mercoledì 30 aprile 2008

Perché l’occidente non va a sinistra

Giorgio Ruffolo -
Perché l’occidente non va a sinistra
da "La Repubblica" del martedì 29 aprile 2008

Francesco Algarotti, umanista insigne, racconta, in una novella bizzarra di quel fischio che si congelò in inverno per rifischiare allegro in primavera. Più di venti anni fa, su Micromega, ripresi quello scherzo come metafora di una sinistra che mi sembrava congelata augurandomi, ma con qualche dubbio, che riprendesse a fischiare in una nuova primavera politica. Quel rifischio non l´abbiamo mai sentito. Anzi, in un libro intitolato Il mostro mite Raffaele Simone, riferendosi proprio a quel mio articolo, ne riprende il tema, sviluppandolo in una analisi rigorosa e impietosa, nella quale si domanda «perché l´Occidente non va a sinistra».
Per rispondere alla domanda è impossibile evitare quella che viene prima, ovvia e abusata. Ha ancora significato quella distinzione tra destra e sinistra? Io credo di sì (e il miglior modo di rivelarla è proprio quello di porre questa domanda. Si può stare sicuri che chi risponde che quella distinzione non ha significato è di destra). Ma credo anche che abbia mutato significato. Per circa due secoli, dalla rivoluzione francese in poi, la destra è stata identificata con la conservazione, la sinistra con l´innovazione.

Da tempo non è più così
. Si sarebbe tentati dal pensare che le parti si siano invertite. La destra è carica di spiriti irruenti, sedotta dall´innovazione, votata alla crescita, incline alla competizione, anelante al successo. La sinistra richiama l´osservanza delle regole, la fedeltà alle istituzioni, l´ordine della convivenza, la moderazione degli "animal spirits" in nome dell´eguaglianza. Insomma, la destra è all´attacco, la sinistra è sulla difensiva.
Di solito l´indebolimento politico della sinistra – poiché di questo si tratta – è attribuito ai suoi errori e ai suoi orrori.

Agli orrori del comunismo, certo: mai una rivoluzione emersa come potenza liberatrice si è rovesciata e corrotta nella più tetra e lugubre delle oppressioni. Che qualcuno ne nutra nostalgia è materia non di politica ma di psichiatria. Anche agli errori e agli eccessi di un´invadenza statalistica e sindacale che hanno guastato in parte il successo peraltro grandioso del solo socialismo realizzato: quello delle socialdemocrazie e del welfare state.
Ma né gli orrori né gli errori della sinistra spiegano il vero e proprio "rovesciamento della prassi" politica intervenuto nel recente mezzo secolo. La causa principale del quale sta nella scomparsa della "questione sociale" dal centro della scena politica: del conflitto storico tra capitalisti e operai, dovuta a una rivoluzione del modo di produrre e del modo di pensare.
Il formidabile aumento della produttività ha consentito di ridurre la pressione capitalistica sul lavoro spostandola sulle risorse naturali attraverso un gigantesco aumento dei consumi (Reichlin lo ha ben spiegato in un suo recente articolo). La massa omogenea del proletariato industriale si è articolata in un mondo del lavoro dotato di miriadi di competenze specifiche. L´effetto combinato di queste due correnti pesanti ha causato uno spostamento del fulcro dell´economia dal lavoro al consumo e dal lavoro collettivo al lavoro individuale.
Questa torsione del modo di produrre ha generato nelle grandi masse un nuovo modo di pensare. Mentre l´antagonismo dei rapporti di lavoro si riduceva, aumentava l´interesse comune al consumismo. Mentre nel nuovo mondo di un lavoro eterogeneo si attenuava la spinta alla solidarietà, si accentuava l´attrazione verso la cornucopia permissiva traboccante dai mille specchi della pubblicità. Ciò che la neodestra propone – dice in sostanza Simone – è un patto con un diavolo sorridente, con un "mostro mite", che promette di tutto e di più mentre offre un lavoro che può spingersi fino ai limiti del trastullo; come fa Google quando raccomanda ai suoi "ospiti" (come chiamarli altrimenti? lavoratori?) di dedicare almeno un quinto del tempo di lavoro a sane distrazioni. Tocqueville, che aveva previsto proprio tutto, pronosticò l´avvento di un governo «che vuole che i cittadini se la godano, purché non pensino ad altro che a godersela» un governo; che – aggiunge Simone – «assicuri al maggior numero di persone un fascio di esperienze gradevoli e vitalizzanti, che accrescano il loro benessere fisico e psicologico, ma soprattutto le inducano a consumare». Nel suo immaginario non c´è posto né per il padrone delle ferriere né per l´ingegner Taylor col suo cronometro che scandiva le ore piene e i minuti vuoti, ma per quel tempo preso dal divertimento che è diventato l´essenza del lavoro, un sempre più prolungato e affollato weekend.

