lunedì 29 settembre 2008

Guido Viale - azzerare i rifiuti

Intervista a Guido Viale, di BRUNELLA SCHISA , dal "Venerdi di repubblica" del 16 settembre 2008

L'immondizia a Napoli tornerà, anzi sta già tornando nelle strade, perché non si è fatto niente per ridurre i rifiuti urbani e la Campania continua a produrne settemila tonnellate al giorno. Ma soltanto 18 mila stanno sperimentando la raccolta differenziata. Gli altri non sono stati messi nelle condizioni di farla».
Guido Viale da anni si occupa di ricerche economiche e sociali e ha appena pubblicato "Azzerare i rifiuti", un tema che segue con passione da oltre un decennio. «Per i rifiuti della Campania si aspetta l'apertura dell'inceneritore di Acerra, che sarà il più grande d'Europa, annunciata come imminente da quattro anni. Ma io prevedo che non verrà aperto molto presto e che potrebbe essere chiuso poco dopo. Se ci sono voluti otto anni per realizzarlo non è per le proteste dei cittadini ma per errori di progettazione. Quanto agli altri tre, ci vorranno ancora almeno tre-quattro anni».

E nel frattempo?
«Si continuerà a sversare rifiuti indifferenziati nelle discariche. Berlusconi ne ha annunciate altre undici, ma le discariche sono una soluzione arretrata, anti economica e anti ambientale. L'alternativa vera è rimettere in funzione gli impianti di trattamento meccanico biologico, i cosiddetti cdr, che separano la parte combustibile da quella che non lo è. In Campania ce ne sono sette, ma non hanno mai funzionato bene. Per aumentare le quantità da bruciare, e prendere gli incentivi di Stato, sono stati usati male e stressati: con il risultato che quello che usciva era quasi uguale a quello che entrava. Così si sono accumulate milioni di ecoballe».

Ma quando entrerà in funzione l'inceneritore di Acerra smaltirà duemila tonnellate al giorno...
«Se entrerà in funzione, ci metterà sette-otto anni solo per smaltire i cinque milioni di ecoballe. Ammesso che sia in grado di farlo».

E quelle prodotte ora?
«Dovrebbero essere smaltite negli altri tre inceneritori. Se verranno fatti. Ma nel decreto del Governo non esiste alcuna misura per incentivare la raccolta differenziata. Gli incentivi sono solo per gli inceneritori.
Dal '93 a oggi con questi incentivi sono stati distribuiti circa 40 miliardi di euro. Il più è andato agli impianti di raffinazione del petrolio. Tra i quali hanno un ruoto di spicco quelli dei Moratti».

Quindi per fronteggiare l'emergenza bisogna procedere alla raccolta differenziata.
«Esatto. Secondo la legge i Comuni dovrebbero farla per il 35% dei rifiuti urbani, mentre in realtà è intorno al 24%. Ma ci sono comuni, come quello di Messina, allo zero per cento e altri, come di Treviso, al 65%. Non dipende dalla cultura o dai geni degli abitanti; è solo una questione di buona amministrazione. Anche in Campania, per esempio in provincia di Salerno, ci sono Comuni che fanno oltre il 70 per cento della differenziata».

Lei sostiene che fin quando i cassonetti saranno in strada non si potrà fare.
«Questo è sicuro. La raccolta differenziata va fatta porta a porta, per ogni numero civico, per ogni condominio. Oppure in spazi sorvegliati con chiavi o badge, come si fa in Svizzera. Un luogo protetto dove nessuno può infilare quello che gli pare. D'altronde secondo la direttiva europea dobbiamo arrivare a riciclare almeno il 50 per cento dei rifiuti che produciamo e senza il porta a porta non ci si arriva».

Lei nel suo libro parla della «cultura della sobrietà», ma sembra un'utopia.
«Sul tema rifiuti c'è quasi uno scontro di civiltà. Dobbiamo metterci in testa che tutto quello che compriamo e facciamo entrare in casa prima o poi esce come rifiuto. Il problema è che la durata del bene è sempre più breve. Ma è soprattutto la scelta di quello che si consuma, il modo in cui io si fa, che può ridurne la produzione».

Per esempio?
«Evitare l'usa e getta. Non usare piatti e bicchieri di plastica. Non comprare acqua minerale e mettere un filtro ai rubinetti. Nei primi due anni e mezzo di un bambino si spendono duemila euro di pannolini. Spesa che potrebbe essere ridotta a 150-300 euro senza bisogno di tornare al Napisan e ai ciripà.».

Lei insiste molto anche sulla riduzione dell'uso degli imballaggi.
«Sì. Il 40% dei rifiuti urbani riguarda gli imballaggi. Parlo di peso, perché è ovvio che in volume sono molto di più...»

Bisognerebbe tornare ai vuoti a rendere.
«Se si fa come in Austria, che per una bottiglia di birra ti rendono 30 centesimi... E bisognerebbe comprare alia spina non solo detersivi, ma anche molti prodotti in grani, come riso, caffè e persino pasta e vino. Così avviene in Germania».

Ma azzerare i rifiuti è impossibile.
«In linea di principio si può fare. L'importante è cominciare. Berlino ha già ridotto del 3% la produzione annua, San Francisco ha portato la raccolta differenziata al 60% in poco più di un anno. Anche noi, per legge, dovremo raggiungere il 65% nel 2012. E d'altronde, la notizia che almeno cento milioni di tonnellate di rifiuti di plastica galleggiano nel mezzo dell'Oceano Pacifico, formando una specie di nuovo continente, non me la sono inventata io».

domenica 28 settembre 2008

L'amore su Islamonline

Sarà in librerìa da giovedì il nuovo libro della scrittrice marocchina Fatema Mernissi, Le 51 parole dell'amore (Giunti, Firenze, pagg. 256, €12,00). Ne anticipiamo un brano.

di Fatema Mernissi
L'amore potrebbe diventare la prossima materia preziosa da esportazione del mondo arabo, ora che gli sceicchi del Golfo consapevoli che le riserve di petrolio si assottigliano, cercano di diversificare le loro economie.
«L'esportazione araba che riscuote più successo non è il fondamentalismo ma il romanticismo», sostiene lo psicologo clinico Frank Tallis, occidentale cosmopolita e lungimirante, che ha insegnato all'Istituto di Psichiatria del King's College di Londra. A suo dire, per quanto Oriente e Occidente siano ugualmente ossessionati dall'amore romantico, il primo sarebbe meglio equipaggiato per soddisfare alla domanda su scala planetaria, proprio perché «gli arabi cadevano preda dell'amore seicento anni prima degli inglesi, che iniziarono a farlo solo quando lo studioso John Palsgrave introdusse l'espressione "to fall in love" nel sedicesimo secolo». E indovinate dove inciamparono, Palsgrave e gli altri studiosi britannici, per scoprire il mistero dell'amore come caduta? Ebbene, che lo crediate o meno, gli occidentali scoprirono il romanticismo leggendo in traduzione i trattati sull'amore scritti da autori arabi andalusi, tra cui Ibn Hazm, nell'undicesimo secolo. Fu questa la fonte di ispirazione per i cantori itineranti francesi del tredicesimo e quattordicesimo secolo, i famosi trovatori, troubadours, «termine verosimilmente derivato dall'arabo tarab, che significa intrattenimento musicale». (...)
Se le forze dell'amore spingono musulmani e musulmane dotati di coraggio a spiccare un salto così pericoloso, gli imam, dal canto loro, hanno il compito di aiutarli "a risalire la china. Nemmeno un intellettuale brillante come Ibn Hazm avrebbe mai potuto immaginare baratro più pericoloso di internet, terreno di sfida di imam moderni come Yusuf al-Qaradawi, star di Al-Jazeera, leader e ispiratore del sito IslamOnline e avveduto quanto basta per capire che il solo modo di salvare i musulmani è puntare sull'amore universale. L'unica salvezza planetaria immaginabile è la trasformazione di internet in una sorta di Arca dell'Amore, e gli arabi hanno tre elementi per guidare la navigazione.
Primo: terrore del consumismo.
Secondo: una vasta e sofisticata letteratura medievale sull'amore che continua a affascinare le giovani generazioni.
Terzo: il petrolio, con lauti proventi da investire nel progetto.

Per avere un'idea del terrore suscitato tra i genitori del mondo arabo dall'onda consumistica che ne lambisce le coste, basta guardare le copertine delle riviste da Baghdad a Casablanca: dal prestigioso periodico egiziano «Rose al-Yusuf», creato nel 1925 dalla femminista Fatema al-Yusuf, al più recente «Teens Today» con sede a Abu Dhabi. Il rischio più terrificante lo corrono le donne più giovani, come ripete costantemente «Teens Today»: «Adolescenti nella trappola di Bluetooth». (...)
Un modo di sviluppare la responsabilità personale è trasformare l'amore consumistico, artificiale ed egocentrico, nell'amore altruistico per cui Ibn Hazm si è battuto secoli fa. Alla luce delle ansie che attraversano il mondo musulmano, si può arrivare a capire perché i trattati sull'amore, come "Il collare della colomba", riscuotano tanto successo in Rete: quando sei spaventato, hai bisogno di qualcuno che ti paventi una soluzione. Ibn Hazm - arabo spagnolo vissuto , in tempi difficili come i nostri, sbattuto in prigione dopò essere stato visir, quando i califfi omayyadi sovrani di Andalusia perdevano potere - giunge alla conclusione che il solo rimedio è l'amore autentico, che ti apre ai rischi dell'incontro con l'altro. La sua conclusione è anche la mia.

Il consumismo disorienta i giovani perché manipola le loro emozioni, inducendoli a confondere l'amore con l'acquisto e lo sfoggio di beni di lusso. Per Ibn Hazm, invece, la tenerezza è una forza cosmica che ti trasforma in una straordinaria fonte di premurosa generosità. (...) In una religione che, a differenza del Cristianesimo, non liquida il sesso come peccato, gli imam hanno sempre avuto il compito di aiutare i credenti a controllare le emozioni: cosa che ha spinto molti di loro, tra cui Ibn Hazm, a scrivere trattati sull'amore. Né è sorprendente che l'imam al-Qaradawi chiami in suo aiuto un esercito di esperti di disci-pline moderne. E non crediate si limiti a psi-canalisti, sociologi e medici maschi: nel suo sito web si affida in larga misura anche alle donne.
I membri dei suoi team, che si occupano di "Problemi dei Giovani e Soluzioni", non esauriscono la loro funzione mettendo in Rete le risposte. Hanno denaro quanto basta (al-Qaradawi vive nel Golfo!) per pubblicare domande e risposte in manuali agili ed economici, come "Internet e l'Amore" o "II Matrimonio e l'Amore", accessibili a genitori e figli.
Non dimentichiamo che, quando diciamo "musulmani", parliamo di milioni di giovani con il solo desiderio di innamorarsi e di sposarsi; cosa che spiega il gran numero di siti concorrenti di IslamOnline. Ciò mi riporta all'altra ragione alla base del terrore musulmano per il consumismo: come scrive lo psicanalista francese Charles Melman, «l'approccio, spesso e volentieri pseudo-commerciale, alle relazioni amorose» impedisce all'individuo di aprirsi all'altro come elemento dì un gruppo, con la consapevolezza che ognuno è parte di un sistema cosmico.
Quando i musulmani leggono il libro di Melman "L'Homme sans gravité. Jouir à tout prix "L'uomo senza gravità: godere a ogni costo)", scoprono che anche gli occidentali sono allarmati dal consumismo, e - questa è la novità! - gli imam sono avveduti quanto basta per rendersi conto che l'era del culturalismo tribale è tramontata: la sola strategia vincente per il futuro è quella che s'inserisce in un orizzonte universale. Grazie a internet, i musulmani scoprono che milioni di occidentali spaventati dal consumismo, che rifiutano perché contrario alla loro etica, condividono il loro stesso desiderio di amore universale, e lo considerano l'unica, urgente soluzione per la sopravvivenza. Non può esserci scontro di civiltà, se l'amore universale diventa l'obiettivo di una globalizzazione etica. Per chiarire questo punto, lasciatemi concludere con un esempio.
Molti occidentali sono d'accordo con i musulmani nel ritenere irrazionale il rigetto della vecchiaia, che spinge molti e potenti manager di multinazionali, che dovrebbero preoccuparsi di problemi seri, a cercare di apparire eternamente giovani tramite costosi trattamenti contro la calvizie. «Dalle stime relative al 1999 emerge che gli uomini hanno speso 900 milioni di dollari in trattamenti medici contro la calvizie», spiega Peter Conrad nel suo allarmante testo "The Medicalization of Society (La medicalizzazione della società)". Stando alle sue fonti, «un trapianto di capelli può costare da duemila fino a più di diecimila dollari, a seconda della quantità di capelli trapiantati». Di fronte a questo consumismo malato, lo scontro di civiltà del signor Huntington scompare, per lasciare il posto a un pianeta unito nel suo rifiuto e nel desiderio di un amore cosmico, altruistico come quello di Ibn Hazm.

