di come la trasmissione culturale tra musica e scienza possa essere bidirezionale, Zanarini propone una conversazione immaginaria tra uno studente di chitarra alle prime note e uno studente di fisica. «Come mai suono un Mi sulla sesta corda (a corda vuota), e poi, sempre sulla stessa corda, ne trovo un altro di altezza diversa al dodicesimo tasto, corrispondente all'ottava nota superiore? E sul settimo tasto trovo un Si?». «La frequenza di vibrazione della corda – replica l'interlocutore – aumenta al diminuire della sua lunghezza: si vede anche a occhio che il dodicesimo tasto è proprio a metà della corda, mentre il settimo è a due terzi». La conversazione tra i due potrebbe continuare approfondendo il tema della consonanza nei suoi aspetti fisici e percettivi, ed esplorando i correlati scientifici dell'invenzione dell'armonia tonale che è l'arte e il risultato della combinazione simultanea di più suoni.

SVILUPPI COGNITIVI APPRENDIMENTO

Assonanze tra note e scienza

Le conoscenze di Galileo furono influenzate dal padre musicista

DI ROSANNA MAMELI

il direttore del TG1...memoria corta....

Ma guarda guarda...il direttore del TG1 che in tv, a proposito di "puttanopoli", difende il provato dei politici, si dimentica di quanto aveva detto qualche anno fa....

Stralcio dell'intervento al TG1 del 23 giugno 2009
"Accade -ha detto Minzolini- che semplici ipotesi investigative e chiacchericci si trasformino in notizie da prima pagina nella realtà virtuale dei media o per strumentalizzazioni politiche o per interessi economici.

E' avvenuto in passato, come ricorderete, quando si tentò di colpire il presidente del consiglio di allora strumentalizzando la foto che ritraeva un suo collaboratore in una situazione definita scabrosa. E' accaduto più volte -ha continuato - in queste settimane in cui è stata messa sotto i riflettori la vita privata del premier in nome di un improvviso moralismo: abbiamo visto addirittura celebri mangiapreti vestire i panni di novelli Savonarola".

"Queste strumentalizzazioni, questi processi mediatici, non hanno nulla a che vedere con l'informazione del servizio pubblico -assicura Minzolini- Nella settimana in cui gli Stati Uniti hanno scelto le nuove regole per proteggere il risparmio nel mondo, mentre esplodeva il caso Iran, e alla vigilia del G8, sarebbe stato incomprensibile privilegiare polemiche sul gossip nazionale solo per scimmiottare qualche quotidiano o rotocalco. Questa è la linea editoriale del Tg1 che vi ho promesso, cari telespettatori, fin dal primo giorno. E che continuerò a garantirvi".

Ma 15 anni fa la pensava all'opposto.....

Repubblica — 29 ottobre 1994 pagina 34 sezione: CULTURA
Roma - Chi non conosce Augusto Minzolini? 35 anni, inviato di punta della Stampa, "sul campo" dalle dieci di mattina alle dieci di sera, annusa l' aria come un furetto sul suo motorino all' inseguimento delle macchine blu e spunta dove uno meno se lo aspetta. Sembra il ritratto di un cronista da Prima pagina o, in chiave meno scherzosa, da Tutti gli uomini del Presidente e in effetti un po' lo è ma è anche un ritratto che corrisponde al personaggio. Il quale, naturalmente, non è affatto d' accordo con le tesi esposte da Antonio Polito. "Portata alle sue estreme conseguenze condannerebbe i giornalisti italiani a riferire solo le notizie ufficiali, diramate dai politici nel pieno delle loro funzioni. Ma Polito forse non sa, perché non fa il cronista politico, che quasi mai i politici forniscono informazioni che rispondono a fatti reali e quasi sempre invece parlano perché hanno altri scopi, soprattutto quello di far apparire il loro nome sui giornali". Poi rifà un po' la storia del rapporto giornalista-uomo politico nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica: "Faccio questo lavoro da quattordici anni. Con i politici tradizionali mi scontravo con la difficoltà di renderli concreti agli occhi del lettore, era anche un problema di linguaggio: voglio dire che bisognava decodificare il linguaggio astratto e rituale in uso nella prima Repubblica. Nella seconda Repubblica il problema non è farsi dire delle battute, ma all' opposto riuscire a strappare dei propositi seri. In entrambi i casi il mio modo di concepire questo lavoro non è cambiato e penso che sia l' unico modo per arrivare veramente alla verità: nella stessa pagina in cui riportavo le dichiarazioni di Del Noce sulle nomine Rai il Presidente del Consiglio dichiarava: ' non mi sono mai occupato di nomine Rai' . Forse Polito pensa che veramente Palazzo Chigi non se ne sia occupato?" E dunque lei non si sente strumentalizzato, usato per far arrivare messaggi in codice a costo di far seguire all' articolo una smentita? "Non capisco l' accusa. Non credo che quella della smentita sia una tecnica vincente per un politico, non crea una buona immagine nell' opinione pubblica ma anzi viene vista come una patologia e io penso che l' opinione pubblica sia perfettamente in grado di giudicare come stanno le cose. Potrei prestarmi a strumentalizzazioni se riferissi le confidenze senza indicare la mia fonte, ma io faccio sempre i nomi: a causa delle loro confidenze Del Noce ha perso l' incarico di responsabile dell' informazione di Forza Italia e Violante quello di presidente dell' antimafia". Questa ondata di smentite che arriva alla stampa italiana non si ritorce contro la credibilità dei giornali? "Le smentite a ripetizione rivelano solo che abbiamo una classe politica nuova che non ha ancora assimilato il fatto che un politico è un uomo pubblico in ogni momento della sua giornata e che deve comportarsi e parlare come tale. Il rinnovamento del Parlamento italiano è un fenomeno anche sociologico di cui la stampa deve dare conto: io non dimentico mai che il mio referente è il lettore e non il politico e che il mio compito è quello di rappresentarlo come è senza mediazioni". Rappresentarlo anche nei suoi aspetti privati? E' giusto frugare nella vita intima di chi ci governa, è utile? "Quattro anni fa, e cioè in tempi non sospetti, scrissi che la nomina di Giampaolo Sodano alla Rai nasceva dai salotti di Gbr, la televisione di Anja Pieroni. Oggi penso che se noi avessimo raccontato di più la vita privata dei leader politici forse non saremmo arrivati a tangentopoli, forse li avremmo costretti a cambiare oppure ad andarsene. Non è stato un buon servizio per il paese il nostro fair play: abbiamo semplicemente peccato di ipocrisia. Di Anja Pieroni sapevamo tutto da sempre e non era solo un personaggio della vita intima di Craxi. La distinzione fra pubblico e privato è manichea: ripeto, un politico deve sapere che ogni aspetto della sua vita è pubblico. Se non accetta questa regola rinunci a fare il politico". - D P