In questa economia del consumo, si forma sì, un (sotto) proletariato, ma ai margini della società, come "rifiuto", «non certo come scuola di solidarietà e di fratellanza, ma come fonte di inquinante turbolenza in quelle discariche che sono diventate le periferie metropolitane. La massa del ceto medio, quello che meglio si definirebbe il ceto di massa, condivide con l´élite plutocratica valori privati: il postulato di superiorità (io sono il primo tu non sei nessuno); il postulato di proprietà (questo è mio e nessuno me lo tocca); il postulato di licenza (io faccio quello che voglio e come voglio); il postulato di non intrusione dell´altro (non ti immischiare negli affari miei); il postulato che tutti li riassume, di superiorità del privato sul pubblico (fino all´abuso del pubblico come cosa privata). Non può stupire allora che al centro della scena politica sia subentrata alla questione sociale la questione fiscale: il conflitto tra Stato e contribuenti che pretendono servizi pubblici sempre più costosi (perché a differenza di quelli privati non possono essere fronteggiati con aumenti significativi della produttività) ma non tollerano che siano finanziati "mettendo le mani nelle loro tasche".

Questo privatismo è l´opposto dell´individualismo. Mentre quello è espressione di personalità forti, caratterizzate, aperte alle relazioni con gli altri; questo, incerto e timoroso di contatti interpersonali (come chi evita persino le strette di mano) si esprime politicamente non attraverso la discussione, che aborre, ma in quell´attruppamento infatuato attorno a capi carismatici in cui si riconosce la forma moderna del populismo.

Populismo e privatismo si fondono perfettamente nell´ideologia apolitica della neodestra. Sono l´espressione di una formidabile tendenza alla disgregazione sociale che qualcuno (Bauman) traduce nella metafora della "liquefazione". Marx denunciò per primo la tendenza dissolvente insita nel capitalismo: «Tutto ciò che è solido si disperde nell´aria». Questo è appunto uno dei rischi supremi del nostro tempo: quello di una società polverizzata esposta ai venti delle mobilitazioni irrazionali. L´altro, all´altra estremità di una società privatistica e consumistica, è la distruzione del capitale naturale provocata da una crescita economica illimitata e dissennata.

A questi due supremi rischi cui il mite mostro della nuova destra espone l´umanità del nostro tempo, la sinistra non sa opporre che una sterile contestazione o una mimesi compiacente: un pensiero debole. Fino a quando non saprà costruire in un pensiero forte le fondamenta istituzionali di un nuovo ordine mondiale che sia in grado di reggere e regolare la poderosa complessità della globalizzazione, il campo sarà pericolosamente aperto ai demagoghi del mite inganno.