venerdì 26 settembre 2008

rock veli e inviti alla tolleranza

Rock, veli e inviti alla tolleranza
II libro di Sumaya Abdel Qader, milanese di origini palestinesi ci introduce al mondo degli immigrati di seconda generazione
di Paolo Branca
Ci ostiniamo a chiamarli «immigrati diseconda ge-nerazione», ma immigrati non sono affatto poiché nati qui, o arrivati in Italia a soli pochi mesi di vita. Se il colore della pelle o un determinato abbigliamento ce li fanno percepire come stranieri, conoscendoli più da vicino potremmo restare sbalorditi: qualcuno ha assunto persino in-
flessioni dialettali tipiche della zona in cui vive. La cittadinanza, tuttavia, per la gran parte di loro resta un miraggio. La patria a cui appartengono, e che rimpiangono con nostalgia durante le vacanze passate nei paesi d'origine, si rivela spesso una madre distratta e pasticciona, com'è del resto anche verso tanti suoi figli doc. Poco importa che abbiano ormai quasi 30 anni, si siano già sposati e abbiano dei figli, che magari fre-
quentano la scuola delle suore.
Molti di loro, musulmani, non , hanno neppur chiesto l'esonero ] dall'ora di religione e hanno frequentato gli oratori, per fare i compiti o giocare a pallone. Hanno compagni e amici di tutte le fedi, anche laici, persino gay...
Rompono il digiuno di Ramadan con la pizza e si siedono al tavolo della trattoria per la "cena di classe" senza badare che vi sia una bottiglia di birra o che l'amica del cuore porti la minigonna, il piercing all'ombelico o sia tatuata come un galeotto.
Osservare precetti e usanze della religione d'origine comporta per loro un continuo esame d'ammissione, devono dare spiegazioni, darsi il coraggio e la pazienza per rispondere sempre alle stesse domande, farsene una ragione. Un percorso di continue mediazioni e negoziazioni, sia coi genitori sia con tutti gli altri, che li fa maturare anzitempo. Hanno le carte in regola per dare a questo Paese, che è il loro, uno straordinario contributo, anzitutto svecchiando e dinamizzando le leadership inadeguate che controllano le comunità a cui appartengono da prima che loro nascessero, ghettizzate o almeno vittimiste, poco inclini a un'integrazione che vedono ancora con sospetto, mentre per molti giovani è già un fatto compiuto. A loro i media riservano assai poca attenzione, attardandosi spesso su vecchi tromboni che ripetono sempre le stesse note.
L'autrice di queste pagine appartiene a un centro islamico milanese che ha, rispetto ad altri, una composizione e una direzione molto più variegata, che non ha caso ha visto anche formarsi nel tempo un gruppo giovanile promiscuo vivace e dinamico, che collabora con la parrocchia e le istituzioni del quartiere. Ha partecipato personalmente (lei, di origine palestinese) lo scorso anno alla cerimonia che, in stazione Centrale, commemora la partenza dei treni per Auschwitz portando la sua solidarietà alla comunità ebraica milanese (l'anno precedente era stato suo marito, di origini siriane). Probabilmente non sarà questa comunità ad avere la precedenza nell'ottenere uh luogo di culto riconosciuto. Un Paese nel quale troppo spesso finiscono per avere maggior visibilità, e gli immeritati vantaggi che ne conseguono, i più furbi o comunque non certo i migliori ha ben poco da sperare nel proprio futuro. Eppure, da queste pagine emerge un affetto sincero, messo a dura prova ma indomabile, per qualcosa a cui appartieni comunque, come la famiglia che ti ha cresciuto, dove non mancheranno di sicuro parenti anche antipatici, ma che è quella che ti è toccata in sorte e a cui sei indissolubilmente legato.
O Sumaya Abdel Qader, «Porto il velo, adoro i Queen. Nuove italiane crescono», Sonzogno, Milano, pagg. 180, € 14,00.

lunedì 22 settembre 2008

una grande discarica salva i mercati

Una grande discarica salva i mercati
Di Borsaprof
da: http://it.biz.yahoo.com/22092008/92/grande-discarica-salva-i-mercati.html
del 22 settembre 2008

Non ricordo di aver mai vissuto una successione di giornate borsistiche come quelle finali della scorsa settimana. Nemmeno negli anni 2000-2003, quelli del grande crollo dei mercati si era vista una simile esplosione di volatilità. Fino alle 21 di giovedì le borse mondiali erano sull'orlo del baratro, con perdite settimanali che andavano dall'8% per chi stava meglio (l'indice tedesco e quello americano SP500), al 15-18% per i principali paesi emergenti (Cina e Brasile). La Russia aveva addirittura dovuto chiudere la Borsa per eccesso di ribasso.
Tutto questo il giorno prima delle scadenze tecniche di venerdì, giornata dedicata alla liquidazione dei contratti su futures ed opzioni e di chiusura delle posizioni. I mercati sarebbero potuti crollare con un tonfo da libri di storia. Le cinque banche d'affari americane, le “big five”, a giudicare dai prezzi che il mercato stava esprimendo, non esistevano più. Due erano scomparse perché acquisite da altre banche (Bear Stearns (NYSE: BSC - notizie) e Merrill Lynch (NYSE: MER - notizie) ), una (Lehman Brothers (NYSE: LEH - notizie) ) era fallita, trascinando nel vortice delle perdite tutti coloro che erano esposti con strumenti finanziari da essa creati. Le due restanti (Morgan Stanley (NYSE: MS - notizie) e Goldman Sachs (NYSE: GS - notizie) ) cercavano disperatamente un compratore perché erano agli sgoccioli di liquidità ed il fallimento sarebbe probabilmente arrivato in questo week-end. Sui giornali la crisi di Borsa era trattata con grande evidenza, come nel '29. Non si leggeva un solo commento possibilista sul futuro dei mercati. Tutti gli esperti temevano il “melt-down” dei mercati, la fusione nucleare del sistema finanziario americano e, grazie alla globalizzazione, del resto del mondo. Intanto si rincorrevano notizie paradossali, tipiche delle giornate di panico assoluto, come quella che un grande fondo monetario di Putnam (ripeto, monetario, cioè la categoria di fondi in assoluto più tranquilla, che investe in attività a brevissimo termine) è stato travolto da 40 miliardi di dollari di richieste di riscatto perché si era diffusa la voce che possedeva obbligazioni a breve termine emesse da Lehman.

IL MIRACOLO
Intorno alle 21 di giovedì però è successo il miracolo. Un rumor, diffuso ad arte da CNBC, parlava di un enorme piano straordinario messo a punto dal duo Bernanke-Paulson per salvare questa volta in modo risolutivo la finanza USA.
Musica per le orecchie di Wall Street, che in pochi minuti è schizzata su del 4% ed ha chiuso in gloria una giornata al cardiopalma. Il giorno dopo, ecco l'annuncio ufficiale, con una scarica di provvedimenti annunciati con faccia lugubre dal duo Bernanke-Paulson a cui per l'occasione si è aggiunto Bush, in formato 11 settembre (mancavano solo le lacrime), a dare un tocco kitch all'evento. Tanto per cominciare divieto di vendite allo scoperto, cioè di prendere posizioni speculative contro le banche per almeno 10 giorni: la classica rottura del termometro che segnala la febbre. Inoltre: Fondo di garanzia da 50 miliardi e finanziamenti fino a 230 miliardi per salvare i fondi monetari dalla bufera. Infine, la madre di tutti salvataggi: verrà nei prossimi giorni creata una “Bad Bank” che comprerà tutti i crediti spazzatura del sistema e li terrà il tempo necessario per “riciclarli”, consentendo alle banche di ripulirsi immediatamente i bilanci e scaricare i crediti tossici.
E' stata l'apoteosi delle borse asiatiche ed europee, che avevano chiuso la giornata di giovedì prima del miracolo USA ed avevano registrato l'ennesimo calo più o meno pesante. Venerdì è stata per molti di loro la giornata più rialzista della loro storia. Si sono visti rialzi intorno al 10%, addirittura superiori in qualche paese emergente. Il nostro indice S&PMIB (Milano: notizie) è salito dell'8,6%, il massimo rialzo della sua storia. Wall Street ha chiuso la settimana con un ulteriore recupero di oltre il 4% per il suo indice principale SP500.
I giornali cancellano tutte le previsioni di sventura e parlano di ritorno della fiducia e di risurrezione dei mercati. Punto e a capo. Scampato pericolo. Finalmente sono arrivati “i nostri”. Ricominciamo a comprare a piene mani.
Si è però già materializzato anche il rovescio della medaglia, con pesantissime vendite di titoli di stato USA e gli investitori in fuga dai titoli emessi da questo debitore che sarà costretto ad emettere tonnellate di T-Bond per finanziare l'operazione.
Chiunque abbia un po' di buon senso è rimasto disorientato di fronte a questo quadro, che ho descritto sommariamente ma credo fedelmente. Chi non batte ciglio è fuori di testa o è un giocatore d'azzardo. Oppure ritiene che i mercati siano manovrati a piacimento da qualche “Grande Fratello” e che le autorità monetarie facciano parte della banda (debbo ammettere che a volte io stesso faccio veramente fatica a trattenermi dal pensarlo).
Credo sia allora necessario tentare di capire che cosa sta succedendo e dove ci può portare la concatenazione di eventi delle ultime ore.

PIAZZA PULITA
Gli eventi di questi mesi e l'accelerazione delle ultime due settimane hanno dimostrato chiaramente alcune evidenze.
1) Il sistema finanziario americano, fondato sulle banche commerciali che prestano denaro al sistema economico e cedono il rischio alle banche d'affari che lo distribuiscono sui mercati attraverso strumenti obbligazionari o derivati costruiti appositamente è clamorosamente fallito.
Il modello ODT (Originate to Distribute), presentato negli scorsi anni come la trovata per ridurre il rischio complessivo di sistema, il pozzo di San Patrizio da cui tutti potevano attingere ricchezza e, non dimentichiamolo, magnificato pubblicamente da Greenspan che lo ha incoraggiato e sostenuto con tassi al lumicino per molti anni, si è rivelato per quello che realmente è: la distribuzione del rischio ad altri, cioè il passaggio della patata bollente dalle mani di chi la cuoce a quelle di un'infinità di ignari risparmiatori, che pagano laute commissioni e comprano strumenti ritenuti sicuri, mentre invece non lo sono.
Con la conseguenza che chi genera il rischio non se ne preoccupa perché tanto lo cede ad altri. Le banche d'affari lo distribuiscono ed incassano laute provvigioni che ingrassano gli stipendi dei broker. Il risparmiatore si ritrova in mano la bomba e ci dorme tranquillamente sopra credendo che sia un cuscino.
Il gioco funziona fin che le insolvenze sui prestiti originari sono scarse. Ma quando troppi debitori smettono di pagare salta tutto. Gli strumenti finanziari collaterali non valgono più nulla e chi se li ritrova in portafoglio (banche d'affari, fondi pensione, fondi comuni, singoli risparmiatori che siano) scopre di possedere carta straccia.
A chiunque dotato di informazioni e di buon senso avrebbe dovuto essere evidente che si tratta di un gioco di scaricabarile. Ora, i risparmiatori non avevano assolutamente informazione consapevole di quel che si stava costruendo alle loro spalle. Molti poi, annebbiati dagli istinti speculativi, non hanno nemmeno il senso del limite e cercano addirittura il rischio.
2) Le autorità di controllo, che non potevano non sapere ciò che stava succedendo e dovevano impedirlo o almeno controllarne gli effetti devastanti, hanno clamorosamente fallito.
La gestione stessa di questa crisi è stata effettuata in modo dilettantistico. Perché Bear Stearns, Fannie-Freddie ed Aig sono stati salvati, Lehman è stata lasciata fallire e solo una settimana dopo si è concessa la salvezza per tutti? Bisognava punire Lehman e farla pagare per tutti? Oppure semplicemente si pensava che, salvando AIG, si sarebbe risolto il problema, per cui la fiducia sarebbe tornata da sola? Tutto ciò dimostra che in realtà le autorità di controllo non controllano assolutamente nulla. Non sanno, anzi non vogliono sapere nemmeno le dimensioni del rischio a cui il sistema è sottoposto.
Non posso credere che la Federal Reserve e il Ministero del Tesoro USA non avessero la possibilità di monitorare la gravità della situazione. Ne eravamo a conoscenza io ed i miei lettori da oltre un anno, benché le mie fonti di informazione siano soltanto quelle a disposizione di tutti: giornali ed internet. Da dove arriva Paulson? Prima di essere Ministro del Tesoro (NYSE: TSO - notizie) era Direttore Operativo di Goldman Sachs, dove ha lavorato per 22 anni nella stanza dei bottoni. Non sapeva come funzionava l'ambiente? O magari ne ha coperto le magnane finché ha potuto?
Come è possibile che Bernanke abbia potuto dichiarare a luglio 2007 che la crisi sarebbe costata complessivamente 100 miliardi e che il sistema l'avrebbe tranquillamente sopportata ed a luglio di quest'anno dichiarare di aver sottostimato l'entità del buco subprime, ma di ritenere che ormai il più fosse emerso e si vedeva la luce in fondo al tunnel?
Come è possibile che le cifre del disastro delle banche d'affari siano state tenute nascoste per oltre un anno e siano uscite col contagocce ad ogni trimestrale, fino ad agosto?
Come è possibile che il sistema americano preveda controlli quasi inesistenti sul comportamento delle banche d'affari, in nome del “liberismo” e della “deregulation”, quando il loro comportamento può condizionare il futuro economico dell'intero pianeta?
Come è possibile che le agenzie ufficiali che attribuiscono il rating alle emissioni obbligazionarie continuassero a valutare le emissioni di Lehman con il rating A+ (che significa “qualità creditizia medio-alta con probabilità di default a 15 anni di circa il 3%”) fino al giorno del fallimento, per declassarle soltanto il giorno dopo, a buoi abbondantemente scappati?
Quando la negligenza è troppa diventa dolo. I poveri risparmiatori e futuri elettori USA non se lo dovranno dimenticare.
3) Il capitalismo è finito. Gli USA, pur continuando a dare lezioni di liberismo al resto del mondo ed a praticare il culto del mercato, sono diventati il più grande paese in regime di socialismo reale.
La gigantesca opera di nazionalizzazione messa in atto per salvare il salvabile ha profondamente snaturato l'essenza stessa del capitalismo, che da ora in avanti non potrà più essere quello che noi conosciamo. Dopo il fuoco del '29, dalle ceneri del capitalismo selvaggio nacque il welfare state e l'economia mista. Dall'insostenibilità inflazionistica dell'economia del benessere rinacque il capitalismo “muscolare” reaganiano, con i suoi miti (“privatizzazione” e “deregolamentazione”) e la convinzione che il “Dio” mercato è perfettamente in grado di auto-regolarsi.
Ciò che è successo ha rivelato la vera natura predatoria di questo capitalismo. La privatizzazione riguarda soltanto i profitti, mentre le perdite sono “socializzate”, restando a carico della collettività.
La deregolamentazione è diventata licenza di uccidere, cioè di disseminare il mondo di cartaccia spacciata per ricchezza, lucrando milioni di dollari su ciascuna operazione.
Con quest'ultimo sperpero, l'era Bush, oltre alle guerre in corso ed al ritorno alla guerra fredda con la Russia, lascerà al suo successore un debito pubblico senza precedenti, una credibilità finanziaria ridotta in modo sensibile, una recessione che a questo punto è inevitabile e chissà quanto durerà, una notevole spinta inflazionistica che potrà essere attenuata soltanto da formidabili inasprimenti fiscali. Infine un sistema finanziario interamente da riscrivere, nei fondamenti e nelle regole.
Il capitalismo, se sopravvivrà, non potrà più essere come prima. Non posso credere che gli americani, dopo le legnate che riceveranno grazie agli effetti di questo crollo, accetteranno di ricominciare il gioco di prima come se niente fosse, cambiando soltanto i giocatori e non le regole.
4) La globalizzazione ha di fatto ridotto il mondo al traino delle sciocchezze americane.
Tutto il mondo ha vissuto l'agonia delle big five sulla propria pelle, perché i germi tossici creati dalle banche d'affari USA si sono sparsi negli anni in tutto il mondo. E' difficile trovare in giro per il mondo qualche istituzionale, qualche banca di provincia, qualche fondo comune che non abbia in portafoglio strumenti finanziari di queste banche d'affari. Il “contagio” è veramente capillare e si diffonde in pochi minuti. Il credit crunch, lo strozzamento del credito per mancanza di fiducia nella controparte, che è nato dopo lo scoppio del problema subprime, non si è limitato alla sola America, ma ha varcato immediatamente gli oceani, innalzando i tassi e penalizzando anche i sottoscrittori di mutui normali e dotati di abbondanti garanzie in paesi assai distanti dagli USA.
Ha senso che la povera famiglia di Busca (Cn) si ritrovi con la rata del mutuo che lievita ogni mese per colpa dei derivati creati da Lehman a 30.000 km. di distanza?
E' la globalizzazione, bellezza.

PAGHERA' L'ECONOMIA REALE
L'intervento del Governo americano ha realizzato sul mercato finanziario globalizzato la stessa cosa che fa fatto, in piccolo, Berlusconi a Napoli. Con un intervento a carico dell'intera collettività ha tolto i rifiuti dalle strade, aprendo discariche già chiuse ed individuandone altre senza andare troppo per il sottile sugli effetti ambientali.
E' un intervento di emergenza che andava fatto, ma che non ha risolto il problema della raccolta e del riciclaggio dei rifiuti. Ha semplicemente ripulito le strade ed evitato che in estate scoppiasse qualche epidemia sanitaria.
Lo stesso capiterà con la creazione della Bad Bank. L'ente sarà sotto il totale controllo del Segretario del Tesoro USA, che avrà poteri quasi illimitati e dovrà comprare i debiti tossici da chi riterrà opportuno. Li terrà per un paio d'anni e fino a quando il ritorno della fiducia consentirà di rifilarli nuovamente al mercato a prezzi migliori rispetto al 15-20% del valore nominale che il mercato sarebbe disposto ad offrire oggi. L'intervento sarà fino ad un massimo di 700 miliardi di $, che si aggiungono agli stanziamenti già precedentemente fatti per un aggravio complessivo sul debito pubblico americano di circa 1.600 miliardi di $. Un aumento secco di quasi il 17%
Si darà ossigeno ai bilanci bancari, evitando il fallimento a catena di banche commerciali, assicurazioni e fondi pensione, tutti contagiati dal virus ABS. La magia della creazione dell'immensa discarica di titoli tossici ha messo una pezza sulla falla che stava affondando l'intera finanza mondiale. Ma non è per nulla un intervento indolore, poiché avrà conseguenze pesantissime per l'economia reale, e le vedremo nei prossimi mesi.
Intendiamoci bene. Al punto di sfacelo a cui il si era giunti non si poteva continuare con la politica del tappabuchi quotidiano che Bernanke e Paulson hanno adottato per mesi. Questo provvedimento andava preso. Anzi, ritengo che andassero presi assai prima provvedimenti più seri.
Ma ora non possiamo pensare che, perdonati i delinquenti e saldato il conto stampando moneta tutto possa ricominciare come prima, come purtroppo la reazione stasiata delle borse sembra far pensare. Dobbiamo chiederci che impatto avrà la gigantesca socializzazione di perdite sull'economia USA.
L'effetto immediato è il drammatico decollo del debito pubblico Federale. Secondo le stime dello stesso Governo federale, per effetto di tutti i vari salvataggi esso dovrebbe passare da 9.700 miliardi a 11.315 miliardi di $. Un aumento secco di quasi il 17%. Il Tesoro sarà costretto ad emettere l'equivalente di Titoli di Stato, mettendo a dura prova la capacità debitoria degli USA. Qualcuno comincia addirittura a mettere in dubbio il rating AAA (Xetra: 722800 - notizie) che le agenzie assegnano al debito sovrano USA. Sul mercato fin da venerdì si è cominciato a prezzare la minore affidabilità del debito sovrano USA rispetto a quello tedesco, con un significativo spread a favore dei tedeschi.
Di conseguenza è prevedibile un deciso rialzo dei tassi e pressioni inflazionistiche.
Pagherà quindi l'economia reale. Anche perché non possiamo pensare che il debito venga semplicemente lasciato lì senza cercare di ridurlo con aumenti delle tasse, che avranno un effetto recessivo sull'economia.
Quel burlone di Bush è riuscito a fare un divertente scherzetto di fine mandato ai contribuenti americani ed al suo successore. Solo tre mesi fa ha regalato sgravi fiscali per 160 miliardi. Ora in un solo colpo carica sul groppone del contribuente dieci volte tanto in termini di tasse future da pagare.
E' presumibile che la recessione, sempre evitata dalle statistiche ufficiali, ora si manifesti in modo virulento, perché gli effetti del piano toglieranno altro reddito disponibile ai consumatori, già alle corde per colpa dell'inflazione e del crollo dei valori delle case, che sta continuando a ritmo sempre più incisivo.
Siccome sarebbe una beffa se il salvataggio permettesse di ricominciare daccapo il perverso gioco dell'Originate to Distribute, dobbiamo pensare che chi paga vorrà regolare un po' meglio l'attività delle banche ed inasprire i controlli, proseguendo nell'opera di riduzione della leva che tanti danni ha fatto.
Quindi dobbiamo aspettarci future restrizioni ai finanziamenti allegri e probabilmente avremo anche qualche ulteriore stop alle carte di credito revolving, aumentando così le difficoltà per il consumatore americano.
Una gigantesca crisi dei consumi e, per questa via, dell'economia reale, è un evento nell'ordine delle cose.
Non voglio fare il gufo, ma se tra qualche mese scopriremo che risolvere la crisi finanziaria avrà portato una lunga stagflazione, capiremo che neanche in USA, dove sempre tutto sembra possibile, è così facile fare i soldi con le forbici.
Intanto prepariamoci ad un significativo bear market rally invernale. Credo che avremo rialzi significativi ed esultanza da parte dei mercati, che fingeranno per qualche mese di aver risolto tutti i problemi.
Riguardo alla questione morale sollevata da tutto questo macello, non preoccupiamoci. I mezzi di informazione ne stanno dibattendo. Anche il quotidiano La Stampa, da par suo, ha voluto dare un contributo decisivo al dibattito intervistando a tutta pagina l'esperta Barbara Berlusconi, entrata a 24 anni nel CdA di Fininvest, ma soprattutto figlia del più furbo degli italiani.

domenica 21 settembre 2008

lehman brothers e patti chiari..

Dal Blog di Beppe Grillo www.beppegrillo.it:

"Ciao Beppe,
alle volte la realtà supera la fantasia del più creativo dei comici. Ho ricevuto oggi una e-mail da alcuni amici che lavorano nel settore bancario con i link che ti indico di seguito e ci tenevo a segnalarti questa cosa.Non so quanti l'hanno notato ma sul sito www.pattichiari.it, nello specifico a questa pagina si trovano alcune obbligazioni cosiddette "a basso rischio", quelle di Lehman Brothers!
Non volevo crederci, me lo sono dovuto rileggere quattro o cinque volte, soprattutto il trafiletto che copio ed incollo:
"PattiChiari propone un elenco consultabile di obbligazioni a basso rischio e di conseguenza a basso rendimento, costantemente aggiornato, per orientare chi è privo di esperienza finanziaria e intende investire in titoli particolarmente semplici da valutare."
Cioè una persona priva di esperienza finanziaria che ha ascoltato i consigli di loro, grandi esperti, si è appena trovato in mano un pugno di carta straccia come nel caso Argentina e Parmalat.
I "Grandi Esperti" oggi hanno pubblicato una nota a questa pagina in cui dicono "In data odierna tutti i titoli Lehman Brothers sono usciti dall'Elenco Pattichiari "Obbligazioni Basso Rischio Basso Rendimento" a seguito della comunicazione della stessa società di voler depositare la dichiarazione di fallimento (Chapter 11 of the U.S. Bankruptcy Code)."

Il mondo salvato dai bambini

Una pubblicazione distribuita alle famiglie inglesi scritta dai figli
"Fai come me": gesti minimi per cambiare la vita del pianeta
Il mondo salvato dai bambini
A scuola il libro con i loro consigli
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI

Il mondo salvato dai bambini A scuola il libro con i loro consigli
LONDRA - Come migliorare il mondo con i piccoli gesti. È questa l'idea lanciata da un'organizzazione ambientalista britannica, che si è rivolta a un gruppo di esperti particolari per tradurla in pratica: i bambini. Il movimento ecologista "We are what we do" (Siamo quello che facciamo), già noto per avere lanciato la campagna per l'eliminazione delle sporte di plastica nel Regno Unito, ha raccolto per un anno i consigli di migliaia di scolaretti su modi pratici per cambiare le cose sul nostro pianeta.
Piccoli gesti, apparentemente senza importanza, che però sommati tutti insieme potrebbero modificare radicalmente il nostro stile di vita. Ora quei suggerimenti sono stati raccolti in un libro, "Teach your granny to text & other ways to change the world" (Insegna alla nonna a scrivere i messaggini, e altri modi per cambiare il mondo), che verrà inviato gratuitamente a tutte le scuole della Gran Bretagna, affinché sia discusso in classe e, magari, anche dai bambini con i genitori quando tornano a casa.
I consigli sono estremamente semplici: fare sorridere qualcuno; chiedere al papà di fare una passeggiata insieme; imparare il linguaggio dei segni; far crescere in giardino qualcosa che poi si mangerà; non cantare sotto la doccia (per risparmiare tempo e acqua: la doccia media dura sette minuti per 35 litri d'acqua, mentre basterebbero due minuti per lavarsi - se tutti i bambini di una sola classe facessero così, in un anno risparmierebbero abbastanza acqua da riempire una piscina olimpionica). E ancora, fare un sacco di complimenti a tutti; non ricaricare il telefonino tutta la notte; leggere un libro insieme a un amico; guardare più attentamente ciò che ci circonda; e, come dice il titolo, insegnare alla nonna a scrivere messaggini sul cellulare.