di Giorgio Ruffolo da la Repubblica del 29 aprile 2008

giovedì 10 aprile 2008

viabilità a Brescia

(lettera inviata al Direttore del Giornale di Brescia ma MAI PUBBLICATA))
Tra i temi della campagna elettorale, emerge quello della viabilità. Ritengo che forse il principale problema della giunta uscente sia stato il trovarsi a voler realizzare contemporaneamente un po’ troppe cose: Lam, metropolitana, messa in sicurezza degli incroci sostituiti dalle rotonde, piste ciclabili, la viabilità della “Freccia Rossa” e del comparto Milano, alle quali si sono sommati e ancora si sommano i lavori programmati dalla Provincia in territorio comunale di ampliamento della tangenziale. Sono imprese che avrebbero messo in crisi qualsiasi città anche se affrontati uno per volta, figuriamoci tutti insieme.
La stretta interdipendenza di questi fattori è dimostrata dal fatto che gli ingorghi non sono costanti: dipendono dall’evoluzione dei cantieri (vedi ad esempio al mattino ore 8.00, tratto via Maggia /incrocio della Volta: talvolta file interminabili, altre tutto va via liscio).
E ovviamente c’è chi, in questa campagna elettorale, se eletto vorrebbe ribaltare tutto: riaprire il centro cittadino al traffico, in nome della presunta italica libertà di fare ognuno quello che gli pare, rimuovere piste ciclabili e le corsie LAM per gli autobus. Come si dice a Brescia, fare e disfare è tutto lavorare….Ho più di cinquant’anni e ben mi ricordo il traffico allucinante che c’era in Corso Martiri e in Via Pace, il parcheggio in Piazza Loggia, l’orribile situazione in Corso Garibaldi intasata dalle auto. E il favoleggiato traffico ad “onda verde” di Via XX Settembre andava a chiudersi ad imbuto, ieri come oggi, quando si trattava di congiungersi con Via Diaz.
Per quanto riguarda le ZTL, forse sarebbe opportuno ricordare che esistono da tempo, solo che…era difficile farle rispettare: il polverone è nato quando è stato introdotto un metodo (un po’ complicato, per la verità) di controllo degli accessi automatizzato e sono cominciate le multe senza guardare in faccia nessuno.
E’ curioso inoltre notare che proprio sul sito web del candidato sindaco più avverso alla loro esistenza compare un sondaggio nel quale su 289 votanti è in testa con il 29,8% chi le ritiene “importanti per la tutela del nostro centro”, seguito dal 19% che pensa siano “una giusta scelta ambientale”, e solo il 14,5% le ritiene “una penalizzazione per i commercianti “ (dati alle 21.23 del 9 aprile 2008).
Forse, più che seguire slogan dallo scarso respiro e la cui realizzazione costerebbe ancora soldi ai cittadini sarebbe opportuno che il nuovo Consiglio Comunale prevedesse, terminati tutti i lavori, di potenziare veramente la rete dei trasporti pubblici (la metropolitana coprirà solo una piccola parte della città) in modo che i bresciani siano veramente invogliati a lasciare a casa l’auto. Progetti realizzati ci sono , in tutta Europa: basta cercare in internet “mobilità sostenibile”, e non c’è neppure bisogno di scomodare costosi consulenti….
Giorgio Gregori - Brescia

Il grano è impazzito e il mondo ha fame

9 aprile 2008
Il grano è impazzito e il mondo ha fame
Paul Krugman - La Repubblica

Ma sono a dir poco devastanti nei Paesi poveri, dove il cibo costituisce molto spesso oltre la metà della spesa di un nucleo famigliare.

Nel mondo sono già scoppiati disordini per la crisi alimentare. I Paesi che esportano cereali – dall´Ucraina all´Argentina – stanno ponendo un limite alle esportazioni nel tentativo di tutelare i loro consumatori, suscitando così le forti e irate proteste dei coltivatori e peggiorando la situazione nei Paesi costretti necessariamente a importare i generi alimentari di cui hanno bisogno.

Come si è arrivati a tanto? Troviamo risposta a questo interrogativo nel convergere di trend a lungo termine, calamità naturali e pessime politiche.

Iniziando a esaminare i fattori non imputabili a nessuno, dobbiamo prima di ogni altra cosa tener conto dell´"avanzare" della massa di cinesi che consumano carne, ovvero del crescente numero di individui delle economie emergenti che per la prima volta sono abbastanza ricchi da potersi nutrire come gli occidentali. Poiché per produrre una bistecca che fornisce 100 calorie occorre una quantità di mangimi animali pari a 700 calorie, questo semplice cambiamento nel regime alimentare umano comporta un aumento della domanda complessiva di cereali.

Secondo: il prezzo del petrolio. Le moderne tecniche agricole richiedono un notevole dispendio energetico: si utilizzano molte Btu (British Termal Unit, unità di misura dell´energia usata nei Paesi anglosassoni che non adottano il nostro Joule; una Btu è la quantità di calore necessaria ad alzare la temperatura di 454 grammi di acqua da 60 a 61 gradi Fahrenheit, NdT) per produrre i fertilizzanti, far funzionare i trattori e, non ultimo, trasportare ai consumatori i prodotti agricoli. Con il petrolio che rimane costantemente sopra ai 100 dollari al barile, i costi energetici sono diventati una delle cause principali dell´aumento delle spese agricole. L´alto costo del petrolio – a proposito – ha molto a che vedere con la crescita della Cina e di altre economie emergenti: direttamente e indirettamente queste potenze economiche in ascesa si stanno mettendo in concorrenza con noi per accaparrarsi risorse ormai scarse, compresi il petrolio e la terra coltivabile, e ciò incide sui prezzi delle materie prime di ogni tipo che naturalmente aumentano.