Nell'introduzione al libro, gli attivisti di "We are what we do" affermano: "Il nostro obiettivo è unire la gente e dimostrare come, facendo ricorso a semplici azioni nella vita di tutti i giorni, possiamo creare un'atmosfera globale migliore. Basta fare qualcosa, anche una piccola, tutti insieme, per poter ottenere grandi cambiamenti". Il libro si rivolge poi ai bambini, dicendo loro: "Voi avete dei super poteri. Non sono eccitanti come la visione a raggi X o la capacità di volare o qualche altra incredibile magia dei supereroi del cinema. In effetti sono superpoteri piuttosto normali, ordinari, quelli di cui voi disponete. Ma potete usarli per cambiare le cose sulla terra. Come il surriscaldamento climatico, il bullismo, i diritti degli animali, e il perché non si vede più nessuno che sorride".

L'idea di raccogliere i consigli dei bambini è nata un anno fa, quando l'organizzazione ecologista inviò alle scuole del regno un modulo da far compilare agli alunni in risposta alla domanda "che cosa chiederesti di fare a un milione di persone per cambiare il mondo?" e fu ben presto invasa di risposte. Tra cui quella di una bambina di dieci anni di nome Erica che suggeriva di insegnare ai nonni a messaggiare: il consiglio che ha dato origine al titolo.
(www.repubblica.it 21 settembre 2008)

venerdì 19 settembre 2008

rimedio anti raffreddore

MEDICINA/LO STUDIO DI UN RICERCATORE IRANIANO
Fare sesso? Rimedio anti-raffreddore
Una ricerca propone l'eiaculazione contro la congestione nasale. «Meglio dei farmaci»



MILANO - Addio spray nasali, infusi decongestionanti, aerosol e medicinali da banco. Per curare il raffreddore è sufficiente avere un rapporto sessuale e in mancanza di un'occasione propizia si può ricorrere alla masturbazione. Il rimedio è stato proposto da Sina Zarrintan, un ricercatore del Dipartimento di neurochirurgia dell'Università di medicina di Tabriz, in Iran e pubblicato sull'ultimo numero di Medical Hypotheses col titolo «Ejaculation as a potential treatment of nasal congestion in mature man» («L'eiaculazione come potenziale rimedio della congestione nasale nel maschio adulto»). Sono quindi esclusi dallo studio i giovani – anche se non ne viene spiegato il motivo – e ovviamente le donne.

COME FUNZIONA - Ironie a parte, l'effetto anti-raffreddore dell'eiaculazione è dovuto all'attività del sistema nervoso simpatico che viene messa in moto dall'eccitazione sessuale che decongestiona i vasi sanguinei, compresi quelli che irrorano le narici e che causano il "naso chiuso". A differenza dei farmaci decongestionanti, il vantaggio di questo trattamento consiste nella mancanza di effetti collaterali: è ripetibile e riporta lo stato di benessere tramite una stimolazione interna al sistema nervoso simpatico. Meno effetti collaterali, quindi. E secondo Zarrintan se si pianifica adeguatamente una terapia a lungo termine è possibile vaccinarsi contro le congestioni nasali. Come si legge dall'abstract: «Il metodo può essere effettuato volta per volta in base al bisogno e va regolato in base alla severità dei sintomi». L'autunno è alle porte, il maltempo e i malanni stagionali anche.

Gabriele De Palma
19 settembre 2008

www.corriere.it

mercoledì 17 settembre 2008

la crisi vista due anni fa

Due anni fa "Il giornale" pubblicò questo articolo.

http://www.macrolibrarsi.org/ebooks/giornale_19_03_2006.pdf

Ora la crisi economica è evidente, ma se succedesse quello che c'era scritto...forse un po' apocalittico, però.....

Greg

ecoguida di greenpeace

IX ECO-GUIDA DI GREENPEACE: NOKIA AL PRIMO POSTO.

Roma, 16 settembre 2008. Nella IX versione dell’Eco-guida di Greenpeace
ai prodotti elettronici cinque aziende leader del settore – Nokia,
Samsung, Fujitsu Siemens Computers, Sony Ericsson, Sony - hanno fatto
progressi significativi nel rendere piu’ verdi i loro prodotti. Nokia,
dopo un anno, ritorna in testa alla classifica con un punteggio pari a 7
su 10, grazie al miglioramento delle pratiche di ritiro degli articoli a
fine vita in India. In fondo alla classifica si trovano Sharp con 3,1,
Microsoft con 2,2 punti e Nintendo che si conferma all’ultimo posto con
soli 0,8 punti.

“La maggior parte delle aziende stanno rispondendo bene sia al
rafforzamento dei criteri sui rifiuti elettronici e sulla chimica che
alla recente introduzione di quelli relativi all’energia. I punteggi
piu’ alti sull’efficienza energetica vanno a singoli prodotti di Apple,
Nokia, Sony Ericsson e Samsung. Toshiba fa da esempio per aver
migliorato la sua politica sull’impatto climatico,” dichiara Vittoria
Polidori responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace.

Fujitsu Siemens Computers salta dalla quindicesima posizione, che
ricopriva a giugno, alla terza per aver individuato il 2010 come
scadenza entro cui eliminare la plastica in PVC e tutti i ritardanti di
fiamma a base di bromo dai suoi prodotti. In quarta posizione si trovano
Sony Ericsson e Sony, con un punteggio pari a 5,3.

I nuovi articoli messi di recente in commercio da molte aziende sono
meno tossici, ma finora nessuna ha mai prodotto un computer
completamente privo di ritardanti di fiamma a base di bromo e di PVC. La
scorsa settimana Steve Jobs, il numero uno della Apple, ha annunciato
una nuova linea di iPod davvero priva di queste sostanze, incluso il
mercurio, seguendo l’esempio di altre compagnie leader come Nokiae Sony
Ericsson.

“Greenpeace ha accolto con piacere questo passo avanti della Apple,
perfettamente in linea con l’impegno assunto da Jobs di eliminarequesti
elementi tossici dai suoi prodotti entro il 2008. Non siamo pero’
favorevoli alla modalita’ di progettazione di questa linea che, avendo
un elevato costo di sostituzione della batteria, incoraggia il
consumatore a compare un nuovo prodotto” sottolinea Polidori.

Philips si distingue per essere la compagnia con la peggiore posizione
in materia di gestione e riciclo dei propri rifiuti elettronici. Si
trova in 12esima posizione, con un punteggio pari a 4,3, anche perche’
continua a ostacolare qualsiasi approccio a favore del principio di
responsabilita’ individuale del produttore nell’Ue.

L’Eco-guida ai prodotti elettronici verdi continua a influenzare
l’industria hi-tech verso produzioni piu’ sostenibili, come dimostra il
recente lancio del nuovo processore Xeon 5400 ad uso dei transistor,
prodotto da Hafnium senza alcun ritardante di fiamma, compresi quelli a
base di bromo.

La classifica della IX Eco-guida di Greenpeace:
http://www.greenpeace.org/raw/content/italy/ufficiostampa/file/ecoguida-9-dettaglio


Per informazioni e interviste:
Ufficio stampa Greenpeace, 0668136061 int. 203
Vittoria Polidori, responsabile campagna Inquinamento, 3483988919
Maria Carla Giugliano, addetta stampa, 3483988615

venerdì 12 settembre 2008

Alitalia: la saga della compagnia

dal www.corriere.it del 12 settembre 2008

Voli&SPRECHI: Il volo Roma-Albenga e i soggiorni degli equipaggi al Lido di Venezia
Trucchi e segreti della casta volante
Politici, manager, calciatori. La saga della compagnia. Anche una commissione a 8 per scegliere i nomi degli aerei

ROMA — C'era una volta una compagnia aerea che perdeva 25 mila euro l'anno per ognuno dei suoi dipendenti. Che aveva 5 (cinque) aerei cargo sui quali si alternavano 135 (centotrentacinque) piloti. Che arrivò ad avere un consiglio di amministrazione composto di 17 poltrone: tre per i sindacalisti e una assegnata, chissà perché, al Provveditore generale dello Stato, l'uomo incaricato di comprare le matite, le lampadine e le sedie dei ministeri.

Che istituì perfino una commissione di otto persone per decidere i nomi da dare agli aeroplani: e si possono immaginare i dibattiti fra i sostenitori di Caravaggio e quelli di Agnolo Bronzino. Che in vent'anni cambiò dieci capi azienda, nessuno uscito di scena alla scadenza naturale del suo mandato. E che negli ultimi dieci anni ha scavato una voragine di tre miliardi chiudendo un solo bilancio in utile, ma unicamente grazie a una gigantesca penale che i preveggenti olandesi della Klm preferirono pagare pur di liberarsi dal suo abbraccio mortale.

C'era una volta, appunto. Perché una cosa sola, mentre scade l'ultimatum di Augusto Fantozzi, è certa: quella Alitalia lì non c'è più. La corsa disperata di cui parlò Tommaso Padoa-Schioppa quando ancora confidava di poter passare la patata bollente ad Air France, dicendo di sentirsi come «il guidatore di un'ambulanza che sta correndo per portare il malato nell'unica clinica che si è dichiarata diposta ad accettarlo», è comunque finita. E con quell'ultimo viaggio, fallito in modo drammatico, si è chiusa un'epoca. Con un solo rammarico: che la parola fine doveva essere scritta molti anni prima. Se soltanto i politici l'avessero voluto.

Già, i politici. Ricordate Giuseppe Bonomi? Politico forse sui generis, leghista e oggi presidente della Sea, ora ha chiesto all'Alitalia 1,2 miliardi di euro di danni perché la compagnia ha deciso di lasciare l'aeroporto di Malpensa. Anche lui è stato presidente dell'Alitalia: durante la sua presidenza la compagnia prossima ad essere «tecnicamente in bancarotta», per usare le parole del capo della Emirates, Ahmed bin Saeed Al-Maktoum, sponsorizzò generosamente i concorsi ippici di Assago e piazza di Siena. Alle quali Bonomi, provetto cavallerizzo, partecipò come concorrente. Ma senza portare a casa una medaglia. Ritorno d'immagine? Boh.

E ricordate Luigi Martini? Ex calciatore della Lazio, protagonista dello storico scudetto del 1974, chiusa la carriera sportiva diventò pilota dell'Alitalia. Poi parlamentare e responsabile trasporti di Alleanza nazionale: ma senza smettere mai di volare. Per conservare il brevetto gli fu concesso di mantenere anche grado e stipendio. Faceva tre decolli e tre atterraggi ogni 90 giorni, quando gli impegni politici lo consentivano, pilotando aerei di linea con 160 passeggeri a bordo. Inconsapevoli, probabilmente, che alla cloche c'era nientemeno che un parlamentare in carica. Questa sì che era degna di chiamarsi italianità. In quale altro Paese sarebbe stato possibile?

Domanda legittima anche a proposito di quello che accadde nel 2002, quando con la benedizione di Claudio Scajola venne istituita una linea quotidiana Alitalia fra Fiumicino e Villanova D'Albenga, collegio elettorale dell'allora ministro dell'Interno. Numero massimo di passeggeri, denunciò il rifondarolo Luigi Malabarba, diciotto. Dimesso il ministro, fu dimessa anche la linea. Ripristinato il ministro, come responsabile dell'Attuazione del programma, fu ripristinato pure il volo: in quel caso da Air One, con contributi pubblici. Volo successivamente abolito dopo la fine del precedente governo Berlusconi e quindi ora, si legge sui giornali, riesumato per la terza volta.

Ma politici e flap in Italia hanno sempre rappresentato un connubio spettacolare. Lo sapevano bene i 9 sindacati dell'Alitalia, che non a caso nei momenti critici, ha raccontato al Corriere Luigi Angeletti, regolarmente pretendevano di avere al tavolo il governo, delegittimando la controparte naturale, cioè l'amministratore delegato. E i ministri regolarmente si calavano le braghe. Forse questo spiega perché mentre tutte le compagnie straniere, alle prese con le crisi, tagliavano il personale e riducevano i costi, all'Alitalia accadeva il contrario.

Nel 1991, dopo la guerra del Golfo, si decisero 2.600 prepensionamenti. Poi arrivò Roberto Schisano, che diede un'altra strizzatina, e i dipendenti scesero nel 1995 a 19.366. Armato di buone intenzioni, Domenico Cempella nel 1996 li portò a 18.850. Nel 1998 però erano già risaliti a 19.683. L'anno dopo a 20.770. E nel 2001, l'anno dell'attentato alle Torri gemelle di New York, si arrivò a 23.478. Poi ci si stupì che per 14 anni, fino al 1999, fosse stato tenuto in vita a Città del Messico, come denunciò l'Espresso, un ufficio dell'Alitalia con 15 dipendenti, nonostante gli aerei avessero smesso di atterrare lì nel lontano 1985. Come ci si stupì che gli equipaggi in transito a Venezia venissero fatti alloggiare nel lussuoso Hotel Des Bains del Lido, con trasferimento in motoscafo. O che per un intero anno (il 2005) la compagnia avesse preso in affitto 600 stanze d'albergo, quasi sempre vuote, nei dintorni dell'aeroporto, per gli equipaggi composti da dipendenti con residenza a Roma ma luogo di lavoro a Malpensa. Per non parlare della guerra sui lettini per il riposo del personale di bordo montati sui Jumbo, al termine della quale 350 piloti portarono a casa una indennità di 1.800 euro al mese anche se il lettino loro ce l'avevano. O dell'incredibile numero di dipendenti all'ufficio paghe del personale navigante, che aveva raggiunto 89 unità. Incredibile soltanto per chi non sa che gli stipendi arrivavano a contare 505 voci diverse.

Tutto questo ora appartiene al passato. Prossimo o remoto, comunque al passato. Della futura Alitalia, per ora, si conosce soltanto il promotore: Compagnia aerea italiana, Cai, stesso acronimo di un'altra Cai, la Compagnia aeronautica italiana, la società che gestisce la flotta dei servizi segreti. E le cui azioni, per una curiosa e assolutamente casuale coincidenza, sono custodite nella SanPaolo fiduciaria, del gruppo bancario Intesa SanPaolo, lo stesso che supporta la cordata italiana per l'Alitalia.

Sergio Rizzo
12 settembre 2008

lunedì 8 settembre 2008

Mangiare meno carne per salvare l'ambiente

L'appello di Pachauri, presidente dell'Ipcc, premio Nobel per la pace 2007 con Gore
"Rinunciare alla fettina almeno una volta alla settimana avrebbe un impatto notevole"
Onu: "Mangiare meno carne
per salvare l'ambiente"


Rajendra Pachauri
LONDRA - Rinunciare a fettina o bistecca una volta alla settimana per salvare l'ambiente. Perché facendo sparire da tavola la carne almeno un giorno ogni sette si combatte il surriscaldamento globale. L'appello è rilanciato dall'Onu per bocca di Rajendra Pachauri, economista indiano, vegetariano, e una delle voci più autorevoli in materia di clima: presidente dell'Ipcc, il panel intergovernativo sui mutamenti climati delle Nazioni Unite, lo scorso anno ha ricevuto insieme ad Al Gore il premio Nobel per la pace.

L'impatto di quella che appare come una modesta rinuncia sarebbe notevole, più di quello che i non addetti ai lavori possono pensare: l'allevamento di bestiame, infatti, è responsabile del 18% delle emissioni complessive di gas serra, molto più del settore trasporti cui è attribuito il 13%. E, se per molte persone rinunciare all'auto può diventare molto problematico, scegliere insalata, frutta e verdura almeno una volta ogni sette giorni è decisamente più fattibile.

E anche più conveniente per l'ambiente. I numeri parlano chiaro: la produzione di un chilogrammo di carne causa emissioni equivalenti a 36,4 kg di anidride carbonica. L'allevamento e il trasporto di animali inoltre richiede, per ogni chilo di carne, la stessa energia necessaria per mantenere accesa una lampadina da 100 watt per quasi tre settimane. E il bestiame è una fonte diretta di metano, 23 volte piu dannoso dell'anidride carbonica, prodotto naturalmente dai processi digestivi degli animali da allevamento.

Pachauri, che aveva già lanciato l'allarme all'inizio dell'anno a Parigi, ne parlerà domani a Londra nel corsodella annual lecture della 'Compassion in World Farming', un'associazione animalista britannica che ha chiesto al governo di impegnarsi per ridurre il consumo di carne del 60 per cento entro il 2020. Se l'industria della carne denuncia di essere ingiustamente nel mirino, la causa promossa dall'Onu ha già testimonial famosi, come sir Paul McCartney e il Italia l'ex ministro della Sanità Umberto Veronesi. E acquista una urgenza particolare, alla luce delle stime della Fao: secondo l'agenzia Onu per il cibo e l'agricoltura, il consumo di carne è destinato a raddoppiare nel 2050.

(7 settembre 2008) www.corriere.it

che bello, mi sono perso...

Che bello, mi sono perso
Di Remo Bodei - sole 24 ore domenica 3 agosto 2008
Ci piace tanto viaggiare ma finiamo per seguire sempre i soliti percorsi.
Torniamo a praticare l’antica arte dello spaesamento: ecco le istruzioni per vedere il mondo come fosse la prima volta. E ritrovare se stessi.


Esiste un'arte del perdersi in qualche luogo per meglio conoscere un mondo che l'abitudine ha reso opaco e indifferente? E, parafrasando il Vangelo, questo perdersi implica, per sovrappiù, un ritrovare se stessi?
Siamo talmente abituati a percorsi standard che non facciamo più caso a quel che ci circonda e ci muoviamo nello spazio come automi miopi. E, se dobbiamo recarci in posti sconosciuti, ci affidiamo volentieri agli stereotipi di dépliant e guide, seguiamo i tragitti più scorrevoli e, viaggiando in automobile, ci consegniamo ai navigatori satellitari, che indicano la direzione attraverso piantine topografiche e petulanti messaggi vocali. Per risparmiare tempo o per radicata inclinazione alla fretta scegliamo quindi le autostrade o le vie di grande comunicazione, che rendono più rapidi i viaggi, ma ci tagliano fuori da città, paesi, monumenti, campagne, boschi. Preferiamo così l'Autostrada del Sole alla Via Emilia, i tracciati omogenei che convogliano processioni di macchine ai paesaggi segnati dalle millenarie stratificazioni del lavoro umano e del vissuto di generazioni.
Per perdersi non è necessario sfidare le zone desertiche, le foreste o gli oceani. Anche nello spazio abitabile, razionalizzato e orientato secondo determinati criteri culturali, basta abbandonare i percorsi consueti o guardare a essi con rinnovata cura, per scorgervi l'instancabile mano della storia: ad esempio, la divisione dei campi coltivati, che conserva in Italia le tracce della centuriazione romana, il variare della vegetazione non spontanea per effetto dell'introduzione dell'eucaliptus nell'Ottocento o della soia nei recenti decenni, la tortuosità del reticolo viario delle città medioevali rispetto alla pianta ortogonale di quelle romane o il pullulare di chiese e abbazie lungo le antiche vie di passaggio dei pellegrini.
Molti hanno perciò cominciato a gustare il piacere di ripercorrere - a tappe lente e con deviazioni nei dintorni - la Via Francigena o il Cammino di Santiago. Anche qui il tragitto è prefissato dalla tradizione, ma andando a piedi o in bicicletta, si ha modo divedere in maniera focalizzata ciò che s'incontra, di fermarsi ò di esplorare alcune zone secondo l'ispirazione del momento. Si è allora in grado - secondo l'espressione di Franco La Cecla - di «fare mente locale», di ricollocarsi nel tempo e nello spazio, di riformulare se stessi in sintonia con i nuovi contesti. Perché questo accada, bisogna però essere disposti al cambiamento fino ad accettare con riconoscenza possibili spostamenti del proprio baricentro intellettuale e affettivo. Vale altrimenti quello che osservava Socrate a proposito di qualcuno che non si era trasformato viaggiando: «Lo credo, si è portato dietro se stesso» (ha voluto conservare la sua inscalfibile identità precedente).
Il tempo è ormai una risorsa scarsa per quasi tutti. Solo pochi sono capaci, grazie a un'assidua pratica, di diventare dei virtuosi nell'arte dellospaesamento.È perciò difficile –e al limite stravagante - imitare Georges Perec nel progetto di riscoprire Parigi percorrendo, in ordine alfabetico, tutte le strade il cui nome ] inizia con la stessa lettera e di osservare «ciò che generalmente non si nota, non viene ricordato, ciò che non ha importanza: quello che accade quando non accade niente, se non il passare del tempo, delle persone, delle macchine e delle nuvole». Virtuoso di quest'arte è lo scrittore americano di origine Sioux William Least Heat-Moon, che, cambiando di colpo la sua vita, si mette con un camioncino a girare per le «strade blu», le vie secondarie indicate con quel colore nelle vecchie cartine stradali d'America. In alcune ore, esse «hanno un fascino intenso, e sono aperte, invitanti, enigmatiche: uno spazio dove l'uomo può perdersi», ma anche stabilire appaganti, seppur fugaci, rapporti con le persone in cui s'imbatte.
Per quanti hanno a disposizione solo il tempo delle vacanze, vi sono due modi di perdersi: quello irritante di quando, disorientati e stanchi, non rinvengono il posto che cercavano e quello programmato come viaggio di scoperta in cui si spostano in una località guidati dal magnetismo inconscio di segnali che di volta in volta incuriosiscono. Questo è il metodo suggerito da Walter Benjamin: «Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare». Non si tratta però tanto dell'atteggiamento delflàneur ottocentesco, che si aggira ozioso tra la folla dei boulevards parigini, ma della tecnica della «deriva», teorizzata da Guy Debordi «Andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta». Privandoci della familiarità con ciò che ci circonda, sforzandoci di dimenticare quanto sappiamo (compito solo in piccola parte eseguibile), inglobando quote di estraneità, prendiamo meglio le misure di noi stessi.
Secondo Georg Simmel, il perdersi volontario costituisce la metafora che caratterizza la condizione dell'uomo moderno, il quale «ama le vie senza le mete e le mete senza le vie». Ormai nessuno, infatti, sembra contentarsi facilmente di quello che è e della routine di cui si sente prigioniero: aspira a dare un senso più pieno alla propria vita inserendola in un altrove indeterminato e arricchendola con l'esperienza dell'ignoto, perseguito secondo itinerari da inventare. Desidera l'avventura (l'andare verso le cose future, ad ventura), la docile resa all'imprevisto, sperando così di propiziare il suo rinnovamento. Il viaggiatore (o colui che lascia vagare in luoghi già conosciuti la sua attenzione "fluttuante") è allora talmente stupito da quel che trova da chiedersi se è veramente lui a vivere quei momenti e essere entrato in una dimensione spaziale e temporale che lo risarcisce della vuota successione di attimi spenti e di posti senza sorprese. Si chiede Baudelaire: dove anela l'anima moderna, questo «tre alberi in cerca della sua Icaria»? Verso un esilio dal noto, verso una fuoriuscita dal mondo. E non importa dove, risponde in inglese: Anywhere out ofthe worId! Ma la modernità è davvero espressa dalla voluttà del perdersi? O questo è solo uno dei suoi aspetti, visto che noi procediamo di norma secondo il metodo prescritto da Cartesio, di non indugiare ad aggirarci nella foresta, ma di camminare sempre e risolutamente nella stessa direzione, perché alla fine ci troveremo in qualche luogo dove probabilmente staremo «meglio che nel fitto della boscaglia»?

giovedì 4 settembre 2008

Così la Gelmini diventò avvocato

Mi ricordo che quando avevo 12-13 anni (e quindi nel 1965 circa) la sorella - non molto vispa - di un mio compagno di classe da Brescia andò a fare gli esami di maestra d'asilo dalle parti di potenza o reggio calabria, perchè là erano di manica larga, e fu ovviamente promossa.
Interessante sapere che questo tipo di turismo è ancora in vigore, tanto che ne ha usufruito, a quanto sembra, anche il ministro dell'istruzione....

greg

-------

Nella città calabrese l'anno precedente il record di ammessi con il 93 per cento
Da Brescia a Reggio Calabria
Così la Gelmini diventò avvocato
L'esame di abilitazione all'albo nel 2001.
Il ministro dell'Istruzione: «Dovevo lavorare subito»

Novantatré per cento di ammessi agli orali! Come resistere alla tentazione? E così, tra i furbetti che nel 2001 scesero dal profondo Nord a fare gli esami da avvocato a Reggio Calabria si infilò anche Mariastella Gelmini. Ignara delle polemiche che, nelle vesti di ministro, avrebbe sollevato con i (giusti) sermoni sulla necessità di ripristinare il merito e la denuncia delle condizioni in cui versano le scuole meridionali. Scuole disastrose in tutte le classifiche «scientifiche» internazionali a dispetto della generosità con cui a fine anno vengono quasi tutti promossi.

La notizia, stupefacente proprio per lo strascico di polemiche sulla preparazione, la permissività, la necessità di corsi di aggiornamento, il bagaglio culturale dei professori del Mezzogiorno, polemiche che hanno visto battagliare, sull'uno o sull'altro fronte, gran parte delle intelligenze italiane, è stata data nella sua rubrica su laStampa.it da Flavia Amabile. La reazione degli internauti che l'hanno intercettata è facile da immaginare. Una per tutti, quella di Peppino Calabrese: «Un po' di dignità ministro: si dimetta!!» Direte: possibile che sia tutto vero? La risposta è nello stesso blog della giornalista. Dove la Gelmini ammette. E spiega le sue ragioni.

Un passo indietro. È il 2001. Mariastella, astro nascente di Forza Italia, presidente del consiglio comunale di Desenzano ma non ancora lanciata come assessore al Territorio della provincia di Brescia, consigliere regionale lombarda, coordinatrice azzurra per la Lombardia, è una giovane e ambiziosa laureata in giurisprudenza che deve affrontare uno dei passaggi più delicati: l'esame di Stato.