Terzo, nelle principali aree di produzione dei cereali si è registrato un susseguirsi di calamità naturali. In particolare l´Australia, di norma il secondo Paese al mondo per le esportazioni di grano, sta vivendo una siccità spaventosa.

Pur avendo premesso che questi fattori alle radici della crisi alimentare non sono imputabili a nessuno, non è proprio così: l´ascesa della Cina e di altre economie emergenti è sì la causa primaria dell´aumento del prezzo del petrolio, ma l´invasione dell´Iraq – che secondo chi la volle avrebbe dovuto al contrario portare a un abbassamento notevole del costo del petrolio – ha oltretutto ridotto significativamente le scorte di greggio, molto più di quanto non sarebbe avvenuto altrimenti.

Le avverse condizioni climatiche, specialmente la siccità in Australia, probabilmente sono in relazione al cambiamento del clima, pertanto le leadership politiche e i governi che hanno intralciato le iniziative miranti a ridurre le emissioni di gas serra sono in effetti responsabili quanto meno in parte delle penurie alimentari.

Dove sono quanto mai evidenti le pessime politiche, tuttavia, è nella crescita del "demone" etanolo e di altri biocarburanti. Si presumeva che la conversione delle colture in combustibile, promossa tramite i sussidi, dovesse favorire l´indipendenza energetica e contribuire a ridurre il riscaldamento globale. Invece questa promessa – per dirla con le parole categoriche di Time Magazine – era "una truffa".

Ciò è quanto mai vero per l´etanolo ottenuto dal mais: perfino dalle stime più ottimistiche risulta che per produrre dal mais un gallone di etanolo è necessaria una quantità di energia pari alla maggior parte di quella che il gallone stesso assicura. Si è anche scoperto che le politiche apparentemente "buone" di sussidi ai biocarburanti – quali l´uso da parte del Brasile di etanolo ottenuto dalla canna da zucchero, per esempio – accelera il ritmo col quale si determina il cambiamento climatico perché incentiva la deforestazione.

Nel frattempo, la terra utilizzata per coltivare la materia prima dei biocarburanti non è ovviamente utilizzabile per coltivare prodotti destinati all´alimentazione umana e di conseguenza i sussidi ai carburanti sono un fattore determinante nella crisi alimentare. Possiamo anche metterla in questi termini: in Africa la gente muore di fame affinché i politici americani possano andare in cerca di voti negli Stati agricoli americani.

Nel caso ve lo stiate domandando: tutti i candidati rimasti che aspirano alla presidenza degli Stati Uniti sono tremendi, da questo punto di vista. Un´altra cosa ancora: una delle ragioni per le quali la crisi alimentare è diventata così grave, in così poco tempo e con tale rapidità, è che i principali attori del mercato dei cereali sono diventati compiacenti.

I governi e i rivenditori indipendenti di cereali erano soliti in tempi normali tenere da parte ingenti scorte, nel caso in cui un cattivo raccolto avesse provocato una penuria improvvisa. Nel corso degli anni, però, tali scorte precauzionali poco alla volta si sono rimpicciolite, soprattutto perché tutti erano ormai pervenuti a ritenere che i Paesi colpiti da un´insufficienza di raccolti potessero in ogni caso importare gli alimenti di cui avevano bisogno.

Ciò ha reso l´equilibrio alimentare mondiale quanto mai vulnerabile nei confronti di una crisi che colpisce molti Paesi a uno stesso tempo – nell´identico modo in cui la vendita di complessi titoli finanziari che si presumeva dovessero allontanare i rischi diversificandoli, ha conciato male i mercati finanziari globali, rendendoli fortemente vulnerabili a un grande shock di sistema.

Che fare, adesso? La necessità più impellente è aiutare le popolazioni colpite dalla crisi alimentare: il Programma Alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha lanciato un disperato appello per reperire maggiori finanziamenti. Dobbiamo altresì ripudiare i biocarburanti che si sono rivelati un errore madornale. Non è chiaro, nondimeno, quanto si possa concretamente fare in merito. Forse gli alimenti a buon mercato sono una cosa del passato, ormai, proprio come il petrolio a buon mercato.


© 2008 The New York Times
Traduzione di Anna Bissanti