Per diventare avvocati, infatti, non basta la laurea. Occorre iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, passare due anni nello studio di un avvocato, «battere» i tribunali per accumulare esperienza, raccogliere via via su un libretto i timbri dei cancellieri che accertino l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare appunto l'esame indetto anno per anno nelle sedi regionali delle corti d'Appello con una prova scritta (tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) e una (successiva) prova orale. Un ostacolo vero. Sul quale si infrangono le speranze, mediamente, della metà dei concorrenti. La media nazionale, però, vale e non vale. Tradizionalmente ostico in larga parte delle sedi settentrionali, con picchi del 94% di respinti, l'esame è infatti facile o addirittura facilissimo in alcune sedi meridionali.

Un esempio? Catanzaro. Dove negli anni Novanta l'«esamificio» diventa via via una industria. I circa 250 posti nei cinque alberghi cittadini vengono bloccati con mesi d'anticipo, nascono bed&breakfast per accogliere i pellegrini giudiziari, riaprono in pieno inverno i villaggi sulla costa che a volte propongono un pacchetto «all-included»: camera, colazione, cena e minibus andata ritorno per la sede dell'esame.
Ma proprio alla vigilia del turno della Gelmini scoppia lo scandalo dell'esame taroccato nella sede d'Appello catanzarese. Inchiesta della magistratura: come hanno fatto 2.295 su 2.301 partecipanti, a fare esattamente lo stesso identico compito perfino, in tantissimi casi, con lo stesso errore («recisamente» al posto di «precisamente», con la «p» iniziale cancellata) come se si fosse corretto al volo chi stava dettando la soluzione? Polemiche roventi. Commissari in trincea: «I candidati — giura il presidente della «corte» forense Francesco Granata — avevano perso qualsiasi autocontrollo, erano come impazziti». «Come vuole che sia andata? — spiega anonimamente una dei concorrenti imbroglioni —. Entra un commissario e fa: "Scrivete". E comincia a dettare il tema. Bello e fatto. Piano piano. Per dar modo a tutti di non perdere il filo».

Le polemiche si trascinano per mesi e mesi al punto che il governo Berlusconi non vede alternative: occorre riformare il sistema con cui si fanno questi esami. Un paio di anni e nel 2003 verrà varata, per le sessioni successive, una nuova regola: gli esami saranno giudicati estraendo a sorte le commissioni così che i compiti pugliesi possano essere corretti in Liguria o quelli sardi in Friuli e così via. Riforma sacrosanta. Che già al primo anno rovescerà tradizioni consolidate: gli aspiranti avvocati lombardi ad esempio, valutati da commissari d'esame napoletani, vedranno la loro quota di idonei raddoppiare dal 30 al 69%.
Per contro, i messinesi esaminati a Brescia saranno falciati del 34% o i reggini ad Ancona del 37%. Quanto a Catanzaro, dopo certi record arrivati al 94% di promossi, ecco il crollo: un quinto degli ammessi precedenti.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria».
I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme.

Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Da oggi, dopo la scoperta che anche lei si è infilata tra i furbetti che cercavano l'esame facile, le sarà però un po' più difficile invocare il ripristino del merito, della severità, dell'importanza educativa di una scuola che sappia farsi rispettare. Tutte battaglie giuste. Giustissime. Ma anche chi condivide le scelte sul grembiule, sul sette in condotta, sull'imposizione dell'educazione civica e perfino sulla necessità di mettere mano con coraggio alla scuola a partire da quella meridionale, non può che chiedersi: non sarebbero battaglie meno difficili se perfino chi le ingaggia non avesse cercato la scorciatoia facile?
Gian Antonio Stella
Corriere della sera, 4 settembre 2008

martedì 2 settembre 2008

visioni del lago titicaca

Noi ci siamo stati, tempo fa.....questo racconto rende benissimo l'atmosfera, brava Laura Pariani


Titicaca, il lago della tigre di Laura Pariani
che ha anche un bel sito:
http://www.omegna.net/pariani/start.html

greg
---

Sole 24 ore, domenica 10 agosto 2008

Fa freddo a Tiahuanaku, a quattromila metri di altitudi-ne sull'altopiano boliviano. Il tramonto incendia il tempio-osservatorio detto Kalasasaya, con la sua imponente Puèrta del Sol intagliata in un unico ciclopico blocco di andesite verdastra, trasportato qui da centinaia di chilometri di distanza. La luce dell'ultimo sole scivola sulla figura centrale del dio piangente, sulla rappresentazione degli elefanti estinti da millenni, sui due serpenti mitici del tuono e dell'arcobaleno. Si ritrae dal tempio semi-sotterraneo dalle cui mura si affacciano centinaia di teste di pietra. Illumina ancora per un istante la fila estatica dei grandi monoliti neri che rappresentano una folla di giganti e gigantesse dall'espressione severa, in piedi a braccia conserte o seduti: i crani deformati a cono e le orecchie lunghissime assorbono l'ultimo guizzo di luce. Poi l'ombra sale lentamente i sette gradoni dell'enorme piramide di Akapana, fino alla cima dove si apre il pozzo centrale a forma di croce, che alimentava canali interni per portare acqua a ogni livello dell'edificio.
Ecco, il buio è definitivamente calato su questo enigma archeologico; a partire dal nome: Tia, sostantivo che significa margine, e Huanaku, participio passato del verbo disseccare. Margine secco. Il mito dice che Tiahuanaku fu costruita in una sola notte, con enormi pietre trasportate in volo al suono di una tromba: il tutto sarebbe avvenuto, secondo la leggenda, quindici millenni fa e i calcoli recenti sugli allineamenti astronomici delle due porte del tempio di Kalasasaya
indicano sorprendentemente il 10.500 a.C, epoca in cui tra l'altro il lago Titicaca giungeva fin qui. La Suma y Narratión de los Incas di Juan de Betanzos racconta infatti che agli inizi del mondo il Creatore - Apu Kon Titi Wira Gocha - apparve sul lago Titicaca, nel luogo chiamato Tiahuanaku, e fabbricò gli uomini col materiale più abbondante, la pietra. Queste figure scultoree di maschi e femmine vennero collocate dal Creatore nelle Pacarinas - anfratti ombrosi dove il sole non penetra, oppure vene profonde da cui sgorga l'acqua - che sono per la cultura andina i luoghi di comunicazione privilegiata tra il nostro mondo e quello dello spirito. Poi diede a ciascuna statua un nome e, nel momento in cui vennero nominate, le figure di pietra si animarono trasformandosi in uomini e donne di carne e sangue...
Insomma, per la mitologia andina qui sarebbe stato ubicato l'Eden, la culla della vita umana.
Da millenni però il lago si è ritirato da questa parte dell'altipiano e le grandi strade lastricate, i moli e i canali di Tiahuanaku giacciono in completo abbandono nel respiro gelido del vento che spazza il deserto. Opera di distruzione certamente non dovuta solo al cataclisma climatico, ma anche allo zelo religioso dei conquistadores e all'avidità dei predoni archeologici.
A un chilometro, sorge l'odierna Tiahuanaku, un paesino di case di fango. Sul lato orientale della piazza, la chiesa costruita con massi prelevati dal sito archeologico; ai due lati dell'ingresso stanno due grandi figure di pietra nera, sicuramente di identica provenienza. Per il resto, cani randagi e un misero emporio che vende alla rinfusa lubrificanti per auto, gallette e Coca Cola; sopra la porta, un cartello: «Si affittano abiti da sposa»... Dell'Eden non è rimasta memoria.
Perciò eccomi di nuovo in viaggio verso il lago Titicaca, la grande Pacarina, la madre di tutti i laghi. La strada corre a strapiombo sulla scogliera scoscesa. Una fila di lama procede su uno stretto sentiero tra ripidi terrazzamenti Sotto di me il lago blu intenso, di un'estensione inconcepibile per un europeo: sembra un mare ma a quattromila metri di altitudine. Nel piccolo spiazzo dove, affascinata dal paesaggio, mi fermo a scattare fotografie, è posteggiato un camioncino sgangherato. Di lato una donna - trecce lunghe e nerissime sotto la bombetta tradizionale - sta accoccolata nella sua lunga gonna a balze. Ne vedrò tante di persone nello stesso atteggiamento di preghiera -singoli o interi gruppi familiari - impassibili, sul margine degli strapiombi impressionanti che costeggiano il Titicaca. Che in effetti sembra di sentire qualcosa di misterioso che permea di sé l'aria, le rocce, l'acqua, le azioni umane; forse perché sull'orlo di questi precipizi, fra cielo e lago, tra abisso e abisso, il cuore pulsa più forte...
Si prega, accompagnando le invocazioni con l'offerta di coca e tabacco bruciati in una latta vuota a mo' di braciere improvvisato. Con libagioni di birra o di chicha, precedute dal rito della "tinca": introducendo tre dita nel bicchiere da cui si beve e spruzzando gocce della bevanda nelle quattro direzioni dello spazio... Gente salita fin quassù a pregare per un amore, una maternità a lungo desiderata, il proprio corpo malato, il raccolto di fave e patate, i sogni che non si possono confidar e a nessuno.
C'è qualcosa di sacro e primordiale, nei gesti lenti, nell 'aspirazione del fumo, nella cantilena monotona: «Ay con mi lindo tabaquito». ay con la yerba del buen querer... ay con la yerba del sol... ay con la yerba de la luna...».
Ritiro la macchina fotografica, mi rendo conto di essere di troppo: testimone europea di una cultura arcaica distante e dimenticata. Il tempo si è fermato sulle Ande, oppure da noi in Europa il tempo è corso troppo velocemente dietro al benessere?
La barca ci mette un'ora ad arrivare all'Isola del Sole, la più grande delle isole che punteggiano il lago Titicaca. Mi sbarca alla baia di Pilkokaina. Mi aspettavo un paese, ma c'è soltanto una casa di fango con tetto di canne, dove mi offrono patate lesse, formaggio fresco e pesciolini fritti. Poi, mentre alla fine del pranzo bevo un mate di coca, interrogo il capofamiglia, Marcelino, sulle storie del luogo.
Racconta che, quando il Creatore diede vita su questo lago ai primi uomini, non esistevano ancora ne il Sole né la Luna: l'Eden agli albori era buio. E allora come poteva vivere il genere umano? Chiedo, incredula. Vi era una particolare fonte di luce, ribatte Marcelino: quella di Titi, la tigre luminosa che abita sulla cima più alta di quest'isola; è un monte che si chiama TitiKaka, roccia della tigre, nome che successivamente passò a tutto il lago... Una tigre luminosa, sostituto del sole e della luna? Via, Marcelino, le spari grosse... Lui aggrotta le sopracciglia, scuote la testa: un aymara non mente mai; tre leggi soltanto ha il popolo aymara: «Ama sua, ama Uulla, ama kella»; non essere pigro, non essere ladro, non essere, bugiardo. Tre leggj semplici, ridotte all'osso come tutto quello che può riguardare una piccola comunità che vive su un'isola sperduta nel lago più alto del mondo. Lui non dice bugie, continua a ripetere caparbiamente. Domani mi mostrerà la fontana della giovinezza, che sta nella baia di Yumani; e anche quella non sarà menzogna. Prima però, continua, devo vedere la famosa tigre. La troverò stanotte, in cima alla montagna.
Mi rimetto in cammino. Sopra Pilkokaina c'è un sacrario antichissimo dove il felino luminoso veniva venerato: massi giganteschi, porte trapezoidali, sale oscure, monoliti di pietra nera. Rovine misteriose che ricordano Tiahuanaku, quando gli Incas erano ancora un sogno di un futuro lontano...
Il sentiero è stretto e ripido. Pochi chilometri, ma a quasi quattromilatrecento metri la fatica rende le gambe di piombo. Incrocio ogni tanto lama e asini dal pelo lungo, carichi di fave. Donne che filano lungo i muretti a secco. Via via che salgo, l'occhio abbraccia la cerchia di vulcani innevati che si specchiano nel Titicaca, l'Isola della Luna di fronte a me, tutta blu nell'immensità rosata del lago al tramonto. Un silenzio sereno in cui l'anima si espande.
È notte fonda quando scopro che Marcelino non ha mentito. Si gela nella camera in cui mi hanno ospitato, che quassù mancano corrente elettrica e riscaldamento. Esco da sotto le coperte battendo i denti, ma è troppa la curiosità: sono le due di una notte senza luna eppure la stanza è piena di luce. Mi avvicino alla finestra, sbalordita Sopra la cima del monte brillano le sette stelle della costellazione del Puma, Choq'e Chinchay. Ed è tale la luce che emanano - la sento entrare nelle ossa, fluire nel cervello - che non ho bisogno della torcia per vedere con chiarezza i minimi particolari di ciò che ho intorno. Marcelino ha ragione: l'Adamo e l'Eva nati sul Titicaca potevano fare a meno del sole e della luna.

la sicurezza non è una fiction

La Repubblica 30 agosto 2008

Ma la sicurezza non è una fiction
Giovanni Valentini - La Repubblica

Nessuno poteva francamente aspettarsi né tantomeno pretendere che l´impiego dei militari in difesa dell´ordine pubblico nelle nostre città, a fianco degli agenti di polizia e dei carabinieri, risolvesse di colpo i problemi della sicurezza.

E in tutta sincerità, come avrebbe sentenziato il mitico Catalano nei surreali e divertenti talk-show di Renzo Arbore, meglio vedere tre uomini armati e in divisa che passeggiano per strada piuttosto che non vederne affatto. Almeno, per il cittadino che non ha nulla da nascondere o da temere.

Ma l´escalation di violenza degli ultimi giorni, con la successione impressionante di stupri a danno di malcapitate turiste straniere e con il culmine dell´aggressione o addirittura del raid contro i poveri frati del Canavese, rompe brutalmente l´incantesimo mediatico della sicurezza catodica. Quella, per intenderci, indotta dalla messinscena governativa, alimentata e avallata dalla grancassa compiacente della tv, pubblica e privata. Non aveva torto Famiglia Cristiana a scrivere nelle settimane scorse che il nostro è ormai "un Paese da marciapiede", presidiato appunto dai militari e nel contempo infestato dalla prostituzione peripatetica.

La sicurezza però non è una fiction. Non può essere ridotta a una rappresentazione propagandistica; a una parata o a uno spettacolo nazional-popolare. Se è diventata uno dei temi centrali dell´ultima campagna elettorale, o magari proprio quello decisivo, qualcuno dovrà pur domandarsi come fa poi il ministro dell´Interno, Roberto Maroni, ad annunciare nella sua conferenza-stampa di Ferragosto che nell´ultimo anno - a cavallo di due legislature - i reati in Italia sono diminuiti del dieci per cento. E se la spiegazione è che nel frattempo s´è esaurito l´effetto dell´indulto, cioè che molti ex detenuti sono tornati in carcere, allora bisognerebbe avere l´onestà di chiarire che l´emergenza sicurezza era stata provocata da questo fattore contingente, in base a una scelta condivisa peraltro anche da una cospicua parte del centrodestra.

In un dibattito estivo a Cortina, nel ciclo organizzato da Enrico e Iole Cisnetto, a giusta ragione Eugenio Scalfari ha osservato che una tale "manipolazione mediatica" meriterebbe di essere studiata nei master di comunicazione delle università italiane. E in effetti, a proposito di dipendenza dai mass media, la teoria dei mezzi di comunicazione di massa insegna che questa può essere cognitiva, di orientamento e di svago. Nel nostro caso, evidentemente, la dipendenza di una gran parte degli italiani dalla tv corrisponde a tutte e tre le categorie: informazione, opinione e intrattenimento.

A livello collettivo, la sicurezza è certamente un elemento psicologico, non solo un dato reale o statistico. Ma quanto influiscono i telegiornali su questa percezione? E quanta responsabilità ha la tv nella diffusione della violenza, soprattutto attraverso certi film e telefilm, innescando un meccanismo inconscio di assuefazione ed emulazione? Quanti episodi di cronaca nera finiscono per assomigliare terribilmente a scene già viste sul piccolo o grande schermo?

Ecco, questa continua sovrapposizione fra dimensione reale e proiezione virtuale è verosimilmente all´origine della sensazione d´insicurezza che pervade larghi strati di popolazione. La televisione come strumento della politica e la politica come effetto della televisione. Ma bisogna stare attenti a parlare in pubblico di "questione televisiva", di concentrazione o conflitto d´interessi: in alcuni casi, si può rischiare il linciaggio. È una sorta di sindrome di Stoccolma - o forse bisognerebbe dire di Arcore - per cui i teledipendenti non si accorgono neppure più della propria condizione e, anzi, difendono e amano i custodi della loro prigione catodica.

Le vestali del berlusconismo si strappano le vesti quando si affrontano questi argomenti. E spesso attribuiscono polemicamente agli interlocutori tesi di comodo, come quella che Berlusconi usa le televisioni per fare politica oppure che ha vinto le elezioni perché controlla la tv. A parte il fatto che ormai le elezioni le ha vinte tre volte nell´arco di quindici anni, e ha diritto perciò a un riconoscimento politico come si diceva ai tempi bui del terrorismo, in realtà nessuno è tanto ingenuo o sprovveduto da sostenere tesi così semplicistiche. Ma da qui a insinuare che la televisione non influisce più di tanto sull´opinione comune o a negare un controllo diretto e indiretto da parte del governo in carica, ce ne corre.

La verità è che la sicurezza non è né di destra né di sinistra. E quest´ultima - almeno nella sua versione riformista - farebbe bene a preoccuparsene sia quando è al governo sia quando è all´opposizione, senza sottovalutare l´aspetto psicologico del fenomeno, mentre non si può negare che in passato l´abbia considerato a lungo un tabù o addirittura uno strumento repressivo. La sensazione d´insicurezza diffusa merita in ogni caso di essere compresa, corrisposta e tutelata, prima sul campo o sul territorio e poi magari anche sul piano mediatico della comunicazione.

Quello che occorre garantire, innanzitutto, è la certezza della pena: e cioè il timore effettivo della sanzione. Vale come minaccia e ancor prima come deterrente. Troppi delinquenti in Italia escono troppo presto dal carcere o comunque non scontano interamente la pena. La sicurezza comincia dalla giustizia, dal rispetto e dall´applicazione rigorosa della legge.
Altrimenti, non basterà schierare in strada tutte le forze armate e tutte le forze di polizia per contrastare la criminalità, la violenza, il progressivo imbarbarimento della società.

Alitalia, resta solo la bandiera

Repubblica (29 agosto 2008)

IL COMMENTO
Alitalia, resta solo la bandiera
di MASSIMO GIANNINI


IL povero Ludwig Erhardt si starà rivoltando nella tomba. Se il sedicente "salvataggio" di Alitalia è davvero il primo esperimento di "economia sociale di mercato" che la premiata ditta Berlusconi-Tremonti azzarda nel nostro Paese, allora c'è davvero da dormire preoccupati. Il Cavaliere non mente, quando dice "abbiamo salvaguardato l'italianità della compagnia aerea".

Ma purtroppo, per simulare la strenua difesa di un presunto "interesse nazionale", il governo ha compiuto un vero e proprio "suicidio industriale". Il nuovo piano messo a punto da Banca Intesa e avviato dai provvedimenti varati ieri dal Consiglio dei ministri non serve a salvare il futuro di Alitalia, ma è utile solo a salvare la faccia al leader di Forza Italia.

Ancora una volta (e come nella migliore tradizione, dai tempi di Nordio e Andreotti in poi) quello che accade alla nostra compagnia aerea non ha niente a che spartire con la logica economica, ma ha tutto a che vedere con la logica politica. Berlusconi in campagna elettorale aveva giocato tutta la sua credibilità sul caso Alitalia, usando il possibile accordo con Air France come una clava per bastonare Prodi, noto affamatore di popoli e famigerato svenditore di gioielli (dalla Sme alla Stet).

Dopo aver scientificamente fatto fallire l'operazione con i francesi, con il colpevole contributo di un sindacato miope e irresponsabile, il premier neo-eletto non poteva fallire a sua volta, esponendosi alla gogna popolare. Serviva, anche su Alitalia, un'operazione di facciata, improntata allo stesso decisionismo con il quale è stata "risolta" l'altra tragedia nazionale, quella dei rifiuti di Napoli. Un'operazione di patente torsione giuridica, che realizzasse comunque un'apparente innovazione pratica.


Sulla mondezza campana, per toglierla dalla strada e nasconderla sotto il tappeto, si trasformano ope legis tutte le discariche in terreni militari, sottraendone la giurisdizione alla magistratura ordinaria. Sulla compagnia aerea, per evitare la bancarotta congiunta di Alitalia e Air One, si alterano ope legis le norme sulla concorrenza, sottraendo la valutazione sulle deroghe temporali dei regimi semi-monopolistici all'autorità Antitrust.

Poco importa che non si sia affatto risolto il ciclo perverso dei rifiuti. Poco importa che non si sia affatto sciolto il nodo del posizionamento italiano nel grande network del trasporto aereo globale. Quello che importa è che il premier possa accreditarsi ancora una volta, agli occhi dell'opinione pubblica, come il Grande Facilitatore. Quello che, come ha detto il ministro del Tesoro, aveva ereditato due disastri, e in due mesi ha fatto il miracolo di risolverli entrambi. La verità è un'altra, ed è molto più amara. In un Paese normale, un premier così non sarebbe sicuramente acclamato dalle folle come il salvatore della patria, ma probabilmente verrebbe inquisito dalla Corte dei conti per danno erariale.

Quella scelta su Alitalia non è una soluzione. È solo un imbroglio, come ha scritto Eugenio Scalfari, che finirà per penalizzare tutti: i dipendenti, gli utenti e i risparmiatori. Lo dicono i numeri, nudi e crudi, non la trita demagogia anti-berlusconiana. Secondo il piano Air France, il salvataggio di Alitalia sarebbe passato attraverso la difesa dell'unitarietà del gruppo, del suo marchio e dei suoi asset (a parte il cargo). Gli esuberi diretti sarebbero stati 2.150, la flotta si sarebbe ridotta da 174 a 137 aerei, ma con un evidente rafforzamento delle grandi destinazioni e delle rotte a medio e lungo raggio (24 destinazioni nazionali, 45 internazionali e 14 intercontinentali). Si sarebbe potenziato Fiumicino come grande hub tra Europa e Mediterraneo, e si sarebbe incentivata la "riorganizzazione di Malpensa come importante gateway" del Nord Italia. Air France avrebbe investito 850 milioni di euro entro il 2010, e soprattutto, per comprare Alitalia, avrebbe messo sul piatto 1,7 miliardi di euro, tra la doppia Opa su azioni e obbligazioni (a tutela quindi di tutti i risparmiatori) e il successivo aumento di capitale.

Questo è il lucro cessante, imputabile al veto berlusconiano ai francesi. Ma c'è un danno emergente, che si può ugualmente imputare al premier in virtù della geniale "Fenice" che ha cavalcato insieme all'advisor. Con il nuovo piano, il gruppo viene scisso in "best" e "bad" company: un controsenso industriale rispetto a quello che vanno facendo i grandi vettori mondiali, che contano proprio sulla dimensione e sull'integrazione per reggere la competizione globale, e un corto circuito gestionale perché sarà difficile stabilire quali sono gli asset buoni e quali quelli cattivi senza impoverire drasticamente l'assetto del gruppo.

Le rotte internazionali vengono ridimensionate, e si salvano solo quelle a breve-medio raggio. E soprattutto si eliminano gli "hub", con il seguente, felice paradosso: non si riqualifica Malpensa (tra lo scorno e il disdoro di Formigoni e Moratti) e per di più si squalifica Fiumicino (con l'ira funesta di Alemanno e Zingaretti).

Gli esuberi diventano 6 mila, e non si capisce dove andranno a finire, se non in qualche carrozzone del parastato. E poi il capolavoro finale: i sedici "capitani coraggiosi", tutti "partner naturali" del governo obbligati a versare l'obolo per Berlusconi come l'oro per Mussolini, sganciano due soldi (in qualche caso magari finanziati dallo stesso circuito bancario che ha organizzato il salvataggio) lucrando in cambio prebende di vario genere, legate ai loro core business, dalle concessioni pubbliche autostradali (vedi Benetton e Gavio) alle commesse pubbliche infrastrutturali (vedi Ligresti, Tronchetti, Caltagirone).

E gli azionisti, e soprattutto gli obbligazionisti della compagnia? Saranno tutelati, promette Tremonti, perché "il risparmio è sacro". Da profani, vorremmo capire come si articolerà questa tutela. Al momento non se ne sa nulla.

Cosa resta, alla fine del giro? Una piccola Alitalia, drasticamente ridimensionata nelle ambizioni industriali e nelle relazioni internazionali. È vero, la cloche resta in mano al governo italiano, e i francesi potrebbero rientrare con una quota di minoranza. Ma forse è proprio questo il problema: l'Italietta si tiene la sua Alitalietta. Detto altrimenti: resta la bandiera, ma della compagnia rimane poco. Ora i sindacati hanno poco da protestare: hanno avuto quello che si meritano. E le opposizioni non hanno granché da criticare: hanno pagato i loro demeriti.

E oggi il Pd, nonostante le assennate parole di Veltroni e Bersani, è sostanzialmente privo di voce perché politicamente privo di identità: il suo ministro ombra delle Attività Produttive, il giovane Matteo Colaninno, dovrebbe attaccare il pasticcio Alitalia ma non può farlo perché porta lo stesso cognome del presidente in pectore della "Nuova Alitalia", il padre Roberto Colaninno.

Chi paga, per questa magnifica "bicamerale dei cieli" (come l'ha definita Europa) tentata grazie alla banca più vicina al centrosinistra e alla nomina di un commissario ex-ulivista? Lo Stato, che non incasserà nulla dall'operazione ma si accollerà gli oneri sociali per la gestione degli esuberi. L'operazione "non pesa sui cittadini", assicura il Cavaliere. Ha ragione, ancora una volta: non pesa, li schianta. Guardavamo a questo centrodestra di "nuovo conio", uscito straordinariamente forte e volitivo dalle urne del 13 aprile, come a una squadra di chiara marca conservatrice e liberista. E invece sembrano usciti dal solito, vecchio album di famiglia delle PpSs della Prima Repubblica. Gli eredi, malriusciti, dell'Efim e della Gepi.

lunedì 1 settembre 2008

fini e l'area protetta di giannutri

Lunedi 26 agosto il presidente della camera e la sua compagna si sono immersi illegalmente nell'area protetta di Giannutri. Colti sul fatto, si sono scusati per la "leggerezza" e disponibili a pagare la multa (max 2000 euro a testa).
Per me sono nello stesso piano di chi si riempie le tasche al supermercato e quando è scoperto alla cassa si scusa ed è disponibile a pagare il conto.....
A cosa servono le multe, in casi come questi? a nulla....seguendo le sue orme , un qualsiasi miliardario potrebbe essere tentato di immergersi con la sua amichetta, che vuoi che siano 2000 euro di multa in confronto ad un'emozione.....
E che dire dei vigili del fuoco che lo hanno accompagnato? Anche loro non conoscevano la zona? Ma ci faccia il piacere, direbbe Totò...
greg

tifosi e criminali

I tifosi del Napoli hanno assaltato e sequestrato un treno, costretto i viaggiatori a scendere, distrutto carrozze, ecc.
In quale Paese del mondo questo sarebbe possibile?
Dovessero ripetersi fatti di questo genere, suggerisco che il treno venga fatto partire e poi fermato in aperta campagna per identificare tutti. E i danni, materiali e morali, li paghi la società, di concerto con i tifosi. Ma questi sono solo sogni, in un Paese dove la certezza della pena è inesistente.....
greg

alitalia vista da scalfari

Le sorti magnifiche
della cordata tricolore
di EUGENIO SCALFARI

Ha detto Giulio Tremonti: "Il governo Prodi ci ha lasciato due disastri: l'immondizia di Napoli e l'Alitalia, oltre ad una situazione economica e finanziaria spaventosa. Il presidente Berlusconi ha risolto in 58 giorni il problema dei rifiuti e in 120 giorni ha salvato l'Alitalia. Noi abbiamo rimesso i conti a posto con la Finanziaria di luglio".

Giovedì è stato il giorno del trionfo e le celebrazioni sono continuate nei giorni successivi insieme a una pioggia di nuovi annunci sul federalismo, sulla sicurezza, sulla sanità, sulla scuola.

Ha parlato Berlusconi in tivù. Ha parlato Cicchitto. Hanno parlato Bossi, Calderoli, Maroni. Ha parlato Gelmini. Ha parlato Bombassei della Confindustria, anche lui magnificando la politica del fare rispetto a quella del dire e bruciando il suo chicco di incenso al culto berlusconiano. Qualcuno non ha mancato di indicare alla gogna i giornali "radical-chic" che si ostinano a non unirsi al coro e che comunque "non contano niente di fronte ai trionfali sondaggi di questo scorcio agostano".

Infine ha parlato anche Roberto Colaninno, presidente "in pectore" della nuova Alitalia, con un'intervista rilasciata al nostro direttore Ezio Mauro e pubblicata venerdì scorso. Un'intervista di grande interesse perché Colaninno spiega la filosofia imprenditoriale che ha indotto lui e altri quindici imprenditori italiani a impegnare oltre un miliardo di euro per salvare dal fallimento la compagnia di bandiera indipendentemente dalle opinioni politiche di ciascuno di loro.

Colaninno si è sempre proclamato di sinistra ed ha ribadito in quell'intervista la sua collocazione ma le sue opinioni politiche - ha detto - non hanno niente a che vedere con la sua visione imprenditoriale. L'Alitalia era un'occasione per mettere quella vocazione alla prova rischiando anche un po' di soldi (nel suo caso 200 milioni che non è poca cosa).

Questo ha fatto insieme ad altri suoi compagni di cordata. Chiede di esser giudicato sui risultati.

Alle domande criticamente incalzanti di Ezio Mauro ha risposto che non stava a lui di distribuire torti e responsabilità sul disastro Alitalia e neppure sui provvedimenti che il governo avrebbe preso per render possibile la nuova avventura della compagnia di bandiera. "Una cosa è certa" ha detto "l'Alitalia è fallita. Per farla rinascere bisognava liberarla dai pesi del fallimento. Ora si riparte da qui".

"Incipit nova historia".

La filosofia imprenditoriale è sempre stata questa, non è una scoperta di Colaninno e non ci stupisce. Neppure stupisce che quella filosofia si sia richiamata nel tempo con eguale vigore al libero mercato, al protezionismo, perfino all'autarchia, operando per salvaguardare il profitto d'impresa nelle condizioni storicamente date.

Il profitto (l'ho scritto più volte) è la sola variabile indipendente che l'impresa prende in considerazione ed è la sua unica modalità. In un sistema capitalistico le cose stanno così. La democrazia, cioè la sovranità popolare, può correggere questa filosofia capitalistica introducendovi dosi più o meno forti di socialità, di pari opportunità, di visione generale del bene comune.

Non è accettabile invece che la legittima vocazione imprenditoriale al profitto sia fatta passare per dedizione alla salvezza del Paese e alle sue "magnifiche sorti e progressive". Colaninno nella suddetta intervista ha battuto ripetutamente su questo tasto senza forse rendersi conto che, se si rivendica anche un ruolo di salvatori della patria ci si espone inevitabilmente all'esame delle "condizioni date" entro le quali l'operazione specifica avviene, chi ci guadagnerà e chi ne pagherà il conto.

Se ci si veste da salvatori bisogna rispondere alle critiche e non liberarsene con la frase "che altro può fare un imprenditore?".

L'imprenditore può fare tante cose tra le quali anche astenersi dal partecipare ad operazioni che hanno un contenuto eminentemente politico assai più che di vantaggio economico per la collettività.

L'imprenditore non è necessariamente un maniaco del fare. Se vuole anche la patente di salvatore, allora si rassegni ad ascoltare qualche opinione difforme dalla sua.

* * *

Francesco Giavazzi ha scritto sul Corriere della Sera di mercoledì un articolo sull'Alitalia nello stesso giorno in cui anch'io mi cimentavo con quell'argomento. La coincidenza e l'ispirazione sostanzialmente comune mi ha fatto piacere se non altro perché sarebbe difficile accusare Giavazzi, come pure Deaglio e Boeri, di bolscevismo e di radicalismo scicchettone.

Su un punto tuttavia le mie opinioni non coincidono con quelle di Giavazzi. Egli teme che la cordata di Colaninno si sia imbarcata in un'iniziativa troppo rischiosa. Io penso invece, come Deaglio e Boeri, che quei sedici "capitani coraggiosi" abbiano giocato sul velluto avendo ricevuto la staffetta nelle migliori delle condizioni possibili da un governo che sarà comunque (e forse per alcuni di loro è già stato) concretamente riconoscente.

Basta scorrere il decreto legge uscito dal Consiglio dei ministri di giovedì: divisione della vecchia Alitalia in due società, una "cattiva" con tutte le passività in testa allo Stato, l'altra libera come un uccello in volo e affidata ai privati; sospesi i poteri dell'Antitrust per sei mesi al fine di render possibile la concentrazione Alitalia-AirOne e instaurare il monopolio della tratta Linate-Fiumicino; salvaguardare la nuova Alitalia da ogni rivalsa dei creditori e dei dipendenti; consentirle di acquistare da una società fallita tutta la polpa (aerei, slot, diritti di volo, personale dipendente necessario); aprire un negoziato con i sindacati per portarli, già domati, a stipulare contratti nuovi col nuovo vettore.

Un caso tipico di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, che sarà probabilmente esteso anche ad Air France o a Lufthansa se entreranno per una quota nell'Alitalia nascente.

Chi voglia confrontare l'accordo offerto dai francesi nel marzo scorso vedrà che le differenze sono macroscopiche. Allora non si parlava né di fallimento né di legge Marzano né di divisione in due società, ma dell'acquisto di Alitalia in blocco con i suoi debiti, i suoi dipendenti, la sua flotta. I francesi avrebbero anche pagato allo Stato un prezzo per le azioni e lanciato un'Opa per gli azionisti di minoranza. Avrebbero stanziato 2,600 miliardi per il primo rilancio e incluso Alitalia nel "network" Air France-Klm.

Berlusconi (ma anche Colaninno) hanno definito quell'operazione una svendita. Ma l'operazione attuale come si può definire? Tutti gli oneri allo Stato, tutta la polpa ai privati, Air France compresa se entrerà come azionista. Io direi che un'operazione così si definisce politica di immagine e imbroglio economico.

Sergio Romano, sul Corriere della Sera di ieri ha scritto che l'opposizione dovrebbe collaborare. Non riesco a capire per molti ed egregi opinionisti il ruolo dell'opposizione. Deve collaborare sulla sicurezza, sul federalismo, sulla giustizia, sulla legge elettorale, sulle riforme costituzionali, sulla scuola, sulla sanità. Ed anche su questo pasticcio dell'Alitalia.

Quello che non capisco è dove si può fare opposizione. Sulle fontanelle di quartiere, sindaci di destra permettendolo? Sarebbe interessante saperlo. In realtà si vorrebbe un'opposizione al guinzaglio, un'opposizione addomesticata. Non mi pare sia questo il suo ruolo in una democrazia liberal-democratica. Gli Usa insegnano.

* * *

Forse la parola imbroglio può sembrare eccessiva. Vediamo dunque da vicino alcuni lineamenti dell'operazione.

1. Gli esuberi previsti vanno da un minimo di cinquemila ad un massimo di settemila. Il ministro del "welfare", Sacconi (e prima di lui Berlusconi e Tremonti) assicura che nessun dipendente sarà lasciato per strada. Esistono infatti da quarant'anni alcuni ammortizzatori sociali, la cassa integrazione a zero ore e la mobilità permanente, per un totale di sette anni. Sacconi non inventa nulla che già non vi sia. Ma la cassa integrazione ha un suo plafond e non può estendersi all'infinito. Se si va oltre il limite bisognerà rifinanziarla o inventare nuovi ammortizzatori e nuovi finanziamenti. La questione va considerata con attenzione in tempi di crescita zero del Pil e di incombente disoccupazione.

2. Il governo prevede incentivi e detassazioni per le imprese private che assumano i licenziandi Alitalia. È evidente (Fassino l'ha ricordato ieri) che non si può limitare un provvedimento così anomalo al solo caso dell'Alitalia. Non si possono fare leggi speciali che valgano per un solo soggetto e non per altri. Perciò, se un provvedimento del genere sarà preso, bisognerà estenderlo a tutti gli esuberi che si verificheranno in futuro. Quanto costa una copertura di queste dimensioni?

3. Il governo prevede anche che i piccoli azionisti Alitalia siano indennizzati. Come e in che misura? Attingendo al fondo di garanzia creato per indennizzare i risparmiatori truffati dall'emissione di "bond" fasulli, tipo Parmalat, Cirio, "bond" argentini. Credo che quel fondo sia insufficiente a indennizzare gli azionisti Alitalia. Comunque la fattispecie è completamente diversa. Ma anche qui: se si adotta una strategia di questo genere bisognerà poi estenderla a tutti i piccoli azionisti travolti da crisi societarie. Lo Stato è in grado di assumersi una responsabilità di queste dimensioni? Intervenendo in questo modo mai visto prima sulla Borsa italiana? A me sembra una favola. Anzi l'ennesimo imbroglio.

4. È stato stabilito che gli azionisti della cordata Colaninno non potranno vendere le loro azioni nei prossimi cinque anni, passati i quali saranno liberi di fare quello che più gli sembrerà opportuno. Vedi caso: la scadenza è nel 2013 e coincide con la fine della legislatura. È molto probabile che il grosso dei soci della cordata, che niente hanno a che vedere col trasporto aereo, escano dalla società. Tanto più che avranno come consocio un vettore aereo internazionale, Air France o Lufthansa che sia. In questa vicenda il socio internazionale è destinato ad avere la stessa posizione della spagnola Telefonica in Telecom. È il solo che ne capisce ed è il solo che alla lunga resterà al timone. Ho già scritto che tutta questa vicenda mi ricorda il gioco dell'oca, quando si torna indietro alla casella di partenza. Alla fine avremo una compagnia guidata da un vettore internazionale perché non c'è più spazio in Europa e nel mondo per vettori locali nel mercato globale. La sola differenza sarà che il vettore internazionale avrà speso molto meno di quanto sarebbe avvenuto cinque anni prima.

Questa sì, sarà una svendita preceduta da un imbroglio. Le perdite allo Stato (cioè a tutti noi) i profitti ai privati, nazionali e stranieri. Un imbroglio che camuffa una svendita. La Frankfurter Allgemeine ha scritto ieri: "Un'operazione insolente contro il mercato e contro l'Europa". Ambasciatore Romano, l'opposizione deve collaborare?
(31 agosto 2008)